Poesia e scienza nel viaggio di Dante tra le stelle

Una versione ampliata della recensione del libro Dante e le stelle, comparsa sulle pagine culturali di Avvenire lo scorso venerdì 10 giugno

AndromedaUn invito a rileggere e apprezzare la poesia più ardua e sublime del viaggio cosmico di Dante e uno sguardo sullo straordinario orizzonte del nostro attuale universo che le scoperte astronomiche da un lato svelano e dall’altro rendono più complesso: al punto che «l’alta fantasia» cui «mancò possa» (Par. XXXIII, 142) comunica suggestioni valide – sorprendentemente – anche per l’uomo del ventunesimo secolo. Sono gli esiti del dialogo che un italianista, Donato Pirovano, e un astronomo, Attilio Ferrari, hanno dedicato lo scorso anno alla poesia e alla visione cosmica della Divina Commedia al planetario di Torino, materializzatosi nel libro Dante e le stelle (Salerno Editrice, pagg. 124, euro 8,90).

Pirovano (docente di Filologia italiana e di Filologia e critica dantesca all’Università di Torino) ricorda che Dante ha sempre osservato con acuta attenzione i fenomeni celesti, intessendone la propria produzione letteraria sin dalla Vita nuova e dalle Rime fino alla tarda Quaestio de aqua et de terra (la dissertazione fisico-geologica svolta a Verona nel 1320). Ma se le perifrasi astronomiche per indicare le date nel libello giovanile (in apertura e in morte di Beatrice) possono apparire esercizio poco “poetico”, altri esempi tratti dalle opere minori mostrano invece un utilizzo delle coordinate della geografia celeste che prefigura l’ampio affresco della poesia paradisiaca.

La raffigurazione dantesca dell’universo diviso nei nove cieli (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, Stelle fisse e Primo Mobile) e circondato dall’Empireo era lo standard dell’alta cultura medievale, frutto dell’aggiustamento tomistico della tradizione aristotelico-tolemaica. Il quadro (che Dante arricchisce con notizie degli astronomi arabi) prima che nella Commedia è utilizzato alla fine della Vita nuova (come mostra il sonetto Oltre la spera che più larga gira) e nel Convivio, dove la canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete fa riferimento alle potenze d’amore che spirano appunto dal cielo di Venere. Le descrizioni astronomiche trovano spazio anche nelle rime petrose: la canzone Io son venuto al punto de la rota inizia infatti con un gioco di luce tra Sole e Venere, «preludio di quella poesia delle stelle – scrive Pirovano – che poi trionferà nella Divina Commedia».

Nel capolavoro dantesco infatti, le stelle hanno parte dall’inizio alla fine, e non solo perché le tre cantiche terminano con la parola “stelle” (in significativa opposizione alle umbrae che caratterizzano la fine della I e della X Bucolica e dell’Eneide virgiliane). I tempi del viaggio sono indicati con indicazioni astronomiche sin dal principio (Inf. I, 37-40), e Dante sottolinea l’assenza delle stelle nel buio dell’inferno (Inf. III, 23 «l’aere sanza stelle»). Com’è noto, i canti del Paradiso sono stati spesso meno apprezzati dalla critica: basta pensare alla distinzione crociana tra “struttura” e “poesia”. In realtà Pirovano mostra che i movimenti delle stelle, con i loro giochi di luci e colori, descritti nel Purgatorio e nel Paradiso, creano immagini ricche di una bellezza da rivalutare, come aveva suggerito già Piero Boitani (nel suo Il grande racconto delle stelle, pagg. 247-258). A partire dal sollievo che Dante prova all’affacciarsi «fuor de l’aura morta» alzando lo sguardo verso il cielo e notando il «dolce color d’oriental zaffiro», il pianeta Venere e le quattro stelle dell’emisfero australe: una situazione di incanto per il mattino di Pasqua (Purg. I, 13-27). Passando per la complessa «doppia danza» stellare di Par. XIII (vv. 1-24) con i due segni che il lettore deve immaginare «l’un ne l’altro aver li raggi suoi/ e amendue girarsi»; fino all’immagine della Via Lattea accostata nel cielo di Marte ai raggi che compongono la croce che «lampeggiava Cristo» (Par. XIV 104). Infine attirato da Dio (il «punto che raggiava lume/ acuto sì, che ‘l viso ch’elli affoca/ chiuder conviensi per lo forte acume», Par. XXVIII 16-18), Dante arriva nell’Empireo, «al ciel ch’è pura luce:/ luce intellettual, piena d’amore;/ amor di vero ben, pien di letizia;/ letizia che trascende ogni dolzore», Par. XXX, 39-42). Versi in cui la figura retorica dell’anadiplosi (ripetizione dello stesso termine alla fine di un verso e all’inizio di quello seguente) serve a rafforzare la descrizione di un’esperienza straordinaria: «È la prova suprema – osserva Pirovano – dell’ingegno e della poesia di Dante: immaginare un luogo senza coordinate spazio-temporali».

Se il letterato cerca di farci ammirare il fascino della luminosa poesia delle stelle che a una lettura scolastica può sfuggire, altre sorprese ci riservano le riflessioni dello scienziato. Ferrari (direttore del Parco astronomico di Torino Infini.to) segnala come, a dispetto dell’enorme distanza tra il sapere medievale e quello odierno, alcune intuizioni di Dante sulla configurazione dell’universo abbiano una loro plausibilità ancor oggi. In particolare, osserva Ferrari, quando giunge nell’Empireo, l’astronauta medievale parla di sfere concentriche che, «oltrepassato il Primo Mobile, incominciano a convergere intorno a un altro punto, che non è la Terra», ma Dio. Ferrari recupera la lettura del matematico svizzero Andrea Speiser, che nel 1925 propose uno schema per l’Empireo dantesco che chiamava in causa «una sfera a quattro dimensioni, quella che i geometri chiamano ipersfera». L’Empireo infatti «allo stesso tempo è esterno, ma anche avvolge l’universo sensibile in questa geometria a quattro dimensioni», idea che permette a Dante (che non poteva immaginare le geometrie non euclidee) di rendere l’intero universo non più geocentrico (come quello tolemaico), bensì teocentrico (il punto divino) e di porre la Terra all’anticentro. «Il perno del mondo – scrive Ferrari – è quel punto ineffabile che grazie all’intuizione dantesca dell’ipersfera è il centro del creato e al tempo stesso circonda la creazione in un abbraccio cosmico». Se le nostre attuali conoscenze sull’universo sono enormemente maggiori di quelle di Dante, hanno però ampliato a dismisura anche le domande senza risposta, puntualizza Ferrari. Con esiti sorprendenti: «Alcune delle teorie cosmologiche più audaci propongono che il nostro universo faccia parte di un Multiverso, un insieme di universi che nascono ed evolvono nell’iperspazio, caratterizzato da più di tre dimensioni, proprio come sembrava suggerire Dante per il suo Empireo». Conclude Ferrari: «Le terzine di Dante ci fanno pensare a un possibile collegamento attraverso una singolarità di energia infinita, luminosissima, magari un qualcosa di simile alla soluzione matematica del white hole da cui tutto esce. In realtà non ne sappiamo più di Dante, anche se sappiamo di non sapere».

«L’acqua ch’io prendo già mai non si corse» scriveva Dante all’inizio del suo viaggio attraverso i cieli (Par. II, 7): questa rivendicazione dell’originalità della propria poesia, lungi dall’apparire audace, resta pertinente anche con il passare dei secoli.

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