Discriminazione dei disabili, saper vedere dove comincia

Una riflessione sul sostegno della Fish e di CoorDown al ddl Zan, che non giova alla difesa dei diritti delle persone con disabilità. L’articolo stato pubblicato su Avvenire lo scorso 8 luglio

Stupisce, e un po’ addolora, che il mondo della disabilità abbia deciso di ribadire il suo sostegno al cosiddetto ddl Zan così com’è. Da oltre trent’anni mi occupo di questioni sanitarie e bioetiche, e per motivi familiari sono attento alle attività di CoorDown e di Associazione italiana persone Down (Aipd), due grandi realtà impegnate nella difesa dei diritti e nella promozione dello sviluppo delle persone con sindrome di Down. Ho appreso dai social che la Federazione italiana per il superamento dell’handicap (Fish) – di cui Aipd fa parte, ma anche CoorDown ha preso posizione – ha firmato un appello congiunto con Asgi e con Avvocatura per i diritti Lgbti-Rete Lenford per una rapida approvazione nell’attuale formulazione della proposta di legge contro “omotransfobia, misoginia e abilismo” «perché l’uguaglianza o è di tutti e tutte o non è». Tuttavia il principio – vero in astratto – in questo caso diventa solo uno slogan per diversi motivi. (…) Il testo completo può essere letto sul sito di Avvenire

Sindrome di Down, come si informano i genitori

Il tema della comunicazione della presenza della sindrome di Down ai genitori di un neonato è sempre stato cruciale. Ho ritrovato (e pubblico qui) un mio articolo relativo a questo tema, pubblicato su Avvenire il 15 ottobre 1998: si trattava di un seguito di una vicenda di cronaca, per approfondire il caso di un neonato abbandonato alla nascita proprio perché Down. Interpellavo in quella circostanza Anna Contardi, coordinatrice delle attività dell’Associazione italiana persone Down (Aipd).

Un nuovo tassello si aggiunge alla storia della bimba di Gaeta, non riconosciuta dai genitori perché Down, ma della quale ora pare che il padre voglia bloccare la procedura di adozione. A sconvolgere i genitori sarebbero stati anche i toni sbrigativi ciò cui è stata comunicata la diagnosi da parte dei medici dell’ospedale. A denunciarlo è la nonna materna della bimba, che ha raccontato in un’intervista a Repubblica lo stato di disorientamento in cui si era trovata sua figlia. Una ricostruzione dei fatti smentita però dal primario del reparto, Loretta Conca, che ha ribadito la discrezione del personale.

Resta in ogni caso sullo sfondo la delicata questione di come vada gestita la comunicazione di una diagnosi di sindrome di Down ai genitori. Abbiamo girato la domanda ad Anna Contardi, assistente sociale e coordinatrice nazionale delle attività dell’Associazione italiana persone Down (Aipd). «È un problema rilevante, anche dal punto di vista numerico – esordisce – visto che ogni giorno in Italia nascono due bambini con tale sindrome». «Innanzi tutto occorre precisare – spiega Anna Contardi – che ormai la diagnosi è pressoché immediata dopo la nascita del bambino. Sia per segni, quali i tratti somatici, sia per altre caratteristiche come la conicità e i riflessi, i pediatri neonatologi presenti in sala parto sono in grado di capire subito la presenza della sindrome di Down. Anche se per la convalida si deve attendere la mappa cromosomica, che arriva in quindici giorni».

Il primo consiglio è dare la comunicazione ai genitori il più presto possibile. «In genere si suggerisce – precisa – entro tre giorni, come tempo massimo, vale a dire entro le dimissioni della puerpera dal reparto maternità. Comunque al più presto, compatibilmente con lo stato di salute della mamma». Fondamentale però è il “come” la diagnosi viene comunicata. «A questo proposito – continua Anna Contardi – noi facciamo riferimento a tre aspetti: il luogo, il tempo e i contenuti. Innanzi tutto il colloquio con i genitori da parte del pediatra non può avvenire, come talora ci viene riferito, in un corridoio, o in corsia dove la neomamma è circondata da altre puerpere. Deve svolgersi, possibilmente con entrambi i genitori, in una saletta appartata, dove essi abbiano il modo di sentirsi liberi di piangere, arrabbiarsi, fare domande senza alcun condizionamento».

Un’altra condizione essenziale è il tempo: «Ricerche sul vissuto delle famiglie con bambini Down hanno dimostrato – chiarisce l’assistente sociale – che lascia il segno anche una comunicazione corretta ma effettuata in tempi rapidi. Viceversa è necessario saper accogliere il dolore di chi sta di fronte e concedere ai genitori tutto il tempo di cui hanno bisogno per fare domande, magari offrendo la possibilità di un secondo colloquio il giorno successivo».

Infine, i contenuti del messaggio da comunicare: «Spesso i genitori di bambini Down lamentano –racconta Contardi – di essere stati informati di che cosa il loro figlio “non era”, anziché di quali fossero le sue caratteristiche. “Mi dissero che non era sano”. Ma la necessità delle mamme è capire che cos’è il figlio che hanno partorito, che è diverso da quello che hanno aspettato per nove mesi. È importante conoscere la situazione attuale dei bambini Down: vanno a scuola con tutti, imparano a leggere e scrivere, fanno sport. Certamente hanno un ritardo mentale, che non è uguale per tutti, ma fondamentale resta l’intervento educativo: permettere al bambino di valorizzare le sue risorse in termini di inserimento scolastico e sociale è fondamentale per il suo sviluppo».

I medici sanno comunicare la diagnosi? «Molti pensano di attenuare il colpo dando inizialmente la diagnosi come dubbia (“c’è il sospetto che…”) rimandando la notizia a dopo la mappatura cromosomica, che verrà comunicata da un altro. Si offrono due settimane di illusioni, e si ottiene la difficoltà, da parte dei genitori, di attaccarsi a un bambino che non si sa bene cosa sia. Spesso però il medico appare frettoloso o brutale perché a disagio, incapace di accogliere il dolore e il pianto di un altro».

Sindrome di Down, la sfida è vincere i pregiudizi

La mia recensione del libro Din don down! di Autilia Avagliano, pubblicata su Avvenire lo scorso 23 febbraio

Sguardo lucido, combattivo anche se disilluso, come capita spesso ai genitori di figli con la sindrome di Down. Stile rapido, a volte aggressivo all’eccesso, ma se si sono subiti gli schiaffi di una società che non smette di discriminare, si comprende perché la pazienza talora possa finire. Nell’ampia letteratura relativa alla disabilità, e in particolare a una disabilità perlopiù intellettiva come la sindrome di Down, il libro autobiografico di Autilia Avagliano Din don Down! La storia di Alberto e della sua famiglia, che imparò a volare con lui (Marlin Editore, Cava de’ Tirreni) non evita per buonismo di raccontare le asprezze e le difficoltà vissute, ma ha imparato a valorizzare il positivo: «Non arrivo a benedire il giorno in cui nella nostra vita è entrata la sindrome di Down, ma sicuramente benedico questo figlio che ogni giorno aggiunge un pezzo di conoscenza, dandoci il senso della vita e tutta la bellezza in essa racchiusa». 

Il libro affronta tutti gli snodi cruciali dell’esperienza genitoriale: dalla comunicazione della diagnosi, quasi sempre disastrosa, al percorso scolastico, la cui riuscita è affidata all’incontro casuale con qualche insegnante più responsabile, fino alle amicizie tra coetanei, difficili da coltivare oltre l’adolescenza, ma che Alberto ha la fortuna di vivere. Fino alla constatazione che la parte più difficile è l’età adulta: «È lì che si deve giocare la partita».

Il genitore viene «shakerato dalla disabilità di un figlio imperfetto» da quando il medico gli chiede di “appoggiarsi al muro” prima informarlo sulle condizioni del figlio. E si sente domandare “perché non avete fatto ’sta benedetta amniocentesi?”. Mamma e papà, pur terrorizzati dal futuro di «un bimbo che, suo malgrado, tradiva le aspettative», mantengono la lucidità: «I giorni passavano e, davanti a noi, vedevamo sempre meno la sindrome e sempre più il bambino».  

È un viaggio sull’ottovolante: tra la fortuna di una pediatra illuminata e il “processo” al bimbo che, dopo lo schiaffo a un coetaneo, viene giudicato senza essere mai interpellato a fornire la sua spiegazione; così come viene ignorato dalla catechista nella distribuzione delle fotocopie. I genitori capiscono che a farla da padrone è il pregiudizio, diffusissimo, che tende a non dare alcuna fiducia alle persone con sindrome di Down. 

L’esperienza porta conseguenze anche al lavoro: il padre, avvocato, constata che il figlio «ha cambiato il mio senso di giustizia»; la madre deve ingoiare il «boccone amaro» di «ritornare con l’etichetta di collega in 104» e affronta «un periodo duro» per reinserirsi nella posizione che le competeva. Ma rinuncia a fare appello alla legge «per avere una legittima collocazione geografica vicino a casa. Era lo scotto da pagare a voler fare carriera come dirigente d’azienda. Bisogna mettersi a disposizione». 

Non viene meno la buona volontà: «Se questo figlio “alternativo” ci ha tolto qualcosa, tante altre cose ha messo dentro, spronandoci a costruire ponti più che ad alzare muri». Fino a concludere che «la chiave è solo un autentico e vero inserimento sociale e lavorativo nella vita reale di tutti i giorni: è solo accogliendo e mettendoli in condizione di esprimere al meglio e al massimo quelle famose capacità residuali, potremmo dire che c’è un posto nel mondo per tutti». Le occasioni di riflessione non mancano. Per chi ha voglia di coglierle.

Malattie rare, quanti danni dal lockdown

Il mio articolo per la Giornata mondiale per le malattie rare, uscito sabato 27 febbraio su Avvenire

Per i pazienti con malattie rare la pandemia da Covid-19 ha rappresentato «un’emergenza nell’emergenza, soprattutto nella prima fase. Ha determinato un significativo impatto sulle condizioni di benessere psico-fisico e relazionale nei malati rari e loro famiglie». Non usa giri di parole Domenica Taruscio, direttore del Centro nazionale malattie rare presso l’Istituto superiore di sanità (Iss), per indicare le problematiche che queste persone, più di un milione in Italia, ma divisi tra quasi 8mila patologie diverse, hanno dovuto affrontare negli ultimi 12 mesi. La Giornata mondiale delle malattie rare, che si celebra domani, è l’occasione per gettare un po’ di luce su questi pazienti, fragili ma abituati a sviluppare capacità di resilienza. «Scontiamo alcuni ritardi, che la pandemia ha messo ancor più in evidenza – commenta Annalisa Scopinaro, presidente di Uniamo, la Federazione italiana delle associazioni di persone con malattie rare – in particolare il Piano nazionale delle malattie rare, scaduto nel 2016, e l’iter di una nuova legge sulle malattie rare, fermo alla commissione Bilancio della Camera». Tra le norme della futura legge che Uniamo valuta positivamente c’è l’immissione automatica nei Prontuari regionali delle terapie avanzate subito dopo l’approvazione da parte dell’Agenzia italiana del farmaco, mentre attualmente è necessario un provvedimento specifico, che non viene mai adottato nello stesso momento dalle diverse Regioni, provocando disuguaglianze tra i malati sulla base della loro residenza.

La solida collaborazione esistente tra Istituto superiore di sanità e Uniamo ha prodotto, tra le altre cose, un’indagine conoscitiva per rilevare le necessità dei pazienti e le principali difficoltà incontrate durante la pandemia. «I malati rari non sono stati considerati prioritari rispetto alla emergenza Covid-19 – osserva Domenica Taruscio –. Il 50% di loro non si è recato nelle strutture ospedaliere per controlli clinici e terapie, anche laddove erano attive e non erano state trasformate in reparti Covid, perché c’è stata la percezione di aumentato rischio di contagio, considerando anche la difficoltà iniziale a procurarsi i dispositivi di protezione individuale». Un’altra criticità rilevata dall’indagine Iss-Uniamo è stata la difficoltà per i malati a reperire alcuni farmaci che sono distribuiti dagli ospedali. Nell’assistenza si è accumulato un ritardo «non ancora del tutto recuperato – ammette Taruscio –, anche se la situazione varia a seconda delle regioni». «Possiamo dire – aggiunge Scopinaro – che è mancata la continuità tra il paziente e i centri specialistici. Non va dimenticato che al milione di malati vanno aggiunte le loro famiglie: le malattie rare sono per l’80% di origine genetica, spesso riguardano bambini e presentano un’estrema varietà di condizioni. In generale, a parte l’abitudine dei pazienti a “proteggersi”, che ha reso loro meno insolita e pesante la segregazione del lockdown, il contatto con i medici è stato spesso affidato solo alla buona volontà di coloro che si sono resi reperibili personalmente tramite telefonate o messaggi». Di positivo, precisa Scopinaro, c’è che «la situazione ha indotto a prendere maggiormente in considerazione la telemedicina (in realtà più una teleassistenza), che è stata inserita nel documento prodotto dal gruppo di lavoro creato all’Iss e che è stato approvato dalla Conferenza Stato-Regioni». «I bisogni dei pazienti rari – continua Scopinaro – sono molto variegati. Saperli affrontare e risolvere sarebbe utile anche in altre situazioni sanitarie. Durante la pandemia i malati rari hanno faticato a farsi riconoscere lo status (articolo 26 del “Cura Italia”) che permette di assentarsi dal lavoro o avere accesso allo smart working. E peccato che si sia pensato al bonus monopattini ma non a sostenere i caregiver dei disabili gravi».

Sul piano delle cure, la novità maggiore degli ultimi anni è la terapia genica per l’atrofia muscolare spinale (Sma) di tipo 1: «Per motivi di sicurezza finora è autorizzata solo fino ai sei mesi di vita del bambino», osserva Scopinaro. Ma questa circostanza ha reso ancora più evidente l’opportunità di incrementare gli screening neonatali, già previsti per 40 malattie metaboliche dal 2017: «Un progetto pilota di screening regionale sulla Sma avviato in Toscana e Lazio sembra incoraggiante – riferisce Taruscio –. È in fase di valutazione presso le istituzioni competenti se e quando estenderlo su scala nazionale: poter somministrare la terapia disponibile il più precocemente possibile cambia per sempre il destino di questi bambini».

Cruciale, anche in pandemia, avere informazioni: «Molto utili risultano i numeri verdi dell’Iss (800.896949) e di Uniamo (800.662541), dove rispondono esperti in grado di fornire adeguato counseling. Le domande sono venute soprattutto dai malati sulle relazioni tra la loro patologia e il virus, ma anche dagli operatori sanitari, per esempio sui vaccini. Importante è anche la condivisione, sul portale interistituzionale del ministero della Salute, malattierare.gov.it, di tutte le informazioni utili per il pubblico (diffuse anche con la newsletter MonitoRare, a cui chiunque può iscriversi): dalle patologie ai centri di riferimento, alle associazioni di pazienti». L’esperienza italiana, che risale al 2001, ha dato al nostro Paese un ruolo di primo piano nelle Reti di riferimento europee (Ern), nate nel 2017. Le patologie sono state suddivise in 24 Reti e sono stati selezionati oltre 350 ospedali di riferimento, e più di 60 sono italiani. «L’Italia – conclude Domenica Taruscio – coordina tre di queste Reti di malattie rare: quelle metaboliche, quelle del connettivo e quelle dell’osso. In più ci sono progetti di ricerca co-finanziati dalla Commissione europea, come l’importante European Join Programming on Rare Diseases, che promuove innovazione e collaborazione internazionale per incrementare la ricerca scientifica, la diagnosi e una migliore gestione delle patologie; finanzia anche i corsi che organizziamo all’Iss sui registri per le patologie rare e sulle malattie senza diagnosi». Uno degli aspetti più positivi è «aver imparato a lavorare insieme e non in ordine sparso». Per il bene dei pazienti.

Contro la didattica a distanza: “uccide” i nostri giovani. E il futuro del Paese

A vincere su tutto sono i numeri (ormai gestiti in modo incomprensibile) utilizzati per spargere paura e paralizzare ogni ragionamento che non sia: chiudiamo tutto e aspettiamo il vaccino. Peccato che finora il virus non sembri aver “obbedito” alla strategia adottata (il discorso sarebbe lungo) e che quando – l’estate scorsa – il contagio aveva rallentato la sua corsa, le misure messe in campo non abbiano riguardato il potenziamento dei trasporti o altre proposte di screening in ambito scolastico, bensì il bonus monopattini o i banchi a rotelle.

I morti sono veri e meritano rispetto, ma non per giustificare una gestione della seconda fase dei contagi che stava diventando una gigantesca e tragica farsa, come si è intuito all’inizio di dicembre. Quando, contraddicendo le promesse di fine ottobre («chiudiamo ora per salvare il Natale» con la creazione delle zone rosse, arancioni e gialle) il governo decise le restrizioni più dure proprio durante le settimane delle festività natalizie, mentre gli indicatori sulla diffusione del virus stavano portando tutte le Regioni a diventare “gialle”. Siamo quindi rimasti gialli per tre giorni (ma vietando spostamenti tra Regioni), poi rossi per quattro, arancioni per tre, rossi per quattro, arancioni per uno, rossi per due, per tornare gialli il 7 gennaio. Come se il virus seguisse questo andamento da sismografo impazzito. L’unico obiettivo era impedire di muoversi senza chiamarlo lockdown.

Numeri per un pensiero unico

Ma anche quando sembrava che finalmente si aprisse uno spiraglio per le esigenze dei giovani, ecco la doccia fredda: preceduta – nei primi giorni dell’anno – da un crescente allarmismo di dichiarazioni di politici e di analisi dei giornali, la notte tra il 4 e il 5 gennaio il governo ha deciso di rinviare il rientro a scuola dal 7 all’11 gennaio. Seguito, in ordine sparso, da ordinanze regionali che rimandavano la didattica in presenza di una, due o tre settimane (ultima ieri la Lombardia). Vanificando anche sforzi e programmazioni dei dirigenti scolastici e dei loro collaboratori, che avevano calcolato le presenze (prima del 75%, poi del 50%) degli allievi, le divisioni delle classi anche in base alla residenza degli studenti per non affollare eccessivamente i mezzi pubblici; che avevano concordato in innumerevoli riunioni con i prefetti gli orari di ingresso scaglionato, rivoluzionando l’organizzazione scolastica (talvolta obbligando gli studenti a uscire da scuola alle 15 o alle 16, con pause pranzo ridicole). E che, ancora prima, avevano organizzato gli spazi, i percorsi e gli orari differenziati tra le classi per evitare occasioni di assembramento degli studenti (ovviamente sempre dotati di mascherina).

Che cosa giustifica la decisione? Numeri misteriosi, scelti con criteri mutevoli. Tralascio di calcolare il numero delle morti, che accadono dopo un tempo variabile e piuttosto lungo dal momento dell’infezione (ricordo solo che, in epoca pre Covid, ogni giorno morivano in Italia 1.700 persone). Si segnala ogni giorno la percentuale di tamponi positivi, una cifra inaffidabile: per limitarsi agli ultimi giorni è stato rilevato del 14,9% (27 dicembre), 12,4 (28), 8,7 (29), 9,6 (30), 12,6 (31), 14,1 (1° gennaio), 17,6 (2) 13,8 (3 e 4), 11,4 (5 e 6), 14,8 (7). Ma davvero crediamo che un indice così variabile da un giorno con l’altro misuri l’effettiva diffusione del virus e non dipenda invece dai diversi soggetti che sono stati sottoposti al tampone e dal numero dei test? O da altri elementi distorsivi?
Senza dimenticare che l’informazione sceglie quasi ogni giorno di valorizzare l’indice peggiorativo (se calano i morti, sale il tasso di positivi; se questo scende, salirà il numero di casi o l’occupazione dei posti letto ospedalieri). Intanto il governo ha anche deciso di abbassare la soglia di Rt sopra la quale le Regioni verranno classificate rosse, arancione o gialle, certificando che dei numeri si fa un uso strumentale. E fa sorgere qualche dubbio sull’impostazione univoca imposta: il virus circola, non si può fare altrimenti. Neanche verso il Vangelo, per chi ci crede, c’è tanta fede come verso questo pensiero unico: ma di fronte a un virus nuovo, e quindi in gran parte ignoto, e dopo avere assistito a scienziati che hanno detto tutto e il contrario di tutto, non mi sembra segno di rigore e metodo scientifico.

Dispersione scolastica e disturbi mentali

Il fatto quasi paradossale è che la decisione di rimandare il rientro in classe viene all’indomani della diffusione del rapporto dell’Istituto superiore di sanità (Iss) che segnala che fra il 31 agosto e il 27 dicembre sono stati rilevati 3.173 focolai in ambito scolastico, meno del 2% di quelli rilevati a livello nazionale, concludendo che «la percentuale dei focolai in ambito scolastico si è mantenuta sempre bassa e le scuole non rappresentano i primi tre contesti di trasmissione in Italia, che sono nell’ordine il contesto familiare/domiciliare, sanitario assistenziale e lavorativo». Negli stessi giorni un’altra indagine (realizzata da Ipsos per Save the children) certifica i danni che il lockdown scolastico provoca negli adolescenti e nei giovani, con la stima di 34mila studenti a rischio abbandono. «I ragazzi – riferisce Avvenire – si sentono frustrati dalle scelte per il contrasto al Covid: il 65% è convinto di star pagando in prima persona per l’incapacità degli adulti di gestire la pandemia, il 43% si sente accusato dagli adulti di essere tra i principali diffusori del contagio, mentre il 42% ritiene ingiusto che agli adulti sia permesso di andare al lavoro, mentre ai giovani non è permesso di andare a scuola. E serpeggia una certa amarezza. Quasi la metà, il 46%, parla di un “anno sprecato”». Dati che confermano precedenti indagini, come quella dell’ospedale Gaslini di Genova che indicava che con la chiusura delle scuole «negli adolescenti compare maggiore instabilità emotiva con irritabilità e cambiamenti del tono dell’umore, verso il tipo depressivo». Su una popolazione già fragile si è svolta invece l’indagine della Neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza dell’ospedale Bambino Gesù di Roma, diretta da Stefano Vicari: su 128 ragazzi che avevano già bisogno di un supporto psicologico per un disturbo mentale, di età tra 12 e i 17 anni, il 40% ha investito molto meno nello studio con la didattica a distanza e il 35% dice che passa molto più tempo a letto durante il giorno, a guardare il soffitto, o a dormire.

«Vittime della disfunzionalità collettiva»

In questi giorni non sono mancate sui giornali alcune voci che hanno sottolineato quanto la situazione sia grave. Ne cito quattro. Giancarlo Frare, presidente dell’Associazione genitori scuole cattoliche (Agesc), in una intervista su Avvenire del 6 gennaio, parla di «colpo basso che le famiglie non meritavano» ricordando che «tutti gli esperti confermano che questo periodo (di Dad, ndr) avrà conseguenze devastanti su tanti ragazzi. Può rappresentare un danno enorme e va a colpire chi non ha voce e magari nemmeno gli strumenti per sopportare una situazione del genere. Gli studenti sono una categoria completamente dimenticata». E ancora: «Le famiglie erano consapevoli di correre un rischio, ma erano disposte a compiere questo passo pur di non far perdere ulteriori giorni di scuola ai ragazzi. Che, dal canto loro, hanno accettato tutte le regole, sono stati più che diligenti e ora si trovano nuovamente al palo. I giovani si fidano degli adulti, di genitori e insegnanti. Non dicono nulla ma vedono tutto. E si ricordano delle promesse fatte e puntualmente disattese».

Lo stesso 6 gennaio, sul Corriere della Sera, interviene il fisico e scrittore Paolo Giordano, il quale commentando le scelte del governo osserva: «Singolare è soprattutto lo stravolgimento del principio di causalità: siamo costretti a estrapolare le informazioni alla base delle decisioni dalle decisioni stesse, e non viceversa». Dopo aver ricordato che c’è incertezza sui dati scientifici (anche quelli del rapporto dell’Iss, dice Giordano) conclude: «Le vittime designate della disfunzionalità collettiva sono i ragazzi e le ragazze delle scuole superiori, gli stessi che hanno visto la loro routine, la loro istruzione e la loro socialità squarciate più a lungo. E che iniziano ormai a soffrire visibilmente». Osservo per inciso che i ragazzi non possono più fare sport di squadra da novembre, ma vedono che i professionisti del calcio non solo giocano regolarmente, ma se vengono trovati positivi si isolano e dopo un tampone negativo tornano in campo.

Sempre il 6 gennaio, su Repubblica, Andrea Gavosto (direttore della Fondazione Agnelli) accanto alla singolare proposta di continuare l’anno scolastico fino ad agosto, sottolinea: «Il prezzo che questa generazione di studenti rischia di pagare – già altissimo dopo il lockdown di primavera e la troppo incerta ripartenza in autunno – sta diventando enorme, con perdite in termini di conoscenze, di prospettive di lavoro e di reddito, di qualità della cittadinanza già ora in parte irrecuperabili».

Infine ieri, ancora sul Corriere della Sera, l’ex leader del Pd Walter Veltroni dice: «Nessuno sembra occuparsi di quello che sta accadendo nel profondo dell’animo degli adolescenti. … Quanto pesa l’assenza dalla dimensione scolastica che è certo apprendimento ma anche scambio, condivisione, definizione di uno spazio proprio, il primo autonomo dalla famiglia, in cui ciascuno mostra sé stesso ed è messo alla prova?». E ancora: «Perdere la pienezza dei quattordici o quindici anni, quando il mondo è una scoperta quotidiana delle sue possibilità e delle sue insidie, non è come vivere quest’esperienza a cinquant’anni. I ragazzi si sono incupiti, chiusi, molti hanno peggiorato i loro risultati scolastici, la maggioranza trascorre il tempo appesa allo schermo di un telefono, che costituisce l’aggancio al mondo esterno». E chiede di ricordare che «nelle case di milioni di italiani c’è una ragazza o un ragazzo che sta annaspando nel tempo decisivo della vita è c’è il rischio che si smarrisca. Per un ragazzo il “distanziamento sociale” è pena più grave che per un adulto (…) In un mondo adulto che è andato in confusione su tutto: vaccini, tamponi, terapie, governi, regole… l’unica cosa su cui tutti si sono sempre uniti è stata randellare i giovani se una sera uscivano, perfino essendo consentito, per vedere amici o semplicemente prendere un aperitivo».

Non basta ripetere che non siamo un Paese per giovani. In modo perlomeno miope, si sta “uccidendo” non solo l’animo dei nostri figli o nipoti, ma anche il futuro del Paese.

Disabili, la battaglia per i diritti è ancora lunga

220px-Handicapped_Accessible_sign.svgUn catalogo, una serie nutrita di esempi di come le persone con disabilità – congenita, acquisita o provocata – siano state nel corso dei secoli il più delle volte maltrattate, quando non perseguitate o addirittura uccise, sotto i diversi cieli e nelle differenti epoche. Con l’aggiunta di luminosi esempi di individui che le hanno invece considerate per quello che sono: persone umane con la stessa dignità di tutti. Mi pare questo, in estrema sintesi, il contenuto di Diversi, il volume di Gian Antonio Stella, pubblicato da Solferino (la proposta editoriale del Corriere della Sera). Poco? Tanto? Non saprei. Certamente l’autore mostra un evidente disgusto per le discriminazioni e talvolta le violenze a cui i disabili sono stati e sono spesso sottoposti. Ma il sottotitolo del volume è del tutto fuorviante: La lunga battaglia dei disabili per cambiare la storia. Questa fine virtuosa non si riscontra né nel libro, né – ahimè – nella realtà. 

Una carrellata, dunque, di persone con disabilità di tutti i tipi, fisiche o mentali, e un panorama piuttosto variegato di atteggiamenti che loro riserva le società. Perché se è vero che «dall’antichità a oggi è cambiato il mondo», lo stesso Stella subito dopo aggiunge «meno però di quanto ci raccontiamo». Si avvicendano quindi storie di nani, di persone colpite dalle più varie malformazioni congenite o da disabilità psichiche, ma anche la storia di mutilati per chiedere elemosina o dei castrati per cantare con la voce bianca: con testimonianze a volte affidabili o contemporanee, altre volte aneddotiche o leggendarie. E un inevitabile ampio spazio dedicato all’eliminazione programmatica dei disabili portato avanti con Aktion T4 durante il nazismo.  

Stella si sofferma anche sugli aspetti numerici della disabilità: secondo stime dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) le persone disabili sarebbero oltre un miliardo. In Italia circa 4 milioni e mezzo, cui sono stati destinati – nel 2016 – circa 28 miliardi di euro, il 5,8 per cento del totale della spesa per la protezione sociale, l’1,7 per cento del pil. Ma il problema non è solo economico, anche se le risorse sono una necessità. Il problema è la «cultura dello scarto», come la definisce papa Francesco (di cui Stella cita l’Evangelii gaudium): «Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare». 

«Sarebbero migliaia, le storie da raccontare, per capire come la disabilità sia stata vissuta per secoli e secoli. Come sia stato difficile il percorso dei disabili per cambiare la storia». Questo assunto dell’autore, che dà il via alle decine di mini racconti, è però quanto mai discutibile. Non solo Stella stesso documenta come esistano tuttora molti pregiudizi, spesso coperti dall’ipocrisia del linguaggio politicamente corretto. Non basta infatti inorridire di fronte agli esempi di sevizie di cui sono stati vittime nel corso dei secoli le persone con malformazioni, che non solo rendevano loro impossibile il lavoro, ma che richiedevano moltissime cure. O stupirsi delle condizioni di isolamento cui venivano destinati i lebbrosi, vittime di una malattia contagiosa e per millenni senza cura: come ha dimostrato la recente pandemia, di fronte a una patologia trasmissibile, la società cerca di preservarsi più che badare al singolo individuo. Né risulta particolarmente utile sorridere delle spiegazioni più strane che nei secoli si sono offerte per giustificare le nascite “imperfette”, dalle colpe dei genitori alle implicazioni teologiche della presenza del male nel mondo.

Manca del tutto una riflessione storica, che segni come il progresso nel considerare di pari dignità e diritti tutti gli esseri umani resta ancora troppo spesso sulla carta. Ma è difficile dire che questo processo sia frutto di una battaglia combattuta dai disabili, quanto dalla riflessione dell’umanità nel corso degli ultimi decenni soprattutto. E con molte eccezioni. Si poteva richiamare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) che, dopo gli orrori dell’ultima guerra, stabilisce che «ogni individuo ha diritto alla vita». O la classificazione internazionale della funzionalità (Icf), il paradigma adottato dall’Oms per stabilire gli interventi da attuare nell’ambiente per ridurre la condizione di disabilità, un testo non a caso osteggiato da alcuni Paesi che non intendono essere impegnati a ridurre barriere (non solo architettoniche) e adottare facilitatori. O ancora la Convenzione dei diritti delle persone con disabilità (2006), peraltro contraddetta platealmente dalla piaga dell’aborto, che in molti Stati permette di eliminare i nascituri nel grembo materno. E anzi, quando se ne scopre qualche disabilità, spesso la legislazione è ancora più spietata, come in Gran Bretagna, dove la soppressione del bambino – se disabile – è permessa fino alla nascita. Così come le manipolazioni rese possibili dalla fecondazione assistita hanno favorito il diffondersi di pratiche eugenetiche, sfacciatamente difese da Peter Singer, ma tacitamente accettate e adottate da molti Stati, compreso il nostro. Discorsi eugenetici “liberali”, frutto della più o meno libera convinzione dei cittadini, si sono sentiti in Italia nel 2005 in occasione dei referendum sulla legge 40, ma tuttora emergono quando viene rivendicato il “diritto” al figlio sano. E proprio alcune categorie di disabili, per esempio le persone con sindrome di Down, aldilà degli esempi anche edificanti ricordati da Stella (tra cui l’amore di Charles De Gaulle per la figlia Anne), sono bersaglio privilegiato di questa esclusione dal diritto alla vita, il primo e fondamentale diritto che una società dovrebbe garantire a tutti i suoi cittadini, specie ai più deboli.

Citare – come fa Stella – alcuni esempi di persone straordinarie, come Henry Toulouse-Lautrec, Giacomo Leopardi, Michel Petrucciani o Stephen Hawking, che si sono distinte nel mondo nonostante disabilità fisiche molto gravi, non basta alla causa dei disabili, non dimostra che hanno vinto la battaglia «per cambiare la storia». Il libro resta un catalogo variopinto: il progresso della società nell’accoglienza di ogni essere umano, che pure in parte c’è stato, è però ben lontano dall’essere consolidato ed essere diventato patrimonio comune. E avrebbe richiesto altri approfondimenti.

Anelli: l’aiuto al suicidio? Non è un compito di noi medici

All’indomani della decisione della Corte costituzionale, che ha ammesso la non punibilità dell’aiuto al suicidio in alcuni casi, la mia intervista al presidente nazionale degli Ordini dei medici, Filippo Anelli, comparsa su Avvenire lo scorso 27 settembre.

Syringe2«Da medici vogliamo essere esentati da una pratica che contrasta con la nostra millenaria missione di alleviare le sofferenze e combattere le malattie. Del resto la Corte costituzionale non ha cancellato il reato, e i nostri pazienti devono sapere che i medici saranno sempre accanto a loro per allontanare la morte e non per procurarla». Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), ribadisce la contrarietà dei medici italiani a farsi strumento di morte e puntualizza: «Non potrà non essere prevista l’obiezione di coscienza: se si devono rispettare i convincimenti profondi di ogni cittadino, tra questi ci sono anche i medici».

Che conseguenze ha per il medico la sentenza della Consulta?

Innanzitutto la Corte costituzionale non ha cancellato il reato: credo che sia importante per tanti soggetti deboli che hanno bisogno di tutela. Resta da decidere la procedura, che non esiste in Italia. E qui entra in gioco anche il ruolo del medico: siamo chiamati ad alleviare le sofferenze, e sicuramente chi si avvia verso una richiesta di suicidio esprime una profonda sofferenza, un grido di dolore. Ma noi medici vogliamo continuare a esercitare la professione considerando la malattia come avversario e la morte il nemico da allontanare il più possibile. In una futura legge, credo che le procedure che portano al suicidio non possano essere avviate da un medico: magari da un funzionario, che prenda atto della volontà del cittadino e verifichi i requisiti prescritti dalla Corte. Nel nostro Codice deontologico (art. 17) è fermo il divieto di effettuare o favorire atti finalizzati a provocare la morte del paziente, anche su sua richiesta.

Ma se la legge obbligherà il medico a partecipare al suicidio?

Naturalmente il Codice deontologico si deve armonizzare con le leggi e la Costituzione. Se la nostra proposta non dovesse essere accolta e i medici saranno costretti a partecipare al suicidio, è chiaro che dovranno essere salvaguardati con l’obiezione di coscienza. Un istituto già previsto nell’ordinanza 207 della Corte costituzionale dello scorso anno.

Si sa che quando è stabilito un diritto, ne discende un dovere per qualcun altro. Basterà per voi l’obiezione di coscienza?

Le leggi rappresentano l’orientamento della maggioranza dei cittadini, ma anche i medici sono cittadini. Le loro convinzioni, soprattutto quelle legate a principi etici custoditi nella propria coscienza, vanno rispettate. E la Corte costituzionale ha riconosciuto più volte il diritto all’obiezione. Come va rispettata la libertà di credo religioso, va anche rispettata la libertà di credere nei principi essenziali della vita secondo le proprie convinzioni.

La scelta del suicidio può rientrare nel diritto del cittadino a non essere curato?

Oggi sembra che il diritto all’autodeterminazione sia molto forte, e l’orientamento della Corte costituzionale sembra accogliere la tendenza a dire che il cittadino può decidere su tutto della propria vita, anche la morte. D’altra parte il suicidio assistito lo vuole oggi un’esigua minoranza. La Corte aveva già accolto il principio dell’autodeterminazione, ma di fronte a un’attività che toglie la vita a una persona, mi pare scontato che chi non la pensa come lei non possa essere obbligato.

Eppure alcuni medici, pochi per la verità, rifiutano la posizione della Fnomceo. Che cosa ne pensa?

Non solo il Codice deontologico della Fnomceo, ma anche l’Associazione medica mondiale dice che «rendere legale il suicidio assistito dal medico pone gravi problemi etici, clinici e sociali». La professione è unita e la nostra Consulta deontologica, che comprende tutte le sensibilità della professione, si è espressa in maniera unanime. Credo che la posizione dei colleghi sia nata da scarsa percezione delle motivazioni della posizione Fnomceo, che non entra nel dibattito sull’eutanasia, ma si esprime sull’attività del medico. E con gli Stati generali della professione abbiamo avviato una stagione di grande discussione sul ruolo del medico. Per continuare a dibattere, abbiamo già in programma un convegno sul suicidio assistito presso l’Ordine dei medici di Parma, il prossimo 18 ottobre. Ma quel che più conta è che il medico continui a essere percepito dal malato come colui che aiuta, sta accanto, toglie la sofferenza. Il malato non deve avere mai il dubbio che il medico possa decidere di porre fine alla sua vita.

«Benedetto XVI a Pavia convinse anche gli scettici»

La mostra sui personaggi illustri all’università di Pavia mi ha richiamato alla memoria l’intervista che feci per Avvenire nel 2008 al rettore Angiolino Stella, in cui rievocava la visita di Benedetto XVI all’ateneo pavese, l’anno precedente. Il Papa era stato invitato all’inaugurazione dell’anno accademico all’Università La Sapienza di Roma, ma le proteste di alcuni docenti e studenti contro la sua presenza l’avevano indotto a rinunciare. Benedetto XVI diffuse comunque il testo che aveva preparato per l’occasione. 

Epigrafe B. XVI
L’epigrafe in ricordo della visita di Benedetto XVI all’Università di Pavia, nel 2007

«Siamo stati arricchiti dalla visita del Papa». Non ha dubbi il rettore dell’Università di Pavia, il professor Angiolino Stella, nell’indicare co­me «momento felice che rimarrà nella sto­ria dell’ateneo» l’incontro vissuto il 22 a­prile 2007 durante il viaggio che Benedet­to XVI ha compiuto nelle diocesi di Vige­vano e di Pavia. E aggiunge: «Il confronto tra componente cattolica e componente laica è essenziale per costruire il patrimo­nio comune nell’università. «Non ho visto nessuna imposizione nel discorso del Pa­pa, ma l’ispirazione a ideali alti e assolutamente condivisibili. Anzi, anche chi a Pa­via era perplesso sulla visita ha potuto con­vincersi della sua opportunità. Credo che a Roma abbiano perso questa occasione».

Rettore, come ha vissuto l’organizzazione della visita del Papa nella sua università lo scorso aprile?

Durante il viaggio a Pavia di Benedetto X­VI il suo interesse come studioso verso la figura di sant’Agostino rappresentava un forte stimolo a fare una tappa alla nostra u­niversità. Sant’Agostino, infatti, insieme con santa Caterina di Alessandria, è uno dei patroni dell’ateneo di Pavia. Inoltre, il Papa ha un passato accademico di cui va orgoglioso e sapeva che a Pavia c’è un’università antica, che può vantare una gran­de tradizione e grandi maestri: anche noi tenevamo moltissimo che venisse. Anche se in una comunità ampia come quella u­niversitaria si sono levate alcune voci di perplessità o dissenso, durante la visita non c’è stata ombra di contestazione. E molti scettici hanno cambiato idea.

Che cosa ricorda di quell’incontro?

È stata una bellissima giornata di sole nel cortile Teresiano, che dà una sensazione di respiro storico: ricorda Maria Teresa d’Au­stria che ha avuto un ruolo importante per l’università di Pavia. Erano presenti più di duemila persone. Sia il mio discorso sia quello del rappresentante degli studenti hanno avuto applausi ed elogi. L’interven­to del Papa ha ottenuto consensi unanimi. È stata una grande festa, Benedetto XVI e­ra felicissimo, lo si vedeva sorridente. E do­po la visita abbiamo avuto notizia, trami­te il vescovo di Pavia, anche dell’apprezza­mento della Santa Sede.

Come ha accolto l’università il discorso del Papa? È parsa ferita la laicità dell’istituzione?

Nell’università, in particolare in un ateneo che ha tradizione storica come quello di Pavia, devono sapere convivere le diverse componenti. Come ho detto nel mio di­scorso, non solo la convivenza, ma il con­fronto e l’interazione tra la componente cattolica e la componente laica sono un dovere per costruire insieme il patrimonio comune e la missione dell’università. Non vedo nessuna imposizione da parte del Pa­pa: si deve saper ascoltare, con attenzione e rispetto. Questo non vuol dire rinuncia­re alle proprie idee e convinzioni, ma cre­do che dall’intervento del Papa possono e­mergere spunti di riflessione e approfon­dimento utili per tutti, anche per chi è su posizioni non dico laiche, ma addirittura a­tee. Non c’è nessun pericolo nel confron­to con opinioni diverse, soprattutto se a parlare non è solo il Papa, figura sempre di indiscusso prestigio, ma nel caso di Bene­detto XVI, anche uno studioso di grande rilievo. Allora non solo non sono a rischio le idee degli altri, ma vi può essere il modo di arricchirsi ulteriormente.

Un confronto tra le diverse tradizioni si legge anche nel discorso che il Pontefice non ha potuto pronunciare a Roma. Vista la sua esperienza, lei crede che alla Sapienza si siano persi qualcosa?

Non c’è dubbio, perché da noi è stato un arricchimento per tutti. Quella visita ri­marrà nella storia della nostra università come un momento felice, che non solo non ha generato contrasti, ma se potenzial­mente ce n’erano, li ha cancellati. Le cito un brano del discorso del Papa a Pavia: «Ca­ri amici, ogni università ha una nativa vo­cazione comunitaria, essa è infatti una co­munità di docenti e studenti impegnati nel­la ricerca della verità e nell’acquisizione di superiori competenze culturali e profes­sionali. La centralità della persona e la di­mensione comunitaria sono due poli coes­senziali per una valida impostazione della universitas studiorum». Un intervento che è stato totalmente condiviso. Ma anche le sei cartelle del discorso «mancato» a Ro­ma danno una bella sensazione di ispira­zione a ideali alti e assolutamente condi­visibili. Analogamente a quanto accaduto a Pavia, sono convinto che sarebbe stato un incontro fecondo per tutti anche alla Sapienza.

Qualcuno ha suggerito di invitare nuova­mente il Papa a Pavia. Altre università si stanno muovendo in tal senso. Lei sareb­be favorevole?

Se ci fosse la possibilità, ne sarei ben lieto; ma mi rendo conto che altre università, che magari da secoli aspettano una visita del Papa, possano rivendicare un diritto di prelazione. Anche se mi sembra che un certo moltiplicarsi di inviti possa essere frutto dell’emozione di questi giorni. Io ho vis­suto con viva partecipazione tutte le fasi prima, durante e dopo l’incontro, addirit­tura con commozione certi momenti: è sta­ta un’esperienza indimenticabile. Sarei fe­licissimo di ripeterla.

Il medico: la nostra è una professione per aiutare gli altri

Ricevendo i partecipanti al convegno internazionale “Yes to Life! Prendersi cura del prezioso dono della vita nella fragilità”, organizzato dal Dicastero vaticano per i Laici, la Famiglia e la Vita e dalla Fondazione “Il Cuore in una Goccia”, papa Francesco ha lanciato un messaggio forte in difesa della vita umana e della missione del medico per proteggerla e contro la mentalità abortista. Domenica 26 maggio su Avvenire, accanto alle parole del Papa, il mio articolo dialogando con il ginecologo Bruno Mozzanega, reduce dal convegno di Scienza e Vita, dedicato all’editing genetico

0
Bruno Mozzanega

«Come medici le parole del Papa ci gratificano e responsabilizzano. Dobbiamo ricordare la nostra missione, anche se le condizioni sociali non sono sempre favorevoli all’accoglienza della vita, specie se presenta fragilità». A Bruno Mozzanega, già docente di ginecologia all’università di Padova e presidente di Scienza& Vita di Venezia, sono risuonate come un incoraggiamento di alto livello le parole del Papa sul ruolo del medico. Dopo il confronto di ieri mattina tra le associazioni territoriali di Scienza& Vita, un ulteriore stimolo da portare da Roma nelle singole realtà locali. Che «il sospetto della patologia» e ancor più la «certezza della malattia» sconvolgano la coppia in attesa di un figlio, Mozzanega lo ha riscontrato molte volte: «Relazionarsi con la coppia in questi casi non è facile, perché anche senza certezze le diagnosi sempre più precoci (anche solo sul sangue materno) generano ansia senza dare risposte certe. Come ricordato venerdì al convegno sull’editing genetico, solo poche mutazioni del Dna danno una risposta chiara su che cosa avrà il figlio. E nemmeno i medici conoscono il significato di quell’ottantina di microdelezioni del Dna che possono essere riscontrate attraverso i test genetici precoci, e che spesso vengono accompagnate dall’indicazione di un possibile ritardo mentale. Una diagnosi quanto mai vaga, ma che si presta a generare panico». 

Il Papa chiede che i medici abbiano sempre ben chiaro «il valore sacro della vita umana» e puntinoa curare i pazienti e accompagnare le famiglie:«Certamente non tutte le patologie sono correggibili – osserva Mozzanega – ma occorre anche richiamare il valore di ogni individuo. Il Papa ricorda che fin dal grembo materno, i bambini sono “piccoli pazienti”: un dato di fatto incontrovertibile. Occorre anche sostenere le coppie di fronte a una diagnosi di malattia: le famiglie rischiano di rimanere sole con i loro problemi, talvolta anche gli amici spariscono se hai un bambino “scomodo”». 

Ancora più nobile il richiamo ai medici a «essere consapevoli di essere essi stessi un dono» per gli altri: «Sono parole che indicano un profilo molto alto – ammette Mozzanega –. Il Papa ci cuce addosso il vestito giusto: se facciamo questa professione è per gli altri, per aiutare. Sentirsi dono non è sempre facile, in una medicina contrattualistica che vede nel medico un prestatore d’opera». Infine papa Francesco torna a deprecare l’aborto usato come «pratica di “prevenzione”». «Sono perfettamente d’accordo con le sue parole – conclude Mozzanega –. L’accoglienza – di cui si parla tanto e a cui tutti dovremmo essere educati – dovrebbe essere estesa a tutti, abili e disabili, nati e non nati. Invece, dice il Papa, c’è ostilità verso la disabilità. Condivido in pieno il concetto che l’aborto non è un problema religioso, da cattolici, ma è un problema umano, perché si tratta di eliminare una vita umana».

La dislessia si può battere con libri “tecnologici”

Oggi a Milano un convegno all’auditorium Gaber presenta l’esperienza della onlus Seleggo e dell’Irccs Medea-La Nostra Famiglia di Bosisio Parini (Lecco) per realizzare strumenti online che favoriscano l’apprendimento degli studenti dislessici. Il mio articolo pubblicato su Avvenire

libroIl connubio tra ricerca scientifica e privato sociale attento alla salute può dare frutti importanti. Lo dimostra la collaborazione tra la onlus Seleggo (avviata dai Lions), che realizza strumenti compensativi per studenti con dislessia, e l’Istituto “Medea”- La Nostra Famiglia di Bosisio Parini, in provincia di Lecco, istituto di ricovero e cura a carattere scientifico per la medicina della riabilitazione, punto di riferimento per i disturbi dello sviluppo neurologico e sensoriale: un convegno oggi a Milano (auditorium Gaber, piazza Duca d’Aosta) su «Tecnologie e social media » illustrerà i risultati e le prospettive di questo dialogo virtuoso. «È importante chiarire – spiega Massimo Molteni, direttore sanitario centrale e responsabile dell’area di Psicopatologia dello sviluppo dell’Istituto “Medea” – che la telemedicina e la tele-riabilitazione sono di cruciale importanza per l’evoluzione del sistema sanitario. Non solo per la robotica o le applicazioni di elevata tecnologia degli ospedali per acuti, ma anche per la riabilitazione neuropsicologica e dei problemi comportamentali».

Della ricerca di “Medea” trae giovamento l’attività di Seleggo, che dal 2015, grazie alla generosità di benefattori e volontari, mette online, a disposizione degli studenti dislessici, libri scolastici rielaboraticon caratteri adatti a ciascun ragazzo e con la possibilità di ascoltare il testo letto. «Finora abbiamo realizzato 320 libri – racconta Paolo Colombo, presidente di Seleggo – per le materie di studio: prima storia, geografia, scienze; ora tecnologia, musica e arte. Sono perlopiù testi della scuola secondaria di primo grado, ma stiamo affrontando anche i sussidiari della scuola primaria e i testi del biennio degli istituti professionali, nei quali si riscontra una quota di dislessici maggiore di quel 4-5% della popolazione generale». La piattaforma è a disposizione sia delle scuole, sia dei singoli studenti (con certificazione Dsa): «Abbiamo stretto accordi con Zanichelli e DeAgostini scuola per avere i testi a disposizione. E l’ultima versione del programma permette di personalizzare il libro sull’utente: sia per il carattere, ma anche per tono e velocità della voce che lo legge». 

A renderlo possibile sono i test gestiti da uno specialista con il software Tachidino, elaborato dall’Irccs “Medea”: «È frutto – spiega la psicologa Maria Luisa Lorusso, responsabile dell’Unità di neuropsicologia dei disturbi dell’apprendimento e del linguaggio – di 20 anni di nostre ricerche, sia sulla riabilitazione alla lettura con un approccio che riequilibra l’attività dei due emisferi cerebrali, sia sull’attenzione visiva nella dislessia evolutiva e sulla capacità di gestire l’informazione, riuscendo a focalizzarsi su ciò che è rilevante». «Tachidino è un programma di trattamento riabilitativo – conclude Lorusso – che, grazie a giochi ed esercizi ha la finalità di migliorare anche la capacità di leggere da parte di un ragazzo dislessico».