Edipo e la verità secondo Dürrenmatt

piziaAttraverso complicate variazioni sul mito di Edipo, il racconto “La morte della Pizia” di Friedrich Dürrenmatt offre la ricerca di una risposta alla domanda di senso delle vicende umane; una ricerca che non trova la soluzione definitiva, ma che lascia aperte le porte al mistero.
Quel che appare più evidente è l’attitudine dissacrante del racconto, che trasporta nel mondo greco antico l’incredulità novecentesca: né la Pizia, né l’indovino Tiresia hanno un benché minimo trasporto religioso e i loro responsi sono frutto del capriccio o dell’inganno. E tuttavia lascia profondi interrogativi il fatto che il destino di Edipo segua esattamente quanto avevano preannunciato due oracoli spaventosi (anche se con una significativa variazione rispetto al racconto di Sofocle), nonostante il vano tentativo di padre e figlio di sfuggire loro.
Infatti alla fine dell’opera Tiresia, pur essendo noto a lui, alla Pizia (e a noi lettori) che gli oracoli pronunciati non avevano alcuna fonte divina, deve riconoscere che essi si sono compiuti immancabilmente. Laio viene ucciso dal figlio (o dal nipote, secondo Dürrenmatt), Edipo uccide il padre – chiunque egli sia – e si unisce alla madre, la punizione per omicidio e incesto si compie. La riflessione dell’indovino da un lato mostra scetticismo e superbia, dall’altro si arrende all’evidenza: il mondo resta inspiegabile nella sua oscurità, tuttavia non si può escludere che qualcosa di superiore e di razionale esista.
Ci sono affermazioni che fanno pensare a un totale scetticismo. «La verità esiste in quanto tale soltanto se non la si tormenta»: iniziare a scavare porta a scoprire che ciò che sembrava vero, lo era solo in apparenza. E questo si rivela in modo evidente nella rivisitazione che Dürrenmatt compie del mito di Edipo. Tuttavia una verità esiste, anche se gli uomini faticano a trovarla: «Perché mai la gente dice sempre verità approssimative, come se la verità non risiedesse soprattutto nei singoli dettagli? Forse perché gli uomini stessi sono soltanto qualcosa di approssimativo». Viceversa la realtà è tutt’altro che approssimativa: «Se c’è una cosa che mi preoccupa, è che non esistono storie irrilevanti. Tutto è connesso con tutto. Dovunque si cambi qualcosa, il cambiamento riguarda il tutto».
Altrettanto interessante questa riflessione di Tiresia rivolta alla Pizia: «Come te non ho fede negli dèi e credo invece nella ragione, e proprio perché credo nella ragione sono persuaso che l’insensata fede negli dèi debba essere sfruttata in maniera ragionevole. Io sono un democratico». Rimandando l’esame delle teorie politiche, va tenuto presente il tema della verità, e della sua conoscibilità. Nelle pagine finali Tiresia rivolgendosi con scetticismo alla Pizia, dice: «Non preoccuparti di ciò che può essere stato diverso da come ce l’hanno raccontato e che non smetterà di cambiare faccia se noi continueremo a indagare». E ancora: «Con il tuo oracolo hai inventato la verità». Poi però afferma, riferendosi al mondo: «In questa grande babilonia siamo noi i veri protagonisti. Noi due ci siamo trovati di fronte alla stessa mostruosa realtà, la quale è impenetrabile non meno dell’essere umano che ne è l’artefice. Forse gli dèi, ammesso che esistano, potrebbero godere dall’alto di una certa visione d’insieme, sia pure superficiale, di questo nodo immane di accadimenti inverosimili che danno luogo, nelle loro intricatissime connessioni, alle coincidenze più scellerate, mentre noi mortali che ci troviamo nel mezzo di un simile tremendo scompiglio brancoliamo nel buio. Con i nostri oracoli sia tu sia io abbiamo sperato di portare la timida parvenza di un ordine, il tenue presagio di una qualche legittimità nel truce, lussurioso e spesso sanguinoso flusso di eventi dai quali siamo stati travolti proprio perché ci sforzavamo di arginarli, sia pure soltanto un poco».
Quindi non solo gli dèi potrebbero esistere, ma è l’ordine proposto dagli uomini a fallire miseramente. Tiresia aggiunge: «Tu (Pizia) vaticinasti con fantasia, capriccio, arroganza, addirittura con insolenza irriguardosa, insomma: con arguzia blasfema. Io invece commissionai i miei oracoli con fredda premeditazione, con logica ineccepibile, insomma: con razionalità. Ebbene, devo ammettere che il tuo oracolo ha fatto centro. Se fossi un matematico potrei dirti con esattezza quanto fosse improbabile la probabilità che il tuo oracolo cogliesse nel segno: era straordinariamente improbabile, infinitamente improbabile. Eppure il tuo improbabilissimo responso si è avverato, mentre sono finiti in niente i miei responsi così probabili e dati ragionevolmente con l’intento di fare politica, e cambiare il mondo, e renderlo più ragionevole. Oh, me stolto. Io con la mia ragionevolezza ho messo in moto una catena di cause e di effetti che hanno dato luogo a un risultato esattamente opposto a quello che avevo in mente di ottenere». Se da un lato quindi si potrebbe addirittura mettere in discussione l’asserita casualità della profezia della Pizia (Edipo che diventa patricida e incestuoso), dall’altro è tutt’altro che pacifico il fatto che gli oracoli di Tiresia fossero «probabili e razionali»: sia che Laio spaventato dovesse evitare di avere figli e adottare Anfitrione, sia che l’assassino di Laio dovesse essere Creonte non paiono due assunti indiscutibilmente logici. Sulla base delle sue fallaci opinioni quindi, Tiresia ha indotto la Pizia ad atterrire Laio (senza salvarlo) e a far partire l’indagine che ha portato alla rovina Edipo.
Alla fine tre sono le risposte che Tiresia propone sulla causa del destino di Edipo: la volontà degli dèi, la trasgressione di alcuni princìpi sui quali si regge la società dei nostri tempi, oppure un caso sfortunato evocato con il capriccioso vaticinio della Pizia. Il caso rimane aperto e insoluto.
Del resto poco prima Tiresia aveva ammesso che sempre ci sarà contrapposizione tra due concezioni opposte sul mondo che ci circonda, senza che sia possibile avere una risposta certa e definitiva sulla verità: «Per tutta l’eternità quelli che reputano il mondo un sistema ordinato dovranno confrontarsi con coloro che lo ritengono un mostruoso caos. Gli uni penseranno che il mondo è criticabile, gli altri lo prenderanno così com’è. Gli uni riterranno che il mondo è plasmabile come una pietra cui si può con uno scalpello far assumere una forma qualsivoglia, gli altri indurranno alla considerazione che, nella sua impenetrabilità, il mondo si modifica soltanto come un mostro che prende facce sempre nuove, e che esso può essere criticato non più di quanto il velo impalpabile dell’umano intelletto possa influenzare le forze tettoniche dell’istinto umano. Gli uni ingiurieranno gli altri chiamandoli pessimisti, e a loro volta saranno da quelli irrisi come utopisti. Gli uni sosterranno che il corso della storia obbedisce a leggi ben precise, gli altri diranno che queste leggi esistono solamente nella immaginazione degli uomini».
Tornando alle dottrine politiche, Tiresia fa un’affermazione curiosa sulla democrazia (di cui si è proclamato seguace): «Ti concedo che la fedeltà sia una virtù meravigliosa e onestissima; ma tu non scordare che non c’è dittatura senza fedeltà, la fedeltà è la solida roccia sulla quale si erige lo Stato totalitario, che senza di essa affonderebbe nella sabbia; per la democrazia è necessaria invece una certa mancanza di fedeltà, una attitudine più svolazzante, più irresoluta, più fantasiosa». E non va dimenticato che uno Stato totalitario prevede «sangue a pranzo e a cena, i bambini handicappati eliminati alla nascita, ogni giorno esercitazioni militari, eroismo come dovere civico». Persino in tema di giustizia, gli uomini preferiscono un comportamento incoerente: «Niente al mondo, infatti, l’uomo sopporta con più difficoltà di una giustizia implacabile. Proprio questa egli ritiene supremamente ingiusta. Tutti i tiranni che fondano il loro dominio su grandi princìpi, l’uguaglianza dei cittadini tra loro o l’idea che i beni di ognuno appartengano a tutti, suscitano in coloro sui quali esercitano la loro potestà un sentimento di soggezione incomparabilmente più mortificante di quelli che, anche se assai più ignobili, si accontentano (come Laio) di fare i tiranni, troppo pigri per addurre una qualsiasi giustificazione al proprio comportamento: essendo la loro dittatura lunatica e capricciosa, i sudditi hanno la sensazione di poter godere di una certa libertà. Non si sentono tiranneggiati da una arbitraria necessità che non consente loro speranza alcuna, ma piuttosto da un arbitro assolutamente casuale che ancora permette qualche speranza». Anche se nei fatti gli uomini talvolta si lasciano soggiogare. «Mi interessava capire – dice la Sfinge – come mai gli uomini si lascino opprimere: per amore del quieto vivere, ho concluso, che spesso li induce addirittura a inventarsi le teorie più assurde per sentirsi in perfetta sintonia con i loro oppressori, come del resto gli oppressori escogitano teorie non meno assurde pur di riuscire a illudersi di non opprimere gli individui su cui esercitano il loro dominio».
Interessante, per concludere, un’affermazione che dovrebbe farci riflettere, presi come siamo spesso dall’ansia di interrogare il domani trascurando di vivere con impegno l’oggi: «Solo la non conoscenza del futuro ci rende sopportabile il presente – dice Tiresia –. Mi sono sempre stupito e continuo a stupirmi immensamente che gli uomini siano tanto smaniosi di conoscere il futuro. Sembra quasi che preferiscano l’infelicità alla felicità».

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