I mille volti di Atene e la fame di giustizia di Manzoni

Un viaggio attraverso i secoli che ha vissuto Atene e due articoli su Alessandro Manzoni – di cui nel 2023 ricorre il 150° della morte – hanno trovato spazio sulle pagine culturali dei quotidiani di domenica 15 gennaio.

Accompagnare un visitatore ad Atene svelando la stratigrafia della città lungo i secoli è il compito che si è assunto Giorgio Ieranò nel suo libro Atene. Il racconto di una città che appare recensito sia dal Corriere della Sera, sia dal supplemento culturale “Domenica” del Sole-24Ore. Su quest’ultimo, Cinzia Dal Maso («L’Acropoli oltre l’Acropoli») scrive che si tratta di «una guida sentimentale ai luoghi che hanno fatto la sua storia, per scoprire la città vera che ha mille anime oltre il suo intramontabile mito». Nel libro di Ieranò (che insegna Letteratura greca all’Università di Trento), scrive ancora Del Maso, «ogni capitolo intreccia miti ancestrali e storie antiche con la vita moderna e contemporanea, e rende così il senso profondo della riscoperta moderna della città antica in tutte le sue sfaccettature e contraddizioni». In definitiva, «un libro che si divora come un romanzo».

Sul Corriere della Sera, Mauro Bonazzi («Miti e storia, tesori e razzie. Com’è difficile essere Atene») esamina il libro di Ieranò fotografando la storia della città attraverso alcune tappe chiave: la distruzione che ne fecero i persiani nel 480 a.C., l’assedio dei veneziani capitanati da Francesco Morosini nel 1687 (con il bombardamento che ha semidistrutto il Partenone), e la razzia dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli, Lord Elgin, che all’inizio dell’Ottocento portò a Londra molte delle sculture rimaste sul tempio che domina l’Acropoli. Se il mito di Atene nasce con Pericle, scrive Bonazzi, esso rinasce – e potremmo dire si consolida – nell’Ottocento. Un’epoca in cui la Grecia tornata indipendente viene governata dal re Ottone I di Baviera che si affida ad alcuni architetti nordici, Theophil Hansen e Ernst Ziller, per dare un nuovo volto alla capitale. Da «città colorata, variopinta, balcanica», Atene «si sbianca: quasi tutti i quartieri centrali vengono rasi al suolo. Al loro posto sorgono edifici neoclassici, bianchi e marmorei». E se effettivamente l’aspetto di Atene dall’alto oggi è prevalentemente bianco, o chiaro, come appare arrivando in aereo o dai punti di osservazione panoramici (Licabetto, Filopappo, la stessa Acropoli), lo stesso non si può dire delle sue strade vivaci della Plaka o intorno a Monastiraki.

Restando al tema dei marmi del Partenone, è tornata di attualità la disputa tra il governo greco e quello britannico per la restituzione delle statue e dei fregi custoditi oggi al British Museum di Londra. Le trattative vanno avanti da tempo, e nelle scorse settimane, alcune notizie apparse sulla stampa britannica davano per possibile un accordo sulla base di un «prestito di lunga durata» o addirittura «permanente». Tuttavia, da un lato il governo greco ha ribadito che non riconosce altro che la restituzione di quanto portato via da Lord Elgin, dall’altro il ministro della Cultura del Regno Unito, Michelle Donelan, ha poi ribadito che non c’è alcuna intenzione di restituire qualcosa. Vedremo se la disputa, avviata almeno a partire dall’azione di Melina Merkouri, ministro della Cultura della Grecia alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, avrà una soluzione. Certo è che non si può più dire che i preziosi reperti ad Atene non troverebbero una collocazione adeguata: il moderno Museo dell’Acropoli (inaugurato nel 2009) ha dedicato al Partenone l’intero ultimo piano, con una ricostruzione in scala reale del tempio, addirittura orientato in modo da essere parallelo all’originale, che si staglia maestoso dietro le vetrate. Nel modello al Museo dell’Acropoli sono esposti tutte le sculture, i fregi e le metope disponibili, lasciando lo spazio per quelle, appunto, mancanti perché custodite a Londra.

Altro tema è l’opera di Alessandro Manzoni. Sul Foglio di sabato 14-domenica 15 Edoardo Rialti approfitta della pubblicazione di una nuova versione in inglese dei Promessi Sposi, per opera di Michael F. Moore, per svolgere una riflessione su come il romanzo sia stato recepito dalla società italiana («In America si traducono i Promessi sposi che ancora dividono l’Italia»). Innanzi tutto fa sua una battuta di Gesualdo Bufalino: «Come con Dio, i conti col Manzoni non si chiudono mai…» e osserva che «il suo peso sulle generazioni successive resta ancora oggi una delle coordinate fondamentali per valutare direzioni e scelte della scrittura italiana, e dell’identità nazionale stessa». Poi Rialti ricorda che «una prima difficoltà sta nel mettere semplicemente a fuoco lo spazio che I promessi sposi hanno occupato nell’orizzonte collettivo. Esso è tanto vasto che… tutti credono di conoscere già Manzoni, perché in fondo ci sono nati dentro, e la complessità e l’audacia della sua operazione risultano così apparentemente innocui, addomesticati». E da Gino Tellini raccoglie l’osservazione che «la cruda, quanto tragica, requisitoria di Manzoni contro l’inerzia intellettuale, contro la distorta amministrazione della giustizia, contro gli abusi e i soprusi del potere, si contrabbanda per mitezza ironica, per sorridente e blanda indulgenza». Ricordo a questo proposito ancora la lezione del mio insegnante di italiano al liceo, Paolo Paolini, che sottolineava la grande novità etica e culturale del romanzo manzoniano. E lamentava che fosse in parte sottostimato nell’immaginario collettivo perché era stato guastato dal ricordo dell’apprendimento svolto a scuola. Un’idea che, Rialti riferisce, aveva anche Umberto Eco, che suggeriva ai ragazzi di leggere il romanzo «liberandolo dalle pastoie scolastiche». Affrontando poi la traduzione inglese, Rialti sottolinea che emerge la «sottile e magnifica complessità» dell’italiano manzoniano. E si augura che «anche in Italia si torni a discutere, fuori dai convegni accademici, sul peso che ancora oggi Manzoni esercita sui nostri tentativi letterari». E conclude, su un altro piano, che Μanzoni mantiene «una prospettiva metafisica dell’esistenza», con domande che nella società italiana contemporanea «sembrano non potersi più porre nello stesso modo, se si pongono affattο».

Ancora a una vicenda manzoniana è dedicato un ampio articolo sul Corriere della Sera di domenica 15 gennaio: «Via l’infamia della Colonna». Gianni Santucci riferisce dell’iniziativa di Casa del Manzoni, fatta propria dall’Ordine degli avvocati e accolta dalla Corte d’Appello per apporre a Palazzo di Giustizia di Milano una targa commemorativa alla memoria di Gian Giacomo Mora, processato nel 1630 con l’accusa di essere un untore, cioè uno che spargeva il contagio della peste, e per questo torturato e condannato a morte (con Guglielmo Piazza). E anche dopo essere stato orrendamente ucciso, la giustizia dell’epoca, dopo averne raso al suolo la casa, fece erigere al suo posto una colonna che ricordasse la vicenda. Colonna che Manzoni prese a simbolo delle iniquità commesse stravolgendo la giustizia nella Storia della colonna infame, pubblicata in appendice ai Promessi sposi nell’edizione definitiva del 1840-42. Questo il testo della targa che verrà collocata – inaugurazione il prossimo 31 gennaio – accanto a quella per il giudice Guido Galli (ucciso dai terroristi il 19 marzo 1980): «Milano erigeva nel 1630 e conservava fino al 1778 un monumento di esecrazione e di infamia verso un umile cittadino di nome Gian Giacomo Mora. A lui e agli innocenti vittime in ogni tempo dei pregiudizi e dei fanatismi restituiscono per sempre dignità e onore i responsabili difensori della giustizia fedeli alla illuminata lezione di Pietro Verri e Cesare Beccaria eletta a codice di umanità dalla coscienza morale e civile di Alessandro Manzoni». Ai temi della giustizia, e agli effetti del suo uso distorto, Manzoni era particolarmente sensibile. Basta ricordare un passo del Fermo e Lucia: «I provocatori, i soperchianti, tutti quelli che in ogni modo invadono i diritti altrui, sono rei non solo del male che fanno, ma del pervertimento a cui portano gli animi di coloro che offendono». Santucci cita anche la spiegazione che Manzoni diede dell’ accecamento dei giudici: aver fatto una certezza di una superstizione: che il contagio potesse essere sparso con un unguento malefico. Da qui una giustizia deviata da «rabbia contro pericoli oscuri», «rabbia resa spietata da lunga paura». Manzoni puntualizzava che «tali cagioni non furono pur troppo particolari di un’epoca». Lo abbiamo visto nella recente pandemia da Covid-19. Senza giungere agli orrori del processo secentesco, paura e irrazionalità sono stati alla base dei toni da caccia all’untore e dello stravolgimento del buon senso che hanno caratterizzato molte decisioni delle autorità, anche ai piani più alti.

Nella stessa pagina del Corriere viene ricordata la recente edizione critica della Ventisettana dei Promessi Sposi, curata da Donatella Martinelli per il Centro nazionale di studi manzoniani (diretto da Angelo Stella).

Trieste, 1938: le leggi contro gli ebrei preludio della persecuzione

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Il discorso di Mussolini a Trieste il 18 settembre 1938

Quest’anno la Giornata della memoria cade a poca distanza dall’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi anti ebraiche in Italia. L’evento che più di ogni altro marchia negativamente il ventennio fascista è all’origine di quell’atteggiamento discriminatorio che diventò persecuzione vera e propria pochi anni dopo. Sull’argomento offre un’interessante documentazione la mostra allestita a Trieste al secondo piano del museo della Comunità ebraica “Carlo e Vera Wagner” (via del Monte 7) e aperta fino al 29 marzo prossimo. Il titolo «Basta, qui siamo finiti!» esprime in maniera chiara la consapevolezza (che non fu di tutti), che la promulgazione delle leggi razziali nel 1938 rappresentava un punto di non ritorno, e che la tradizione di produttiva presenza degli ebrei in una città multiculturale come Trieste non era più sufficiente a garantire loro una vita pacifica. A conferma, se mai ce ne fosse bisogno, dell’integrazione degli ebrei nella prima città italiana di respiro mitteleuropeo è possibile visitare anche il primo piano del museo, dove sono esposti foto e documenti relativi ai triestini ebrei che, a partire dalla metà del Settecento, si sono distinti in molti campi della cultura (non solo i ben noti Italo Svevo e Umberto Saba). E “Porta di Sion” era chiamata la città per tutti i perseguitati ebrei che, dalla seconda metà dell’Ottocento, dall’Europa orientale confluivano su Trieste per imbarcarsi verso la terra d’Israele, meta e speranza del nascente movimento sionista, o verso le Americhe. 

A inaugurare la mostra è un filmato tratto dal documentario che realizzò l’Istituto Luce in occasione della visita di Benito Mussolini a Trieste il 18 settembre 1938 . Non fu forse un caso se il duce scelse Trieste, città con la terza comunità ebraica in Italia (5mila iscritti), per annunciare – da un balcone dell’allora palazzo prefettizio in piazza Unità (ora sede del Comune) – l’arrivo di misure anti ebraiche: «L’ebraismo mondiale è stato durante 16 anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del fascismo». La frase, pretestuosa fino al ridicolo, ricevette il solito scroscio di applausi dalla piazza gremita. Ecco come rievocava quei momenti – in un’intervista del 1996 – un giovane universitario ebreo, Italo Dino Levi: «Ero sotto il palco, dove c’è guardia del corpo, tutti neri e subito davanti c’era la milizia universitaria. In quel momento uno dietro dice: “Butè fora Levi!”. E questo qui chi era? Un carissimo amico! Quando ho inteso, ho detto: Basta, qui siamo finiti!”». L’oscura minaccia di Mussolini suonò in parte inattesa, e colse di sorpresa molti ebrei, tra i quali non mancava chi fino a quel momento aveva sostenuto il regime. Tuttavia, a un osservatore attento, i preparativi per la svolta razzista, coeva a quanto andavano realizzando i nazisti in Germania, non potevano sfuggire. Anche se le leggi italiane furono approvate nel novembre 1938, erano sicuramente allo studio da tempo. Lo dimostra proprio la realtà triestina, dove una prima lista su base razziale fu promossa sin dal giugno 1937 e un altro censimento fu condotto nell’agosto 1938 per individuare gli appartenenti «alla razza ebraica». Dalla collaborazione tra Provincia e Comune fu compilata una lista di 6.787 ebrei domiciliati a Trieste, e una nuova “autodenuncia” fu richiesta agli ebrei nel 1939, e ancora nel 1942 un nuovo elenco distingueva gli ebrei puri e gli ebrei misti. Delle persone si registrava tutto: indirizzo, data di nascita, genitori, stato civile e data del matrimonio, professione e datore di lavoro. E note a matita («trasferitosi a Zurigo») testimoniano lo scrupolo con cui veniva tenuto aggiornato l’elenco. A indicare la natura nettamente razzistica dei provvedimenti adottati dal governo fascista è l’assoluta indifferenza verso le convinzioni personali o la credenza religiosa: per il solo fatto di essere ebreo fu perseguitato anche chi si era allontanato dalla religione dei padri, o chi aveva contratto matrimonio con cittadini cattolici, e persino ferventi patrioti (talora anche fascisti); la legge faceva eccezione solo per chi aveva in famiglia un parente che fosse stato eroe della prima guerra mondiale o morto per la “causa fascista”. 

Nelle scuole, dove i provvedimenti razzisti precedettero il discorso di Mussolini, non solo oltre 500 studenti furono espulsi, ma anche a 80 insegnanti ebrei fu impedito di continuare a lavorare: all’università solo chi era già iscritto potè proseguire il corso di laurea, mentre i docenti furono licenziati e sostituiti. Persino dei testi di autori ebrei fu vietata l’adozione (mentre nelle biblioteche scolastiche si acquistavano libri che illustravano le teorie razzistiche), e il rettore stesso, inaugurando l’anno accademico 1938-39 disse che era stata scongiurata «la minaccia dell’inquinamento della nostra razza». 

Particolarmente pesanti furono le conseguenze delle misure discriminatorie sugli ebrei stranieri (numerosi a Trieste proprio perché luogo di raccolta e transito di perseguitati in fuga) ai quali venne revocata la cittadinanza italiana se conseguita dopo il 1919: nei registri di classe della scuola elementare ebraica I. S. Morpurgo – che fu ampliata con la sezione delle medie e delle superiori per permettere di continuare a studiare ai ragazzi che furono espulsi dagli istituti statali, e che diede lavoro ai docenti licenziati – compaiono appunto le indicazioni di alunni “apolidi”. Mentre nella sede della Comunità, in via del Monte, continuarono a essere ospitati coloro che cercavano di emigrare. 

Le attività commerciali ebraiche – di proprietà o in compartecipazione –  andarono incontro a difficoltà crescenti e molti furono costretti a svendere: tra il 1938 e il 1940 passarono da 350 a 110. Il caso forse più noto è quello della libreria antiquaria Umberto Saba, che il poeta cedette al fido commesso Carlo Cerne (padre di Mario, l’attuale titolare). Ma anche in grandi imprese, borsa e assicurazioni le leggi razziste esclusero gli ebrei, mettendo in difficoltà il mondo economico e finanziario, in particolare compagnie di assicurazione, di navigazione e i cantieri navali attivi a Trieste. Cancellata inoltre la partecipazione degli ebrei alle società sportive e alle manifestazioni artistiche, con la grottesca decisione di togliere dal Museo Revoltella anche i quadri di pittori ebrei. 

Se le persecuzioni civili ed economiche appaiono odiose, tanto più risultano toccanti le testimonianze – esposte in mostra – dei tanti ebrei perseguitati che dopo il 1943 furono deportati nei campi di concentramento in Germania o alla risiera di San Sabba. Lettere, fotografie, documenti accompagnano le storie di persone che hanno visto la loro vita sconvolta, le loro famiglie spezzate, che hanno patito sofferenze inenarrabili tanto che molte testimonianze sono emerse tardi, talvolta a distanza di decenni dagli orrori visti e subiti. Conclude la mostra un video con alcune interviste a ebrei sopravvissuti, all’epoca bambini e ragazzi che non solo furono espulsi da scuola senza un motivo valido ma sperimentarono anche presto l’isolamento sociale: di solito, i loro coetanei, i loro compagni di studi e di giochi, li trascurarono del tutto. 

Infine una nota sulle libere professioni: in provincia di Trieste erano ebrei – secondo i calcoli del Piccolo – il 23,6% dei medici, il 5% dei farmacisti e degli architetti, quasi il 15% dei legali e l’8,4% degli ingegneri. Per tutti una legge del giugno 1939 istituì elenchi aggiunti o speciali ai rispettivi Albi di appartenenza. Fu del tutto vietato il notariato e – tranne eccezioni – il giornalismo. Il 10 novembre 1938 sul Popolo di Trieste fu pubblicato  un trafiletto per dare notizia dell’espulsione dal Circolo della stampa di due giornalisti professionisti e di sei pubblicisti, con tanto di elenco nominativo (ne faceva parte anche una collega fedele al regime, elogiata pochi mesi prima da Mussolini). All’ignominia dell’azione in sé (con l’ipocrisia di “considerare come dimissionari” i colleghi) il giornale fascista aggiungeva un commento in corsivo: «Era logico che i giudei non dovessero più far parte di quella che noi consideriamo la nostra casa, la nostra famiglia. Il giornalismo fascista è un posto avanzato della rivoluzione, che dev’essere presidiato da uomini puri di sangue e di cuore, da militi interamente votati alla Causa» (e un certo giornalismo che, anziché cercare di informare con onestà il lettore, diventa “militante” non ha smesso di fare danni nei decenni successivi). Il titolo del trafiletto, alla luce di quanto accadrà in seguito, suona quanto mai sinistro: «I giudei eliminati dal Circolo della stampa». 

MilanoAmbiente, per una città che cresca guardando al bene comune

DpNnWa5WwAASPkZ«Bimestrale di cultura e informazione del territorio milanese». Così recita l’intestazione di MilanoAmbiente, rivista giunta al suo quarto numero della rinnovata serie, in questi giorni in edicola. Non ho conosciuto la prima serie (edita tra il 1987 e il 1992), ma sfogliando le prime tre uscite, appare chiaro che i termini ambiente e territorio milanese vanno intesi in senso molto ampio, in un’epoca in cui, scrive nell’editoriale del primo numero il direttore Riccardo Debenedetti «le istanze ambientaliste sono state assorbite e adeguatamente metabolizzate dai loro stessi nemici. Il pensiero verde è diventato pensiero dominante». Ma se «gli allarmi per lo stato di salute del pianeta hanno prodotto più carta di quanto servisse un tempo per diffondere un’idea ragionevole di mondo» continua Debenedetti «le proposte di soluzione non sono nel libro dei sogni ma si trovano nel libro paga di multinazionali, potenti e ben finanziate». Che cosa allora si propone MilanoAmbiente? «Leggere la città metropolitana di una regione fin troppo centrale di una nazione fin troppo periferica. Scriverne offrendo al lettore una sorta di diario fenomenologico con un po’ di storia a uso delle giovani generazioni morbilizzate. Pubblicare dando più possibile voce ai punti di vista di coloro che la pensano diversamente». In quest’ultimo proposito recuperando, forse, quell’ispirazione degli ambientalisti prima maniera, diciamo anni Settanta-Ottanta, che apparivano quasi sempre “all’opposizione” delle soluzioni che il progresso tecnico (fatto proprio dalla politica) proponeva.

Ecco quindi che sul primo numero Mauro Afro Borella esamina le derive dell’urbanistica, che da «disciplina che attraverso la propria ragione d’essere organizzava il nostro territorio cercando di rappresentare tutti i soggetti interessati e che attraverso prescrizioni cercava di fare i conti in tasca alla speculazione edilizia» ha trasformato la sua «logica d’approccio in una complicata teorizzazione che ha perso di vista l’oggetto della sua esistenza: la città dei cittadini». Cita la difficoltà che incontrano i progetti legati a una visione complessiva dei problemi da risolvere, dalla (finora mancante) Biblioteca europea da realizzarsi a Porta Vittoria al trasferimento dell’Accademia di Brera anziché della Pinacoteca (che ne è ospite e che, suggerisce Borella, poteva diventare un polo culturale a City Life), fino alla sistemazione dell’area delle ex Varesine, trascinatasi per 70 anni «per poi concludersi nella realizzazione di una grande speculazione edilizia che fa da precedente a quelle che si cerca di intraprendere con la richiesta di dismissione di altri tracciati ferroviari in Milano». Sullo stesso numero della rivista affrontati altri “nodi”: la destinazione della Piazza d’armi dietro la caserma di piazzale Perrucchetti o la riapertura dei Navigli. Sul primo tema viene ripubblicato un graffiante articolo di Luca Trada che mette in guardia sul rischio di privatizzare e cementificare un’enorme area verde quasi nel cuore della città, e che allarga la critica alla gestione del territorio, vedendo la trasformazione in atto di Milano in «una città sempre più esclusiva ed escludente, a misura di turista facoltoso, sempre più ostile per chi quotidianamente la vive o la attraversa per lavoro o per studio, con spazi pubblici e socialità profit sempre più sostituiti dai finti spazi pubblici all’interno dei nuovi non-luoghi, ovviamente privati (Gae Aulenti e Citylife su tutti)».

milano_navigli-coverSul secondo tema, MilanoAmbiente apre un dibattito con l’articolo di Alberto Maria Prina che parla di «una proposta poco rivoluzionaria», suggerendo di destinare la somma prevista «non al nuovo ma alla manutenzione dell’esistente». Il dibattito prosegue nel secondo numero della rivista con gli articoli di Roberto Rainoldi, che invita a riprendere in considerazione un progetto degli anni Ottanta dell’architetto Empio Malara, volto a migliorare la navigabilità dei Navigli, e a puntare sull’intero percorso tra Locarno e Venezia; e di Roberto Biscardini, che invece vede nella riapertura «la più grande opera ambientale mai realizzata a Milano dal 1946 ad oggi». Di contorno, Pietro Esposito con «Navig(li)are lungo la letteratura» commenta la proposta di riapertura utilizzando a supporto, un po’ impropriamente, la graziosa rievocazione La Milano dei Navigli. Una passeggiata letteraria di Dante Isella (edita nel 1987 e recentemente ripubblicata per i tipi di Officina Libraria, 2017). Ancora di rievocazioni, non solo letterarie, si occupano le pagine dedicate a Casa Petrarca da Massimo de Rigo che segnala il fatto che Villa Linterno, dimora agreste del poeta a Milano, pur essendo stata mantenuta di proprietà pubblica, pare dimenticata dalle istituzioni e rischia perciò di essere fagocitata in piani di privatizzazione.
Del terzo numero cito solo l’articolo «Salviamo città studi», una zona che conosco piuttosto bene, a firma di Irene Pizzocchero. Insieme con il trasferimento di Istituto neurologico Besta e Istituto nazionale dei tumori nella nuova sede a Sesto San Giovanni, si progetta trasloco delle facoltà scientifiche nell’area Expo, con la conseguenza, appunto, di svuotare Città studi: «Circa 350mila metri quadrati che tra qualche anno potrebbero mostrarsi tragicamente vuoti, bui e deserti. Un terzo di tutto il quartiere, 33 edifici della sola università più i due complessi ospedalieri. Ventimila persone e un incalcolabile indotto portati in dote a qualche multinazionale straniera specializzata in operazioni immobiliari», ipotizza l’autrice. Il sospetto è lecito visto che «nell’area ex Expo l’università pubblica pagherà un canone trentennale a un’impresa privata, liberando aree di sua proprietà in una zona milanese di pregio».

Oltre a questioni urbanistico-finanziario-ambientali, non disdegnando squarci di ricostruzione storica, in questi primi tre numeri MilanoAmbiente si è occupato anche di problemi sociali quali il gioco d’azzardo o la vivibilità dei condomini in zone di periferia. Mi sembra interessante segnalare anche la collaborazione avviata con la rivista trimestrale francese Limite. Revue d’écologie intégrale (d’orientamento cristiano) con la pubblicazione di un articolo tradotto di Gaultier Bès, dedicato alla faccia nascosta dell’high-tech, vale a dire lo sfruttamento intensivo dei metalli rari che le tecnologie informatiche richiedono. E che ha portato non solo a una lotta planetaria per accaparrarseli, con la Cina in netto vantaggio, ma anche un aumento di inquinamento da parte di industrie minerarie tutt’altro che ecologiche.

MilanoAmbiente appare un po’ un grillo parlante, coscienza critica che si propone di fare le pulci a un certo facile ottimismo, abituato a misurare la bontà di una scelta politico-economica solo in termini di Pil, «che è – scrive De Benedetti nel terzo numero – misura particolare, che non include alcuna valutazione della sua incidenza sulla vita degli individui. L’economia cresce ma gli ambulatori sono pieni di gente in attesa; le persone in cura crescono altrettanto, e se non usa più la cura d’anime in canonica i suoi surrogati impazzano e tutto ciò che ha “psico” come suffisso va a mille» e mettendo queste spese nel Pil «riesce a rendere positivo anche il mal di vivere perché lo contabilizza».

È tempo di sfogliare il numero 4 di MilanoAmbiente che, sin dall’editoriale su diga del Vajont e ponte Morandi, mette il dito nella piaga delle italiche furbizie che diventano tragedie. Ma anche gli articoli sulla Statale nell’area Expo e sulla piscina Ponzio (altra storica presenza a Città studi) promettono scintille.

La credibilità dei giornalisti

giornaliTrovo molto interessante l’articolo di Anna Masera ieri sulla Stampa: «Per contrastare l’odio dobbiamo dare l’esempio». Perché mette il dito nella piaga di una situazione che rischia di avere conseguenze pesanti, innanzi tutto per la professione giornalistica, ma in ultima analisi della stessa civile e democratica convivenza. Questo perché ritengo – non so se sono un illuso – che una corretta gestione dell’informazione sia vitale per il formarsi di un’opinione pubblica il più possibile adulta e responsabile. Masera osserva che l’ostilità verso i giornalisti è cresciuta (non più solo perché sono «impiccioni») e la fiducia nei giornali è ai minimi storici, persino incoraggiata da politici portatori di «una retorica anti-media». E, rivolgendosi principalmente ai colleghi giornalisti, cita la cattiva abitudine, anche tra coloro che fanno informazione, di litigare in pubblico, in televisione, alzando i livelli dello scontro.

Se è ovviamente legittimo che il giornalista abbia le proprie opinioni, e talvolta le manifesti, non è utile – e forse anche poco deontologico – continuare a “martellare” chi esprime un’idea differente non sulla base di un confronto su fatti, ma per un pregiudizio ideologico che porta a dare ragione agli amici e torto ai “nemici”. Questo è peraltro il panorama che caratterizza su tanti temi gran parte della stampa, non solo in Italia – credo – visto Anna Masera cita le riflessioni di Indira Lakshmanan dopo la strage di Annapolis: «Per mantenere il confronto, anche aspro, sul piano delle idee, è importante che chi fa il giornalista di mestiere non partecipi alla rissa e spieghi il proprio lavoro, chi è, che cosa fa, perché lo fa, perché è importante che lo faccia». Chiosa Masera: «Lo scopo del nostro lavoro è fare luce, dare voce a chi non ce l’ha e chiedere conto a chi governa. Poi esercitiamo la libertà di espressione come tutti. Ma se vogliamo che i giornalisti siano riconosciuti come cittadini da rispettare e non nemici del popolo, non dobbiamo rinunciare a dare l’esempio».

La libertà di parola e la facilità di commentare che oggi ogni persona può sperimentare grazie ai social network mettono in chiaro, secondo me, almeno due cose: è controproducente e pericoloso alimentare sentimenti di contrapposizione viscerale e di ostilità verso individui, categorie o situazioni. Restando ovviamente lecito il dissenso e la critica o il biasimo di singoli comportamenti. Ma quando tale atteggiamento si manifesta in ricerche, dichiarazioni, campagne, a senso unico (se non “ad personam”) si perde facilmente il senso del nostro lavoro. Purtroppo i giornali, e con loro i giornalisti, sono sempre più spesso «schierati», e già dalle prime pagine si avverte la posizione che dà torto a uno e ragione all’altro, con toni spesso surriscaldati, e in modo aprioristico. (A margine osservo che sul Foglio di oggi Marco Archetti rileva la moda di stroncare un libro con «schiamazzo». Anche se il mondo letterario merita un discorso a parte). Ricordo che anni fa un medico, a margine di un’intervista su un tema eticamente sensibile e piuttosto divisivo, espresse la sua linea di condotta: «Noi scienziati dobbiamo spiegare bene gli aspetti tecnici, per aiutare la gente a farsi un’opinione, ma in toni pacati, distendendo gli animi, non alimentando asprezze e scontri». E se Umberto Eco lamentava che i social avessero dato il diritto di parola agli imbecilli, mi pare inevitabile ricordare che la “pancia” della popolazione è sempre esistita: negli anni Ottanta e Novanta, Radio Radicale aprì i microfoni alle telefonate in diretta e fu sommersa da un diluvio non solo di oscenità e bestemmie, ma di espressioni di odio e livore fini a sé stesse.

A questi motivi, direi etici e deontologici, che dovrebbero spingere il giornalista a «dare l’esempio», come scrive Anna Masera, ne aggiungerei uno di opportunità. In una situazione economica che vede spesso le aziende editrici puntare a ridurre le spese “tagliando” sul costo del personale giornalistico, giocando al ribasso nei compensi nella falsa opinione che chiunque sia in grado di parlare e scrivere, senza riguardo alla qualità dell’informazione (che non è data solo dalla bella prosa), è controproducente per la categoria alimentare motivi di disistima, quando non di vero disprezzo. Evito di ricordare fatti più gravi, e mi limito al calcio (peraltro uno dei temi più “divisivi”): in occasione della partita di Coppa Italia andata in onda a gennaio senza commento per un contemporaneo sciopero in Rai, si sono sprecati sui social i commenti di chi riteneva che fosse una trasmissione migliore, senza le parole dei giornalisti. Prima di essere considerati del tutto irrilevanti (quando non dannosi), è forse opportuno un cambio di rotta. Persa la credibilità, al giornalista non resta nulla.

Vita e letteratura, l’impresa critica di Giancarlo Vigorelli

mostra_vigorelliUn panorama straordinario si dispiega nella mostra «Brama di Vita e di Letteratura. Giancarlo Vigorelli nel clima culturale del Novecento», in corso alla Biblioteca Sormani di Milano fino a sabato 5 maggio (aperta nei pomeriggi dei giorni feriali). Lettere originali, fotografie, riviste, libri con dediche autografe – oltre a chiari pannelli riassuntivi delle tappe della carriera di Vigorelli – offrono un quadro approfondito della poliedricità del critico letterario (nato a Milano nel 1913 e morto a Marina di Pietrasanta nel 2005) che per circa settant’anni ha spaziato tra poeti e prosatori (occupandosi anche di pittura e di cinema), con grande acutezza e indipendenza di giudizio. Curata da Giuseppe Langella, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università Cattolica, di cui dirige anche il Centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita”, la mostra dà conto del grande patrimonio custodito proprio dalla Biblioteca Sormani, che dal 2008 ospita l’intero archivio Vigorelli: e sullo scalone che porta alla sala del Grechetto, le bacheche espongono i loro “gioielli” in ordine cronologico, accanto alle molte fotografie che testimoniano la dimestichezza e i rapporti di amicizia intessuti con numerosissimi uomini di cultura del Novecento italiano.

Documenti rari

Impossibile – e superfluo – citare tutti i letterati presenti (sarebbe stato utile prevedere almeno un piccolo catalogo della mostra): mi sembra opportuno segnalare però alcune testimonianze particolari, o anche solo di difficile reperibilità. Parto con la lettera di Giovanni Papini, che nel 1934 ringraziandolo di un articolo pubblicato sull’Italia, mette un giovane Vigorelli tra gli «entusiasti ricercatori d’ogni pensiero e d’ogni letteratura». Una chicca filologica è la lettera di Eugenio Montale che accompagna la prima versione del sonetto elisabettiano «Gli orecchini», comparso poi a stampa in forma molto diversa: lo stesso Vigorelli lo definisce (nel 1989) un inedito. Interessante la lettera di Carlo Emilio Gadda di apprezzamento per la pubblicazione (1941) dello studio su Matteo Maria Bandello (il primo lavoro di Vigorelli in volume, di cui è esposta una copia con dedica ai genitori). Si può leggere anche l’articolo (uscito sul settimanale Il tempo nell’agosto del ’43) in cui esprimeva soddisfazione per la caduta del regime fascista – in toni molto civili, a leggerlo oggi – e per il quale fu costretto a rifugiarsi in Svizzera. Emozionanti la busta e la carta da lettera intestata della Libreria antiquaria di Trieste per la missiva di Umberto Saba (1950), così come quella del Gabinetto Viesseux per il biglietto di Montale (1938). E ancora le lettere dattiloscritte dell’amico Pier Paolo Pasolini o le diverse risposte che diedero Elio Vittorini, Alberto Moravia, Elsa Morante, Salvatore Quasimodo, Guido Piovene per l’inchiesta lanciata da Vigorelli sulla rivista Successo nel 1961, dal titolo: «È finito il fascismo in Europa?». Fino agli autografi di Leonardo Sciascia (1971), Gesualdo Bufalino (1981) e Claudio Magris (1992).

Alle recensioni di spettacoli teatrali corrispondono biglietti di ringraziamento da parte di Franco Zeffirelli, Vittorio Gassman, Carmelo Bene, Giorgio Strehler. Invece le sue frequentazioni artistiche sono testimoniate dalle dediche di volumi da parte di alcuni pittori: Renato Guttuso, Aligi Sassu, Enrico Baj, Salvatore Fiume, Dino Buzzati; oltre all’intervista, comparsa nel 1977 sul settimanale Gente, in cui Vigorelli rievoca l’amicizia con Antonio Ligabue, l’artista di cui contribuì a diffondere la conoscenza, e dal quale fu ritratto (e l’opera, ora in collezione privata, è qui esposta).

Amico di tutti, ma critico rigoroso

La visita della mostra richiama alla mente il volume Carte d’identità. Il Novecento letterario in 21 ritratti indiscreti, opera di Vigorelli pubblicata nel 1989, cui si rifanno anche molte didascalie dei documenti esposti. La lettura di questa raccolta di saggi, in parte molto remoti, in parte scritti per l’occasione, permette di approfondire il «metodo critico» di Vigorelli, di apprezzarne la libertà di pensiero e di comprendere meglio anche il titolo della mostra. «Se un presunto metodo mi sta sotto la pelle – scrive “In apertura” del volume – è un non preordinato bisogno di rinvenire in uno scrittore quella coincidenza (…) che a mio modo tento in me di pareggiare, quanto meno di parallelizzare, tra Vita e Letteratura». E poco oltre: «Una e unica è la voce di un’autentica Letteratura, pur che riesca a conglobare il romanzo convergente della Vita e della Letteratura».

Di questa stella polare si serve per vagliare le opere degli autori, siano essi critici, da Benedetto Croce a Gianfranco Contini, passando per Giuseppe Antonio Borgese, Emilio Cecchi e Carlo Bo, poeti (Eugenio Montale e Vittorio Sereni) o narratori, da Carlo Emilio Gadda a Vitaliano Brancati, da Beppe Fenoglio a Italo Calvino e Goffredo Parise. Se il superamento – in ambito letterario – di Croce e del crocianesimo appare al giorno d’oggi abbastanza consolidato, non lo era ancora all’epoca in cui Vigorelli (e ancor prima Cecchi) si espressero. Ma anche verso Contini (ritenuto ottimo come filologo) manifesta riserve: la sua storia letteraria dell’Italia unita «non è che un passaggio da un “caso letterario“ all’altro, da una poetica all’altra, ma negligendo intenzionalmente il corso delle idee, che possa in qualche maniera determinare o no quei passaggi e quei mutamenti». Anche sui romanzieri non mancano giudizi netti: rivalutazione di Brancati (trascurato dai critici) e di Fenoglio (penalizzato da Vittorini) rispetto a Cesare Pavese, sferzato il degenerare di Alberto Moravia nel decennio 1970-80, stroncato Parise (salvo una palinodia a proposito del suo primo romanzo, Il ragazzo morto e le comete) nonostante l’apparire delle sue opere nei «Meridiani» Mondadori (anzi contesta la tendenza «a far passare per “classici“ non pochi “contemporanei”», addirittura viventi).

La «lunga fedeltà» ad Alessandro Manzoni

Ho lasciato in fondo i riferimenti al “manzoniano” Mario Pomilio, che già nel 1955 gli scriveva per complimentarsi per le «aperture impreviste», «le suggestioni inedite e feconde» che Vigorelli aveva espresso l’anno prima in Manzoni e il silenzio dell’amore. Oltre all’apprezzamento per Il quinto Evangelio («un libro di speranza, e di profezia»), Vigorelli vede nel Natale del 1833 (che scandaglia la crisi di Manzoni alla morte della moglie Enrichetta Blondel) una «splendida perlustrazione del dramma manzoniano». E manzoniano sin dalle origini può essere definito Vigorelli, che aveva pubblicato un innovativo commento alla Storia della colonna infame già nel 1942: non solo fu presidente del Centro nazionale di studi manzoniani (avviando l’Edizione nazionale ed europea delle opere), ma al romanziere lombardo dedicò a più riprese la sua attenzione. Mi piace ricordare quella singolare antologia di testi manzoniani Il “mestiere guastato” delle Lettere (1985) che documenta il “processo” che Manzoni intentò alla letteratura italiana in nome di un desiderio di aderenza al reale. Nel saggio introduttivo «Manzoni, e la rivalutazione dei valori romantici» Vigorelli sottolinea che «tutta l’intrepida polemica del Manzoni contro la nostra letteratura proveniva dalla constatazione inappellabile che il tradizionale letterato italiano si è sempre presentato e rappresentato sotto la livrea e la maschera dell’uomo della “doppia verità”: e la sua spesso presunta “poesia” copriva immoralmente e l’una e l’altra “verità”, e cioè la sottostante ma dominante falsità». Oltre a suggerire di «rileggere il Manzoni, non limitandolo ai Promessi Sposi, che oltretutto esigono riletture in tempi diversi della vita» (è diventato un libro scolastico, ma non era stato certo scritto per gli studenti), Vigorelli invita a prendere «coscienza proprio nel nome di Manzoni che la letteratura plagiata sulla letteratura è finita sul letto di morte e non avrà neppure una bella morte». E conclude che «la letteratura non può essere – Manzoni ne ha data l’unica definizione corrispondente al valore – che “un ramo delle scienze morali”». Una definizione appropriata per chi, come Vigorelli, voleva pareggiare vita e letteratura.

La responsabilità di dare le notizie

giornaliUna riflessione sulla qualità intrinseca del mestiere del giornalista viene sollecitata da due articoli pubblicati oggi. Sul Foglio, Eugenio Cau dà conto degli sforzi di alcuni colossi delle tecnologie 2.0 (Facebook, Google, Apple, Microsoft) per limitare la circolazione di informazioni false; sulla Stampa, due articoli di Paolo Mastrolilli illustrano il caso dell’utilizzo di robot per «confezionare notizie».

Il tema delle notizie false (le fake news) sta crescendo di importanza da quando l’informazione è sempre più diffusa a livello capillare dal singolo cittadino-utente della rete internet e non più «filtrata» attraverso il lavoro di professionisti, impegnati – anche deontologicamente – a verificare che quanto pubblicano o trasmettono sia aderente alla «verità sostanziale dei fatti», come recita la legge che nel 1963 in Italia istituì l’ordine dei giornalisti. Cau osserva che dopo una lunga e strenua difesa, tendente a minimizzare le proprie responsabilità nella diffusione di notizie false, il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg ha di recente annunciato «nuovi provvedimenti contro le notizie false che si propalavano sul suo social network». Analogamente Google «ha annunciato un «un grosso cambiamento al suo algoritmo di ricerca su internet»: si tratterebbe di avvantaggiare, nel rispondere a una ricerca, i risultati«provenienti da fonti autorevoli», evitando che vengano privilegiati – per esempio – siti che parlano dell’Olocausto come di uno «scherzo», come è successo. E Facebook starebbe sperimentando addirittura la possibilità di mostrare contenuti di taglio e orientamento diversi da quelli dell’utente – contrariamente a quanto accade finora – per farlo uscire dalla “bolla” informativa creata dal fatto che finora gli vengono proposti sempre argomenti e punti di vista correlati alle sue preferenze. Infine, continua Cau, c’è Wikipedia, il cui fondatore Jimmy Wales, ha annunciato il progetto Wikitribune, «un nuovo giornale online in cui dei giornalisti professionisti scriveranno le notizie, mentre un gruppo di volontari farà un controllo anti fake news e verificherà fonti e toni dell’articolo». Tutto sta però nel sapere «chi» scrive e «chi» controlla.

Sulla Stampa si parla di intelligenza artificiale per confezionare notiziari. Al Washington Post è in funzione Heliograf, un robot che prende informazioni da banche dati e le trasforma in articoli «sulla base delle indicazioni ricevute dai programmatori, e sotto il controllo di esseri umani» scrive Mastrolilli. Ha «lavorato» per le Olimpiadi di Rio e per le elezioni americane per fornire pezzi ricchi di numeri che avrebbero richiesto molto lavoro. Simili strumenti sono in funzione all’Associated Press e a Usa Today. Nella stessa pagina parla Jeremy Gilbert, direttore delle iniziative speciali al Washington Post, che tranquillizza lettori (e giornalisti) sul fatto che gli umani saranno sempre necessari: «Per scoprire il Watergate, continueranno a servire grandi giornalisti come Bob Woodward e Carl Bernstein, capaci di intuire le notizie e coltivare le fonti. Le macchine potranno sollevarli dai compiti più scoccianti, o aiutarli con l’analisi dei dati e la scrittura, in modo che siano liberi di concentrarsi sugli aspetti davvero importanti e interessanti». Non si temono fake news dal robot perché queste «sono un atto deliberato. Le persone che le pubblicano cercano profitti personali, o vogliono manipolare l’elettorato. Se la macchina sbaglia, lo fa per errore». Ai giornalisti continua a essere riservata la parte più nobile del lavoro: «Le relazioni, la capacità di sviluppare le fonti, e l’intelligenza nell’analisi delle notizie restano fondamentali per il nostro giornalismo, e richiederanno sempre gli esseri umani». La nuova era è iniziata, ma per avere la qualità occorrono gli uomini, che abbiano ben presente la loro grande responsabilità.