Fratel Elio Croce, una vita donata al Signore e al popolo dell’Uganda

Nel trigesimo della morte, fratel Elio Croce ricordato da Dominique Corti, presidente della Fondazione Corti onlus. Il mio articolo è stato pubblicato su Avvenire nelle pagine di Catholica

<p value=”<amp-fit-text layout=”fixed-height” min-font-size=”6″ max-font-size=”72″ height=”80″>Fratel Elio Croce, missionario comboniano trentino morto l’11 novembre all’ospedale governativo di Kampala (Uganda) per il Covid-19, ora riposa nell’area al centro del <a href=”http://www.lacorhospital.org/&#8221; target=”_blank” rel=”noreferrer noopener”>St. Mary’s Hospital Lacor</a> di Gulu che ospita le tombe dei fondatori dell’ospedale, i coniugi medici Piero Corti e Lucille Teasdale, e quella di Matthew Lukwyia, il medico ugandese che perì nell’epidemia di Ebola nel 2000. <br>Di fratel Elio ha un mare di ricordi Dominique Corti, figlia dei fondatori e presidente della <a href=”https://fondazionecorti.it/&#8221; target=”_blank” rel=”noreferrer noopener”>Fondazione Corti onlus</a>, che sostiene l’attività dell’ospedale: «Quando nel 1985 arrivò al Lacor dall’ospedale di Kitgum, dove si trovava dal 1971 – racconta Dominique Corti – qualcuno avanzò il dubbio che due personalità forti come la sua e quella di mio padre potessero scontrarsi. Invece fu amore a prima vista: papà pensava in grande e cercava i fondi, Elio era la mano che realizzava i progetti. Al Lacor non c’è costruzione che non sia stata realizzata o ampiamente ristrutturata da lui. Condividevano la stessa totale dedizione alla popolazione».Fratel Elio Croce, missionario comboniano trentino morto l’11 novembre all’ospedale governativo di Kampala (Uganda) per il Covid-19, ora riposa nell’area al centro del St. Mary’s Hospital Lacor di Gulu che ospita le tombe dei fondatori dell’ospedale, i coniugi medici Piero Corti e Lucille Teasdale, e quella di Matthew Lukwyia, il medico ugandese che perì nell’epidemia di Ebola nel 2000.
Di fratel Elio ha un mare di ricordi Dominique Corti, figlia dei fondatori e presidente della Fondazione Corti onlus, che sostiene l’attività dell’ospedale: «Quando nel 1985 arrivò al Lacor dall’ospedale di Kitgum, dove si trovava dal 1971 – racconta Dominique Corti – qualcuno avanzò il dubbio che due personalità forti come la sua e quella di mio padre potessero scontrarsi. Invece fu amore a prima vista: papà pensava in grande e cercava i fondi, Elio era la mano che realizzava i progetti. Al Lacor non c’è costruzione che non sia stata realizzata o ampiamente ristrutturata da lui. Condividevano la stessa totale dedizione alla popolazione».

Il suo incarico al Lacor era quello di direttore tecnico: «Fratel Elio aveva capacità incredibili, affinate dalla lunghissima esperienza in Africa: non solo progettava, ma dirigeva i lavori in cantiere e sapeva fare manutenzione. Era difficile stargli dietro, ma ha allevato squadre di operai locali a eseguire lavori a regola d’arte: perché soprattutto dove le risorse sono scarse, la buona volontà non basta, ci vogliono competenza e capacità. Ha costruito padiglioni ospedalieri, scavato pozzi, impiantato attività tecniche e agricole. Persino la grande chiesa poco lontana dall’ospedale, dedicata a san Daniele Comboni, è opera sua, eretta quando apparve chiaro che la piccola cappella del Lacor era insufficiente. Adesso avevamo intenzione di ristrutturare le casette del personale e saremo in difficoltà, perché ci vorranno tre persone per coprire le sue competenze».

Fratel Elio Croce ha vissuto tutte le vicende, anche le più tragiche, degli acholi, la popolazione che abita questa regione dell’Uganda: dalle crudeli lotte tribali all’Ebola, come testimoniano i suoi Diari di guerra e di pace (1996-2004), pubblicati nel 2016. «È stato non solo un costruttore di edifici, ma anche di pace – sottolinea Dominique Corti –. Un eroe non con le spade, uno di quelli che fanno il bene per aiutare il prossimo, a 360 gradi: quando vedeva un bisogno, partiva per portare il suo aiuto, senza mai tirarsi indietro, nonostante rischi e pericoli. In questo modo aveva “ereditato” da Bernardetta la gestione del St. Jude Children’s Home, casa e scuola per bambini orfani e/o con disabilità, e lo sosteneva grazie alla sua capacità di raccogliere fondi».

In tutte le opere, a maggior ragione in quelle di carità, fratel Elio era sostenuto da una fede profonda: «Anche in questo era una roccia, e sosteneva che la Provvidenza porta avanti le sue opere attraverso le persone che trova, e questo valeva anche per il St. Jude Children’s Home: “Se ci fidiamo e manteniamo questo spirito – diceva – penso che la Provvidenza non ci abbandonerà”». Tanta generosità gli è valsa infinita riconoscenza: «Nell’ultimo suo messaggio whatsapp che ho ricevuto il 22 ottobre – conclude Dominique Corti – quando era già da diversi giorni ricoverato in terapia intensiva, Elio mi ha scritto che si sentiva meglio (confesso di aver sperato che ce la facesse) e aveva mangiato verdura e burro di arachidi, una ricetta locale preparata da due donne acholi che aveva incontrato in ospedale. E una di queste lo aveva ringraziato perché fratel Elio le aveva pagato le scuole per sette anni e così aveva potuto diventare maestra. Una tra le migliaia di bambini ai quali aveva contribuito a dare un futuro».

«Benedetto XVI a Pavia convinse anche gli scettici»

La mostra sui personaggi illustri all’università di Pavia mi ha richiamato alla memoria l’intervista che feci per Avvenire nel 2008 al rettore Angiolino Stella, in cui rievocava la visita di Benedetto XVI all’ateneo pavese, l’anno precedente. Il Papa era stato invitato all’inaugurazione dell’anno accademico all’Università La Sapienza di Roma, ma le proteste di alcuni docenti e studenti contro la sua presenza l’avevano indotto a rinunciare. Benedetto XVI diffuse comunque il testo che aveva preparato per l’occasione. 

Epigrafe B. XVI
L’epigrafe in ricordo della visita di Benedetto XVI all’Università di Pavia, nel 2007

«Siamo stati arricchiti dalla visita del Papa». Non ha dubbi il rettore dell’Università di Pavia, il professor Angiolino Stella, nell’indicare co­me «momento felice che rimarrà nella sto­ria dell’ateneo» l’incontro vissuto il 22 a­prile 2007 durante il viaggio che Benedet­to XVI ha compiuto nelle diocesi di Vige­vano e di Pavia. E aggiunge: «Il confronto tra componente cattolica e componente laica è essenziale per costruire il patrimo­nio comune nell’università. «Non ho visto nessuna imposizione nel discorso del Pa­pa, ma l’ispirazione a ideali alti e assolutamente condivisibili. Anzi, anche chi a Pa­via era perplesso sulla visita ha potuto con­vincersi della sua opportunità. Credo che a Roma abbiano perso questa occasione».

Rettore, come ha vissuto l’organizzazione della visita del Papa nella sua università lo scorso aprile?

Durante il viaggio a Pavia di Benedetto X­VI il suo interesse come studioso verso la figura di sant’Agostino rappresentava un forte stimolo a fare una tappa alla nostra u­niversità. Sant’Agostino, infatti, insieme con santa Caterina di Alessandria, è uno dei patroni dell’ateneo di Pavia. Inoltre, il Papa ha un passato accademico di cui va orgoglioso e sapeva che a Pavia c’è un’università antica, che può vantare una gran­de tradizione e grandi maestri: anche noi tenevamo moltissimo che venisse. Anche se in una comunità ampia come quella u­niversitaria si sono levate alcune voci di perplessità o dissenso, durante la visita non c’è stata ombra di contestazione. E molti scettici hanno cambiato idea.

Che cosa ricorda di quell’incontro?

È stata una bellissima giornata di sole nel cortile Teresiano, che dà una sensazione di respiro storico: ricorda Maria Teresa d’Au­stria che ha avuto un ruolo importante per l’università di Pavia. Erano presenti più di duemila persone. Sia il mio discorso sia quello del rappresentante degli studenti hanno avuto applausi ed elogi. L’interven­to del Papa ha ottenuto consensi unanimi. È stata una grande festa, Benedetto XVI e­ra felicissimo, lo si vedeva sorridente. E do­po la visita abbiamo avuto notizia, trami­te il vescovo di Pavia, anche dell’apprezza­mento della Santa Sede.

Come ha accolto l’università il discorso del Papa? È parsa ferita la laicità dell’istituzione?

Nell’università, in particolare in un ateneo che ha tradizione storica come quello di Pavia, devono sapere convivere le diverse componenti. Come ho detto nel mio di­scorso, non solo la convivenza, ma il con­fronto e l’interazione tra la componente cattolica e la componente laica sono un dovere per costruire insieme il patrimonio comune e la missione dell’università. Non vedo nessuna imposizione da parte del Pa­pa: si deve saper ascoltare, con attenzione e rispetto. Questo non vuol dire rinuncia­re alle proprie idee e convinzioni, ma cre­do che dall’intervento del Papa possono e­mergere spunti di riflessione e approfon­dimento utili per tutti, anche per chi è su posizioni non dico laiche, ma addirittura a­tee. Non c’è nessun pericolo nel confron­to con opinioni diverse, soprattutto se a parlare non è solo il Papa, figura sempre di indiscusso prestigio, ma nel caso di Bene­detto XVI, anche uno studioso di grande rilievo. Allora non solo non sono a rischio le idee degli altri, ma vi può essere il modo di arricchirsi ulteriormente.

Un confronto tra le diverse tradizioni si legge anche nel discorso che il Pontefice non ha potuto pronunciare a Roma. Vista la sua esperienza, lei crede che alla Sapienza si siano persi qualcosa?

Non c’è dubbio, perché da noi è stato un arricchimento per tutti. Quella visita ri­marrà nella storia della nostra università come un momento felice, che non solo non ha generato contrasti, ma se potenzial­mente ce n’erano, li ha cancellati. Le cito un brano del discorso del Papa a Pavia: «Ca­ri amici, ogni università ha una nativa vo­cazione comunitaria, essa è infatti una co­munità di docenti e studenti impegnati nel­la ricerca della verità e nell’acquisizione di superiori competenze culturali e profes­sionali. La centralità della persona e la di­mensione comunitaria sono due poli coes­senziali per una valida impostazione della universitas studiorum». Un intervento che è stato totalmente condiviso. Ma anche le sei cartelle del discorso «mancato» a Ro­ma danno una bella sensazione di ispira­zione a ideali alti e assolutamente condi­visibili. Analogamente a quanto accaduto a Pavia, sono convinto che sarebbe stato un incontro fecondo per tutti anche alla Sapienza.

Qualcuno ha suggerito di invitare nuova­mente il Papa a Pavia. Altre università si stanno muovendo in tal senso. Lei sareb­be favorevole?

Se ci fosse la possibilità, ne sarei ben lieto; ma mi rendo conto che altre università, che magari da secoli aspettano una visita del Papa, possano rivendicare un diritto di prelazione. Anche se mi sembra che un certo moltiplicarsi di inviti possa essere frutto dell’emozione di questi giorni. Io ho vis­suto con viva partecipazione tutte le fasi prima, durante e dopo l’incontro, addirit­tura con commozione certi momenti: è sta­ta un’esperienza indimenticabile. Sarei fe­licissimo di ripeterla.

Il medico: la nostra è una professione per aiutare gli altri

Ricevendo i partecipanti al convegno internazionale “Yes to Life! Prendersi cura del prezioso dono della vita nella fragilità”, organizzato dal Dicastero vaticano per i Laici, la Famiglia e la Vita e dalla Fondazione “Il Cuore in una Goccia”, papa Francesco ha lanciato un messaggio forte in difesa della vita umana e della missione del medico per proteggerla e contro la mentalità abortista. Domenica 26 maggio su Avvenire, accanto alle parole del Papa, il mio articolo dialogando con il ginecologo Bruno Mozzanega, reduce dal convegno di Scienza e Vita, dedicato all’editing genetico

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Bruno Mozzanega

«Come medici le parole del Papa ci gratificano e responsabilizzano. Dobbiamo ricordare la nostra missione, anche se le condizioni sociali non sono sempre favorevoli all’accoglienza della vita, specie se presenta fragilità». A Bruno Mozzanega, già docente di ginecologia all’università di Padova e presidente di Scienza& Vita di Venezia, sono risuonate come un incoraggiamento di alto livello le parole del Papa sul ruolo del medico. Dopo il confronto di ieri mattina tra le associazioni territoriali di Scienza& Vita, un ulteriore stimolo da portare da Roma nelle singole realtà locali. Che «il sospetto della patologia» e ancor più la «certezza della malattia» sconvolgano la coppia in attesa di un figlio, Mozzanega lo ha riscontrato molte volte: «Relazionarsi con la coppia in questi casi non è facile, perché anche senza certezze le diagnosi sempre più precoci (anche solo sul sangue materno) generano ansia senza dare risposte certe. Come ricordato venerdì al convegno sull’editing genetico, solo poche mutazioni del Dna danno una risposta chiara su che cosa avrà il figlio. E nemmeno i medici conoscono il significato di quell’ottantina di microdelezioni del Dna che possono essere riscontrate attraverso i test genetici precoci, e che spesso vengono accompagnate dall’indicazione di un possibile ritardo mentale. Una diagnosi quanto mai vaga, ma che si presta a generare panico». 

Il Papa chiede che i medici abbiano sempre ben chiaro «il valore sacro della vita umana» e puntinoa curare i pazienti e accompagnare le famiglie:«Certamente non tutte le patologie sono correggibili – osserva Mozzanega – ma occorre anche richiamare il valore di ogni individuo. Il Papa ricorda che fin dal grembo materno, i bambini sono “piccoli pazienti”: un dato di fatto incontrovertibile. Occorre anche sostenere le coppie di fronte a una diagnosi di malattia: le famiglie rischiano di rimanere sole con i loro problemi, talvolta anche gli amici spariscono se hai un bambino “scomodo”». 

Ancora più nobile il richiamo ai medici a «essere consapevoli di essere essi stessi un dono» per gli altri: «Sono parole che indicano un profilo molto alto – ammette Mozzanega –. Il Papa ci cuce addosso il vestito giusto: se facciamo questa professione è per gli altri, per aiutare. Sentirsi dono non è sempre facile, in una medicina contrattualistica che vede nel medico un prestatore d’opera». Infine papa Francesco torna a deprecare l’aborto usato come «pratica di “prevenzione”». «Sono perfettamente d’accordo con le sue parole – conclude Mozzanega –. L’accoglienza – di cui si parla tanto e a cui tutti dovremmo essere educati – dovrebbe essere estesa a tutti, abili e disabili, nati e non nati. Invece, dice il Papa, c’è ostilità verso la disabilità. Condivido in pieno il concetto che l’aborto non è un problema religioso, da cattolici, ma è un problema umano, perché si tratta di eliminare una vita umana».

Editoria cattolica, la sfida del cooperare

20180401_000828Ancora reazioni, analisi e proposte alle sollecitazioni di Roberto Righetto, coordinatore della rivista Vita&Pensiero, sullo stato di crisi dell’editoria cattolica in Italia. Dopo una prima serie di osservazioni, intervengono ora nel dibattito altri protagonisti del settore, i cui ruoli piuttosto differenziati consentono un ampio spettro di punti di vista, che sono riportati sul nuovo numero della newsletter di Vita&Pensiero, diffusa alla vigilia di Pasqua, a cura di Simone Biundo.

Il giornalista e scrittore Armando Torno parte da un assunto: «Il mondo cattolico ha smesso di credere in un certo modo di fare cultura». Pur mostrando di apprezzare le edizioni di testi di santi e di classici del pensiero, lamenta «emorragia di idee che ha colpito buona parte dell’editoria cattolica». A riprova invita a entrare nella libreria dietro il Duomo di Milano: «Ditemi che differenza c’è tra quello che oggi trovate e quanto era in mostra vent’anni fa». Il suo pronostico è che «andrà sempre peggio», perché i successi di Vittorio Messori, Georges Bernanos o François Mauriac sono stati resi possibili «grazie all’humus culturale che la Chiesa manteneva vivo e che ora sembra scomparso grazie ai diserbanti che sono sparsi da quei libri di intrattenimento più o meno cattolici, più o meno scritti da alcune personalità, più o meno di successo, ma sicuramente inutili. Alla fede e agli uomini».

Anche Ilario Bartoletti, direttore di Morcelliana e Scuola editrice, come già Guido Dotti, fa riferimento al «progressivo assottigliamento» della base dei lettori per l’editoria cattolica di cultura, che è alla ricerca di un compromesso «tra plusvalore simbolico dei libri e bassa redditività economica di certi titoli che non puoi non pubblicare se vuoi fare quel tipo di editoria». Un’attività che è sempre stata «un fragilissimo equilibrio di bilancio economico e catalogo di qualità». E sempre «spes contra spem. Forse, non restano che le virtù della fortezza e della speranza come abiti dell’editore».

Giuseppe Caffulli, direttore di Terra Santa, una delle editrici più giovani (nata nel 2005),  riferisce che il grosso scoglio iniziale è stato «la crisi della distribuzione libraria in ambito cattolico», che li ha costretti ad affrontare il mare magnum delle librerie laiche di catena. Convinti che in un «mercato sempre più spietato» e con «lettori sempre più esigenti», «la sfida vera sia proprio quella della qualità», grazie alla quale «la nostra presenza in libreria è aumentata». Per «scovare lettori», spazio a fiere, eventi, iniziative culturali, convegni, conferenze, serate in parrocchia e nei circoli culturali, o anche il Festival francescano che permette di “sfruttare” il carisma dell’editore, che è espressione dei Frati minori della Custodia francescana di Terra Santa.

Secondo il consigliere delegato del Consorzio editoria cattolica, Giorgio Raccis, la crisi del libro come consumo culturale ha radici lontane nel tempo, ma per l’editoria cattolica «il punto di svolta è la caduta del Muro e il trionfo dell’ideologia della Fine della storia». «Se c’è stata un’età dell’oro per l’editoria cattolica – aggiunge -, questa è stata quella del fecondo dibattito ecclesiale che ha preceduto e accompagnato il concilio Vaticano II e la sua ricezione».  Anche la recente «stagione primaverile» rappresentata da Francesco, «stenta a produrre frutti editoriali che vadano al di là dell’inflazione produttiva, ma ripetitiva ed esegetica, delle parole del Papa; si rompono gli steccati, ma nei nuovi spazi si cammina in modo incerto e prudente». Ma il difficile sono le terapie. Riconosciuto – con Righetto – che non ci salveranno solo i manager, Raccis sottolinea il ruolo delle redazioni: «Oggi non sono più il luogo dove si forma, ragiona, ricerca e progetta un intellettuale collettivo; sempre più spesso i singoli hanno l’autonomia delle decisioni solitarie a cui manca la ricchezza del confronto intellettuale/culturale con l’altro».

Marco Beck, scrittore e consulente editoriale, alle cause di crisi già additate ne aggiunge un’altra: «La rigida, dogmatica attribuzione di quasi ogni compito dirigenziale a esponenti del clero e, di conseguenza, l’inesistente o insufficiente delega di responsabilità  affidata a specialisti laici». Rievocando la sua esperienza alla San Paolo «come responsabile di un ristrutturato settore letterario», Beck ricorda di aver varato – con la consulenza di Giuliano Vigini e Ferruccio Parazzoli – alcune collane (“Pinnacoli”, “Vele”) che «aprivano il mondo angusto del cattolicesimo alle nuove correnti, ai nuovi venti, ai nuovi gusti di un pubblico non più soltanto di stretta osservanza ecclesiale», di aver rilanciato “Dimensioni dello spirito”, oltre ad aver proposto strenne di racconti natalizi scritti da scrittori di alto profilo. Un lavoro che ebbe un «epilogo amaro»: la chiusura del settore letterario dell’editrice per la grave crisi aziendale del 2003-2004. Un’esperienza che però, suggerisce Beck, «potrebbe essere riesumata come punto di riferimento, certo da aggiornare e ridefinire, per una ripartenza – con nuove energie e con un ricambio di risorse umane che dia spazio a giovani talenti – di quella macchina che troppi editori cattolici hanno lasciato arrugginire». Provare a riportarla alla luce «per restituire fiducia a un mondo frastornato, impaurito, regressivo».

Infine giunge l’opinione di Giuliano Vigini, esperto di editoria e in parte causa – con il suo recente Storia dell’editoria cattolica in Italia – dell’articolo di Righetto e del successivo dibattito. Oltre a indicare i problemi imprenditoriali, peraltro importanti (difficoltà finanziarie degli istituti religiosi proprietari delle case editrici, direzione delle stesse affidata in gran parte a religiosi e religiose, limitatezza del canale di vendita), Vigini tenta una risposta sui problemi ecclesiali e pastorali: non si fa quasi nulla per formare alla lettura e incentivarla con opportune iniziative nelle singole diocesi e parrocchie. E la lettura, già bassa, rimane confinata a un ambito devozionale.

Un dibattito che si è avviato – non certo concluso – e che offre riflessioni stimolanti. Di positivo mi pare di poter cogliere soprattutto una certa disponibilità ad aiutarsi, a cercare di “fare sistema”, a non cercare solo la personale sopravvivenza. Ma credo anche che, a parte le difficoltà imprenditoriali innegabili, figlie della crisi economica e della società secolarizzata, Righetto chiedesse all’editoria cattolica – con un auspicio rivolto anche alla Chiesa – soprattutto uno scatto di fantasia e di coraggio nelle scelte dei testi da pubblicare, o anche da ripubblicare: testi ormai introvabili perché fuori catalogo o autori già di successo all’estero ma di cui non si è colta l’occasione di tradurli. Anche se – ovviamente – nessuna strategia da sola può produrre i grandi libri: per quelli ci vogliono i Vittorio Messori o gli Eugenio Corti, per restare agli esempi di best seller citati da Righetto.

 

Editoria cattolica, confronto per ripartire

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Milano, Tempo di Libri 2018

Ha mosso le acque il sasso gettato nello stagno da Roberto Righetto, coordinatore della rivista Vita&Pensiero, nell’articolo in cui lamentava lo stato di difficoltà che vive l’editoria cattolica in Italia. La newsletter di Vita&Pensiero ha pubblicato – a cura di Simone Biundo – le prime risposte degli addetti ai lavori. Con toni che vanno dal conciliante al risentito, sei responsabili di case editrici cattoliche dicono la loro sulla «mancanza di coraggio» e di «uomini nuovi» indicate da Righetto tra le cause dello stallo, soprattutto per quanto riguarda la narrativa.

Due osservazioni preliminari avanza Guido Dotti, amministratore delegato delle Edizioni Qiqajon: primo, narrativa e saggistica sono «settori molto diversi»; secondo, l’invecchiamento della popolazione ha portato una drastica riduzione dei lettori «forti»: cattolici praticanti, soprattutto i giovani, e preti, religiosi e religiose. Tralasciando autori di altre generazioni, Dotti ritiene che non sia agevole la ricerca e la valorizzazione di forze giovani e preparate, e che il dibattito ecclesiale che ha accompagnaato il Vaticano II si sia spento. Infine constata con amarezza l’inefficacia del Progetto culturale della Cei (Conferenza episcopale italiana), che non è riuscito a «ricollocare il Vangelo al cuore dell’annuncio cristiano».

Il direttore dell’Editrice missionaria italiana, Lorenzo Fazzini, plaude all’articolo di Righetto e suggerisce di evitare lo scaricabarile tra editori, librai, distributori e lettori, puntando il dito sulla mancanza di dialogo e iniziative comuni tra editori e incaricati dell’azione formativa nel mondo cattolico. Come rimedio, suggerisce proprio quello di attuare sinergie tra librai, associazioni, parrocchie, gruppi culturali: «Esempi virtuosi ci sono, in tal senso. Mettiamoli a sistema». Quello che conta è la fisicità dell’incontro, a patto – ovviamente – di pubblicare buoni libri.

Don Simone Bruno, direttore di San Paolo, ringrazia per il dibattito e mette a disposizione la propria sede per un incontro che riunisca «intorno a un tavolo gli editori cattolici e chi critica il loro operato, per discutere con serenità e cognizione di causa».

Alberto Dal Maso, caporedattore di Queriniana, condivide la necessità di un «coraggioso ripensamento a trecentosessanta gradi» dell’editoria cattolica» e chiede di non limitarsi a biasimare alcuni fenomeni, quali globalizzazione e secolarizzazione. Inadeguata è anche una risposta alle sfide odierne «che punti esclusivamente sugli aspetti tecnico-organizzativi e strategico-commerciali dell’editoria religiosa». Chiede piuttosto di puntare sulla qualità: e visti i diversi criteri per valutarla, suggerisce di avviare una «riflessione fondante» con «una buona dose di discernimento e di autocritica», e con «il contributo di tutti».

«Insofferente alle etichette confessionali» si dichiara invece Cesare Cavalleri, direttore delle Edizioni Ares, che ironizza sul fatto che «essere cattolici non garantisce la qualità dei libri» e ricorda che gli ultimi pontefici hanno affidato le loro opere a editori laici. La vera distinzione è tra «editori professionalmente seri» ed «editori pasticcioni». «Saranno “cattolici” i libri che hanno un contenuto di verità» conclude Cavalleri, e «cattolici gli editori che li pubblicano».

Infine Roberto Cicala, editore di Interlinea, ritiene «sacrosanto e necessario» il dibattito sollevato da Righetto e riparte dal’invito della Gaudium et spes: «Scrutare i segni dei tempi e interpretarli», che giudica spesso inatteso perché il problema sta «nell’impegno della Chiesa nella cultura e nella formazione permanente». E «più che coraggio spesso si avverte una mancanza di progetto», più che di «uomini nuovi» «format nuovi … e sinergie sostenute dalla base e dai vertici». Quindi se ci vuole coraggio, deve essere accompagnato da «progetti condivisi».

È auspicabile che altre risposte e osservazioni seguano, innescando – si spera – un dibattito virtuoso e, soprattutto, fruttifero.

«Noi infermieri, il volto umano della sanità»

Concluso ieri a Roma il congresso della neonata Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche, ecco un’intervista alla presidente Barbara Mangiacavalli che parla anche dell’udienza con papa Francesco di sabato 3 marzo. Il mio articolo oggi su Avvenire nelle pagine della sezione è vita

20180228_115106Gli infermieri sono «il volto umano della sanità», ma l’appropriatezza e la competenza necessarie al letto del paziente richiedono alta professionalità. Servono maggiori investimenti nelle cure sul territorio, più adatte ad affrontare la cronicità di una popolazione che invecchia, magari attraverso la figura dell’infermiere di famiglia. Temi emersi al primo congresso nazionale della neonata Fnopi (Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche) che si è chiuso ieri a Roma, e che era stato anticipato da un’udienza con papa Francesco: «L’avevamo chiesta fin da novembre. È stato un momento molto sentito, ha colto nel profondo le caratteristiche della nostra professione e si è fatto quasi nostro “sindacalista”» commenta Barbara Mangiacavalli, presidente Fnopi, che lavora quale direttore sociosanitario alla Azienda sociosanitaria territoriale (Asst) Bergamo Ovest.

Perché la Federazione dei Collegi Ipasvi (infermieri professionali, assistenti sanitari, vigilatrici d’infanzia) è diventata Fnopi?

Ordini e Collegi sono nati a metà degli anni Quaranta, e la distinzione dipendeva dal titolo di studio: Ordini per i laureati, Collegi per i diplomati. Ma dagli anni Novanta, prima con un doppio canale, poi dal ’94-’95 in modo esclusivo, la formazione infermieristica avviene in università. La modifica era quindi necessaria da tempo. Ora la “legge Lorenzin” (3/2018) ha rinforzato il compito degli Ordini professionali di tutelare del cittadino, certificando le competenze dell’infermiere. Gli Ordini inoltre sono passati da enti ausiliari a enti sussidiari dello Stato, ampliando le competenze soprattutto sulla vigilanza contro l’abusivismo e sui procedimenti disciplinari per le violazioni al Codice deontologico.

Perché avete chiesto l’udienza con il Papa?

Abbiamo sempre avuto il desiderio di incontrare papa Francesco perché negli anni ha fatto molti accenni alla nostra professione. Avevamo già partecipato a un’udienza del mercoledì in piazza San Pietro, ma abbiamo osato chiedere un’udienza privata. Quando ci è stata offerta la data del 3 marzo, è parso una specie di prologo, in continuità ideale e simbolica, al nostro congresso, che era già fissato dal 5 al 7 marzo.

Il Papa vi ha definiti “esperti in umanità”: che effetto vi hanno fatto le sue parole?

Il Papa è riuscito a muovere le corde più profonde dei 6.500 infermieri presenti. Ha parlato quasi da infermiere, si è dimostrato un profondo conoscitore della nostra professione, dei nostri punti di forza e delle nostre debolezza. Ci ha esortato a custodire i primi e a lavorare sulle seconde. Idealmente è diventato un po’ anche il nostro “sindacalista”, ha rappresentato le nostre istanze in maniera chiara e puntuale.

Francesco ha sottolineato la vostra “tenerezza” nel “toccare” i malati. Si può dire che l’ infermiere rappresenta il volto umano della medicina?

Gli infermieri sono il volto umano della sanità, anche perché hanno questo privilegio di toccare le persone. Il tocco assistenziale è un gesto professionale, accompagnato da competenze e appropriatezza clinica, lavoriamo con le persone e con il loro corpo, abbiamo questo privilegio più di altri professionisti della sanità perché siamo presenti sulle 24 ore.

Che cosa è l’infermiere di famiglia?

Una figura su cui stiamo pensando da tempo. Al congresso abbiamo avuto modo di confrontarci con il ministero della Salute, con l’ Agenzia nazionale per i servizi sanitari, con l’ Università: la necessità è riconosciuta da tutti. Stiamo lavorando sulla creazione di reti territoriali, ma la strada è ancora lunga. I dati epidemiologici dicono che il nostro Paese invecchia, le malattie croniche toccano un terzo della popolazione: alcune sono ben controllate, altre si sommano a produrre fragilità e non autosufficienza. Abbiamo bisogno di disegnare un modello di sanità e di assistenza che superi la gestione solo ospedaliera, e punti sul territorio: e il ruolo degli infermieri può essere solo rinforzato e valorizzato.

È solo una questione di risparmio?

Il Servizio sanitario non è solo un costo, ma anche una risorsa. Deospedalizzare e garantire un’assistenza territoriale efficace risponde a criteri di appropriatezza economica, oltre che organizzativa e clinico-assistenziale. L’ospedale deve essere reso più efficace ed efficiente sulle patologie acute. Ma sulla cronicità occorrono modelli organizzativi diversi, più economici ma anche più appropriati, come i cosiddetti reparti di cure intermedie.

Il direttore generale di Aifa, Mario Melazzini, ieri ha “aperto” alla prescrizione da parte degli infermieri, ma i medici hanno subito contestato l’idea. Che cosa ne pensa?

Forse è stato un po’ frainteso. Melazzini si è dimostrato disponibile a iniziare una riflessione e ha ben specificato che bisogna ridisegnare il quadro normativo, non è un percorso che si realizza domani. Si tratterebbe di presidi, ausili, alimentazioni speciali, medicazioni. È importante ragionarne, conciliando esigenze e aspettative di tutti.

Tempo di Libri, «l’editoria cattolica si rinnovi con coraggio»

20180308_095901Ieri sera, con una inaugurazione dedicata agli incipit, è cominciata a Milano la seconda edizione di Tempo di Libri, la fiera organizzata dall’Associazione italiana editori. Più che le diverse presentazioni della kermesse, ho trovato interessante l’articolo sull’Osservatore Romano del 6 marzo, che pubblica una riflessione di Roberto Righetto apparsa sulla newsletter di Vita&Pensiero. Partendo dalla constatazione dello stato di sofferenza per non dire stallo dell’editoria cattolica italiana, l’autore si domanda: «Dove sono finiti progettualità, visione e coraggio?».

Condividendo preoccupazioni espresse da Giuliano Vigini nel suo recente volume sulla storia dell’editoria cattolica in Italia, Righetto prova a indagare le cause del fenomeno, a grande distanza ormai dagli ultimi “best seller di Dio”, Ipotesi su Gesù di Vittorio Messori e Il cavallo rosso di Eugenio Corti: il contesto culturale, il calo dei lettori, l’emorragia delle parrocchie, ma anche «una pastorale che preferisce puntare sui nuovi media illudendosi di catturare di più i giovani ma finendo per snobbare l’importanza della cultura religiosa per la formazione del credente». E suggerisce di evitare alibi legati alle trasformazioni tecnologiche e alla secolarizzazione, sottolineando piuttosto verso «un’incapacità gigantesca di far fronte al cambiamento, da parte degli editori cattolici, spesso a causa di presunzione, di autoreferenzialità». Righetto pone una lunga serie di quesiti su fatti che testimoniano una certa «inerzia» da parte della Unione editori e librai cattolici italiani (Uelci): da testi importanti non più ripubblicati, alla riduzione delle librerie cattoliche, fino alla mancata valorizzazione di autori che offrono o interpellano valori cristiani. E conclude: «A volte credo che il problema sia la mancanza di coraggio. E di uomini nuovi». Sottolineando opportunamente: «Non ci salveranno solo i manager».

Finita la pars destruens, non manca però qualche aspetto positivo: tralasciando il versante letterario infatti, «resta insostituibile il ruolo di alcune case editrici cattoliche in campo teologico e filosofico» o nella saggistica religiosa. Se «segni di vitalità permangono», Righetto conclude che «la Chiesa italiana dovrebbe porsi davanti la sfida di rianimare la cultura religiosa del nostro paese anche attraverso lo strumento del libro, senza paura e puntando su forze giovani e preparate».

Da Omero a San Francesco in laguna

iliadeOccasioni per ricreare un po’ lo spirito – tra una proiezione elettorale e l’esito di un ballottaggio – in due articoli pubblicati oggi sui quotidiani. Cesare Sinatti sul Fatto quotidiano invita i giovani a leggere Omero, fra Enzo Maggioni e Giorgio Fornoni sull’Eco di Bergamo ci illustrano la bellezza di San Francesco del Deserto, isola della laguna veneta che ospita una comunità di frati francescani.

Il giovane studioso Sinatti cerca di spiegare «Perché leggere Omero a vent’anni può essere davvero meraviglioso». Partendo dal presupposto (tutt’altro che condivisibile) secondo cui a un ragazzo oggi non dovrebbero interessare testi con più di 2.500 anni, si osserva che tali opere «sono labirinti magnifici in cui vale la pena di perdersi e che a ogni svolta d’angolo regalano rivelazioni». Che sarebbe già una buona ragione per cominciare a leggere. Tuttavia «senza cimentarsi in studi linguistici e confrontarci con esperti», a spingere nella lettura «c’è prima di tutto un rapporto personale». E spiega che si legge «alla ricerca di qualcos’altro, di qualcosa che forse non è neanche necessariamente all’interno del libro e che emerge piuttosto dalla nostra interazione con esso». «La letteratura parla con noi, di noi, attraverso il tempo»: e provoca le nostre reazioni, come accade a Odisseo, che pianse quando sentì raccontare da Demodoco la presa di Troia da parte dei Greci (Odissea, VIII, 521). Aggiunge Sinatti che non importa la lontananza nel tempo«finché l’esperienza umana conserva nelle parole la stessa vividezza che ha nella realtà». Ricordo che lo scrittore Eugenio Corti (autore del Cavallo Rosso) sosteneva di essersi «innamorato» di Omero in prima media, quando prese in mano il testo ancora prima di iniziare le lezioni. Si rese conto che Omero «trasformava in bellezza tutto quello che scriveva» e Corti decise di imitarlo e diventare scrittore. Se non può essere «indotta» l’esperienza di amare un libro, Sinatti comunque consiglia di proporre ai ragazzi la scommessa: «Mettere in gioco qualche ora di vita in cambio di un’epifania possibile». A vent’anni «vale la pena tentare: un’epifania di Omero può essere un regalo prezioso». Personalmente posso confermare che leggendo l’Iliade ad alta voce a coetanei in età giovanile, riscontrai più di una impressione positiva tra ragazzi che non avevano mai saputo nulla di Omero, ma non avevano nemmeno prevenzioni.

Un’esperienza di meditazione è quella che propone l’itinerario sull’isola di San Francesco nel Deserto. L’origine della presenza francescana viene fatta risalire al 1220 quando Francesco, di ritorno dal viaggio in Terra Santa per cercare di convertire il sultano d’Egitto, trovò riposo in questo angolo di laguna. L’isola fu poi donata dal nobile veneziano Jacopo Mechiel ai frati nel 1233 e da allora – con piccole interruzioni – è custodita dalla presenza francescana. I cinque frati ora residenti conducono la vita del loro Ordine, ma offrono anche ospitalità a chi cerca momenti di raccoglimento e preghiera: «Oltre 25 mila persone, provenienti da tutto il mondo – scrivono Maggioni e Fornoni – visitano ogni anno questo luogo di silenzio e di pace». In media ogni fine settimana una quindicina di persone si affianca alla vita dei frati e ne segue i ritmi, con i pasti in refettorio e due momenti di riflessione al giorno. Per i soggiorni sono a disposizione trenta celle. Occorre ovviamente contattare il convento: tutte le informazioni sul sito www.sanfrancesconeldeserto.it.

La ricetta di don Mazzolari per i “lontani”

800px-Bozzolo-Chiesa_S._PietroLa pastorale verso i “lontani” di don Primo Mazzolari, il martirio dei filosofi e il mestiere di giornalista tra le proposte di Avvenire oggi sulle pagine di Agorà. Del parroco di Bozzolo – che sarà commemorato domani con la presenza del cardinale Gualtiero Bassetti – viene presentata una lettera inedita del 1938 al suo vescovo Giovanni Cazzani; lo statunitense Costica Bradatan indaga gli esempi di filosofi che giunsero a perdere la vita per le proprie idee; l’inviato della Stampa Domenico Quirico dà materia per riflettere sui compiti del cronista.

In risposta alla richiesta del vescovo di avere chiarimenti su «come accostare o chiamare per parlarci ed acquistarci la grande massa dei lavoratori e delle lavoratrici», don Mazzolari confessa («Vi presento i lontani») di non avere la “ricetta” sempre valida, ma spiega che la strada «forse non è quella usata dai più». E aggiunge: «La “strada dei lontani” nessuno la può tracciare toponomasticamente, poiché, dopo aver visto o meglio intuito, il camminare è questione d’anima, di temperamento, di calore, di comprensione, d’audacia». «I “lontani” – aggiunge don Mazzolari – vogliono essere capiti: non importa se noi non siamo in grado di aiutarli. Non lo pretendono neanche: pretendono soltanto di vedere in chiarezza il volto di una religione, che in fondo stimano ancora e dalla quale si sono staccati per delusione d’innamorati». Compito difficile il recupero, specie se non si conosce bene il punto di partenza. Scrive infatti ancora don Mazzolari: «Chi sa di preciso dov’è “religiosamente” il nostro popolo? Da quali lontananze bisogna farlo ritornare? Chi ha misurato la devastazione di certi pregiudizi politici derivanti da una confusione che non torna a bene e a onore di nessuno? La fatica del vivere quotidiano? Le ingiustizie spudorate e acclamate?». Domande che mantengono una loro validità ancora oggi.

«Morire per le idee» è il testo di Bradatan, presentato oggi a Tempo di Libri, la fiera dell’editoria in corso a Rho (Milano). Nell’intervista in anteprima ad Alessandro Zaccuri «Filosofia da vivere (e da morire)», Bradatan spiega che ha «provato a dimostrare come per lungo tempo la filosofia occidentale abbia concepito se stessa come arte del vivere». Citando Socrate, Boezio, Montaigne, Schopenhauer e Nieztsche, Bratadan osserva che «In passato l’importanza e lo stesso significato di una teoria o di un’opera filosofica erano commisurati ai cambiamenti che ne derivavano per la vita delle persone», i filosofi stessi e i loro ascoltatori: a contare era «il metodo di vita, anzi: la pratica». Al punto che si poteva «morire per le idee»: anche se i casi di martirio di un filosofo sono poco numerosi, ammette Bradatan, ma presentano «una casistica molto affascinante. Tommaso Moro, il cui martirio fu nel contempo filosofico e cristiano, è un’eccezione pressoché unica. I filosofi che scelgono di morire, di norma, non credono in un Dio pronto ad accoglierli. E questo, dal mio punto di vista, è davvero straordinario: sono persone che affrontano la prova, perdono tutto e non nutrono acuna speranza in una ricompensa celeste. Offrono la propria vita senza ottenere nulla in cambio. Muoiono per restare coerenti con le idee che professano. Muoiono perché non possono fare altrimenti. È un gesto che ha in sé una bellezza tragica e disperata, alla quale bisognerebbe prestare maggior attenzione. Se si osservano queste scelte più da vicino, ci si accorge che i filosofi non muoiono mai “per niente”. Qualcosa lo ottengono sempre, ma si tratta di un’immortalità molto diversa da quella promessa dalla religione». Bradatan distingue infatti il caso di Gesù: «è il Figlio di Dio e considerare la sua vita e la sua morte nella sola prospettiva del martirio comporterebbe una vistosa svalutazione. Morì di una morte brutale e umiliante, non si discute, e la sua Passione ha fatto da modello per i martiri cristiani. Ma Gesù, in ogni caso, è molto più di un martire».

Infine l’interessante segnalazione – a cura di Diego Motta – del pamphlet di Domenico Quirico, Il tuffo nel pozzo (Vita e Pensiero), anche questo presentato oggi a Tempo di Libri. Il giornalista, divenuto famoso presso il grande pubblico per il sequestro che subì in Siria quattro anni fa ma con una lunga e prestigiosa carriera alle spalle, può a buon diritto domandarsi, come recita il sottotitolo: «È ancora possibile fare del buon giornalismo?». Quirico mette a nudo vizi vecchi e nuovi dei colleghi più o meno famosi, ma soprattutto contesta il «giornalismo per sentito dire». E sottolinea che non il rapporto con il lettore (pur importante) è a fondamento della professione, ma «il rapporto chiave è quello con il soggetto del racconto». Il giornalista deve «testimoniare ciò che vede», sintetizza Motta: «Uscire là fuori, per vedere cosa succede senza lenti deformanti, è un privilegio che andrebbe custodito e coltivato gelosamente: non per propria vanagloria, ma perché solo così si può salvare la dignità di un lavoro». In tempi di (cosiddetta) post-verità, rimanere a contatto con il reale per un giornalista resta indispensabile.

Tempo di libri, tempo di polemiche

Tempo di letteratura oggi su Avvenire nelle pagine di «Agorà sette», l’inserto culturale settimanale. Priorità alla Fiera voluta dall’Associazione italiana editori (Aie) che a Rho ha inaugurato mercoledì il nuovo appuntamento sul lobro, ma anche il trentesimo anniversario della morte di Carlo Cassola e una rievocazione di Gianni Brera, giornalista sportivo e scrittore.

Da «Tempo di libri» escono i dati sull’editoria religiosa (del mercato librario in generale Avvenire aveva scritto ieri: «Lettori forti alla riscossa? Ma il mercato cala»). L’inviato Alessandro Zaccuri parla di «Effetto Francesco»: in effetti nel 2016 «il titolo più venduto nelle librerie religiose italiane è stato Il nome di Dio è misericordia, l’intervista di Andrea Tornielli a papa Francesco pubblicata da Piemme in occasione del Giubileo». Ma il boom (prevedibile) di un libro sul Papa quanto ha trainato il settore se, fatto 100 quel testo, il secondo tocca quota 20? Il settimo Osservatorio sull’editoria religiosa realizzato in collaborazione con l’Ufficio studi dell’Aie indica che «nell’arco di pochi anni nel nostro Paese i lettori di libri religiosi sono più che raddoppiati (erano due milioni e 700mila nel 2010, oggi arrivano a cinque milioni e 700mila), ma nel contempo cresce anche la presenza dell’editoria laica nel settore (una quota del 26,6% rispetto al 24,1% del 2014). Si registra però anche una flessione nel settore tra 2015 e 2016 (-2,9%) e soprattutto degli editori cattolici (-7,9%) «Per avere elementi incoraggianti – osserva Zaccuri – si deve tornare al profilo dei lettori di testi religiosi: più giovani rispetto al passato, più colti, non necessariamente credenti. Definizione, questa, nella quale si riconosce ormai il 38% di quanti, nel corso di un anno, leggono almeno un libro di argomento religioso». Le strategie editoriali per crescere intercettando l’“effetto Francesco” (ma non solo) sono poi illustrate dai responsabili editoriali di Città Nuova, San Paolo, Itaca Libri Effatà, edizioni Terra Santa, Emi, Libreria Editrice Vaticana, Claudiana. Ancora su temi di letteratura religiosa, Avvenire ha pubblicato mercoledì 19 un’anticipazione del saggio della filosofa francese Catherine Chalier «Libri sacri. Verità e interpretazione» che nel suo Leggere la Torà (Giuntina) propone un ascolto dei testi rivelati privo di condizionamenti ideologici.

Sulla stessa prima pagina di oggi di «Agorà sette», ancora Zaccuri deve tornare sul romanzo di Walter Siti (già affrontato sabato scorso) perché la polemica è salita di tono. «Su don Milani solo insinuazioni odiose» è il titolo dell’articolo in cui si controbatte alle allusioni sempre meno velate dell’autore del romanzo Bruciare tutto (che narra di un prete pedofilo) sulla «fantomatica “attrazione fisica” per i ragazzi» che avrebbe avuto il prete di Barbiana. Esaminando senza preconcetti le lettere di don Milani citate da Siti, Zaccuri dimostra che l’attenzione verso gli ultimi e il loro contesto povero suscitavano – talora con un linguaggio vivace – la voglia di ribellarsi piuttosto che quella, appunto odiosa, di approfittarne. Nella questione interviene anche la Fondazione Don Milani si è detta preoccupata «che siano fatte operazioni di verità storica soprattutto di fronte a personaggi che sono giganti del pensiero. Quella di Siti è un falso ideologico – prosegue il testo citato da Avvenire – anche mal fatto e senza approfondimento. Don Milani era innamorato di una classe intera, quella degli ultimi e diseredati. A loro ha dedicato il suo apostolato di prete vero e soprattutto attraverso la scuola che definiva ottavo sacramento. Gradiremmo che una dedica del genere fosse ritirata e che si parlasse del don Milani vero e dei suoi valori, non di cronaca becera d’ora in poi». «In caso contrario, a quanto pare – scrive Zaccuri -, la Fondazione valuterà la possibilità di un’azione legale».

Nella rubrica «Benché giovani», Goffredo Fofi rievoca Carlo Cassola, attraverso il ricordo di quando lo incontrò a Parigi negli anni Sessanta. Dell’autore del Taglio del bosco, Fofi richiama la battaglia pacifista e l’atto di accusa contro le ipocrisie e gli opportunismi degli intellettuali italiani di allora. Infine cita le lettere ad Angelo Gaccione, raccolte in Cassola e il disarmo. La letteratura non basta: «Le lettere a Gaccione ci rendono Cassola più vicino, da amare non solo per la limpida forza del narratore di vite comuni, anche per le sue convinzioni politiche in difesa, a ben vedere, proprio di quelle stesse vite comuni, che sono poi anche le nostre».

Con «Brera, Letteratura in campo», vengono pubblicati due articoli (di Andrea Maletti e Adalberto Scemma) tratte dai Quaderni dell’Arcimatto, giunti al quarto volume (Edizioni Fuori Onda). Maletti rievoca l’ultima intervista concessagli dal giornalista il 17 dicembre 1992, due giorni prima di morire in un incidente d’auto; Scemma le «sfide» breriane della stagione di Contro, settimanale diretto da Cesare Lanza che alimentò polemiche letterarie con alcuni autori tra i più noti, tra cui Umberto Eco, Giovanni Arpino, Gino Palumbo.