Sulla sentenza della Corte suprema dell’India che ha rifiutato di riconoscere il brevetto di Novartis su un antitumorale, questa è la mia intervista pubblicata oggi su Avvenire (pag. 4) alla biogiurista Mariachiara Tallacchini.
Stanno cambiando in tutto il mondo e in diversi ambiti i paradigmi del fare scienza, e soprattutto della trasmissione della conoscenza, che appare sempre meno confinabile in un brevetto. Mariachiara Tallacchini, docente di Filosofia del diritto e Scienza, Tecnologia e Diritto presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Piacenza, intravede nell’ennesima sentenza, in questo caso indiana, lo sgretolarsi di un modello che richiede un ripensamento ad ampio raggio.
Si può parlare di sentenza “politica” tesa a difendere il proprio interesse nazionale?
Direi di no. Talvolta lo sono state, soprattutto quando si trattava di decisioni di governi: Canada, Sudafrica, Francia, per esempio che hanno rifiutato di rispettare un brevetto. In questo caso il no è passato attraverso una corte, cioè il meccanismo usuale per queste decisioni, come gli uffici dei brevetti hanno preso decisioni anche politiche arroccandosi dietro il linguaggio tecnico, con cui gli ingegneri riescono a trovare un passaggio inventivo. La logica anche politica degli uffici dei brevetti non convince più. E proprio l’India sta prendendo le contromisure con alcune iniziative.
Di che cosa si tratta?
Il governo indiano ha avviato la costituzione della Traditional knowledge digital library (Tkdl), dove vengono digitalizzate e conservate tutte le conoscenze (in sanscrito) che corrispondono a tutta la sapienza tradizionale del Paese, che va da pratiche agrarie alla farmacopea agli usi industriali. Tutto questo per evitare il ripetersi dell’effetto del neem, (l’albero tradizionalmente utilizzato dagli indiani per molte sue proprietà curative, al centro di una lunga battaglia legale per la revoca di un brevetto su un suo derivato ottenuto da un’azienda occidentale). In quel caso alla fine gli indiani hanno vinto davanti al Wto perché hanno dimostrato che mancava l’aspetto dell’innovazione, non erano davvero conoscenze innovative.
In questo caso?
Qui non si tratta di “traditonal knowledge”, ma di una molecola che ormai è nel dominio pubblico e che l’azienda voleva rinverdire con un brevetto che non aggiunge nulla. In generale è in atto una revisione delle modalità di accesso alla conoscenza, per cui si tende a ritenere che la conoscenza deve essere libera e non può essere legata da meccanismi di proprietà intellettuale. In particolare quando questo riguarda risorse condivise, come il patrimonio genetico…
Ma l’azienda come difende il suo lavoro allora?
In realtà il problema è che in tanti settori cambiano le forme di produzione della conoscenza: moltissima viene prodotta non nei luoghi dove si fa istituzionalmente ricerca, ma sempre di più con il coinvolgimento diretto delle persone, per esempio con sequenze genetiche di malati per trovare nuovi farmaci. Ricordiamo lo scandalo che ha creato la sequenza genetica per il Parkinson brevettata da “23andme” negli Stati Uniti, utilizzando i materiali biologici messi a disposizione da milioni di malati. E l’azienda si è difesa sottolineando come il problema siano i meccanismi di commercializzazione delle industrie farmaceutiche.
La questione sembra ampliarsi. Come se ne esce?
Attualmente nessuno ha la risposta legale certa per come proteggere adeguatamente l’innovazione, ma il problema non è quello dell’azienda che lamenta di non poter fare ricerca. Siamo di fronte a un passaggio del sistema di proprietà intellettuale che si sta sgretolando, anche l’industria si può impegnare nel trovare forme alternative. Pensiamo all’open source nell’informatica, o all’open access delle pubblicazioni scientifiche, alle start-up di “biologia nel garage”, o allo stesso copyright. Forse oggi non sarebbero più possibili la nascita dei colossi dell’informatica o della farmaceutica. Ma la questione più generale è quella dell’apertura della conoscenza.