Malattie rare, non c’è tempo da perdere

Tra le priorità che attendono il ministero della Salute, ci sono “atti dovuti” per il completamento di norme già approvate. Tra queste, i decreti attuativi della legge sulle malattie rare: l’ultimo lascito del precedente governo è la nomina del Comitato nazionale, che ora dovrà cominciare i suoi lavori. Su questo tema, gli auspici delle associazioni nel mio articolo, pubblicato su Avvenire lo scorso 20 ottobre, nelle pagine della sezione è vita.

Sul rettilineo di arrivo della scorsa legislatura, il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, ha firmato il decreto che istituisce il Comitato nazionale per le malattie rare (CoNaMR), un provvedimento tra quelli previsti dalla legge 175/2021 e atteso dalle associazioni dei pazienti e da tutto il mondo scientifico e istituzionale che lavora per trovare soluzioni terapeutiche e dare sostegni adeguati ai malati rari. «Ci auguriamo – esordisce Annalisa Scopinaro, presidente di Uniamo, la Federazione italiana malattie rare – che, non appena formato il nuovo governo, il Comitato possa procedere speditamente, perché il lavoro che lo attende è tanto». «Finalmente – commenta Ilaria Ciancaleoni Bartoli, presidente dell’Osservatorio malattie rare (Omar) – si potranno portare avanti i tanti capitoli ancora aperti. Ci auguriamo che nel nuovo governo venga data presto a un sottosegretario del ministero della Salute la delega alle malattie rare, auspicabilmente una persona che abbia la volontà e la competenza di occuparsi di questo tema».

Secondo quanto previsto dalla legge 175, il Comitato avrà «funzioni di indirizzo e coordinamento, definendo le linee strategiche delle politiche nazionali e regionali in materia di malattie rare». Sarà composto da 27 persone: innanzi tutto il responsabile del Centro nazionale malattie rare dell’Istituto superiore di sanità (Iss), da nominare a breve dopo la lunga direzione di Domenica Taruscio, e il coordinatore interregionale per le malattie rare della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome (attualmente Paola Facchin). Poi sei esponenti delle direzioni del ministero della Salute, due del ministero del Lavoro e dell’Università, uno della Conferenza delle Regioni, uno dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), uno dell’Agenzia italiana per i servizi sanitari regionali (Agenas), uno dell’Inps, due della Consulta delle professioni sanitarie, quattro di società scientifiche (Sigu, Simg, Fiarped, Fism), uno della Rete di riferimento europea delle malattie rare (il network degli oltre 300 centri clinici italiani dedicati a una patologia rara, presenti in 63 ospedali), uno della conferenza dei rettori (Crui), uno di Fondazione Telethon, due delle associazioni dei pazienti (Uniamo per l’Italia, Eurordis per l’Europa), uno della testata giornalistica Omar. Poiché a coordinare i lavori – e a convocare le sedute del Comitato – sarà il capo della segreteria tecnica del ministro della Salute, è evidente che ormai si attende la formazione del nuovo governo per dare vita al Comitato stesso. E tutti gli enti coinvolti dovranno nominare i loro rappresentanti. «Ci auguriamo che lo facciano presto – puntualizza Ilaria Ciancaleoni Bartoli – perché è importante essere pronti subito. C’è tanto lavoro da fare». Un punto su cui concorda Annalisa Scopinaro: «Far parte del comitato non è un titolo onorifico. C’è molto da fare oltre alle riunioni, ci sono documenti da studiare e da produrre per rendere pienamente operativa la legge 175 sulle malattie rare». Anche se una parte importante è già delineata: «Il nuovo Piano nazionale delle malattie rare è ormai pronto – continua Scopinaro – e sostituisce l’ultimo che copriva gli anni 2013-2016. È stato preparato dal Tavolo tecnico – istituito dal ministro Roberto Speranza –, che ha concluso i suoi lavori nel maggio scorso, dopo tre anni di confronti e oltre 50 riunioni. Il Piano è già stato approvato dal Tavolo interregionale per le malattie rare della Conferenza delle Regioni».

«Tra i primi compiti del nuovo governo – ricorda Ilaria Ciancaleoni Bartoli – c’è quello di completare i decreti attuativi previsti dalla legge 175: in particolare quello che aggiorna l’elenco delle malattie rare, quello che istituisce il fondo per le famiglie, che andrà rifinanziato, e quello che stabilisce i crediti di imposta per la ricerca sulle malattie rare». Le questioni che più stanno a cuore alle associazioni dei pazienti sono molto pratiche: «Abbiamo bisogno – sottolinea Scopinaro – che venga garantito, come prevede la legge, che i farmaci approvati dall’Aifa a livello nazionale entrino nei prontuari farmaceutici regionali in tempi uniformi, evitando quindi differenze tra Regioni che si traducano in disuguaglianze per i pazienti a seconda della loro residenza». Quel che pare importante, sottolinea Scopinaro, è che «tutti coloro che faranno parte del Comitato abbiano la volontà di avviare un circolo virtuoso, creare un affiatamento. A questo scopo, visto che le riunioni sono previste in videoconferenza, mi auguro che almeno la prima, per conoscersi, si svolga in presenza». «Sarebbe anche auspicabile che venissero coinvolte al ministero anche persone che hanno mostrato grande sensibilità per le malattie rare – aggiunge Ilaria Ciancaleoni Bartoli –. Penso per esempio alla senatrice Paola Binetti, che nella scorsa legislatura si è spesa con competenza e passione su questo tema».

Un altro aspetto cruciale, che trascende (ma comprende) il mondo delle malattie rare, è quello dell’aggiornamento dei Livelli essenziali di assistenza (Lea). «Sono tuttora bloccati in Conferenza Stato-Regioni – lamenta Ilaria Ciancaleoni Bartoli – ma sono importantissimi per aggiornare e inserire trattamenti che non sono previsti nei Lea vigenti. Tra questi anche gli screening neonatali, che finora sono garantiti per poche malattie, ma che esistono per altre patologie come la Sma: e la diagnosi precoce può garantire un trattamento efficace che è ora disponibile». «L’aggiornamento dei Lea – conclude Scopinaro – diventa anche una questione di giustizia. Finora alcune novità terapeutiche o presidi importanti sono stati garantiti extra Lea solo da alcune Regioni, non coinvolte dai piani di rientro. E questo crea disuguaglianze».

«Vaccini anti Covid-19, servono programmi di sorveglianza attiva»

A febbraio l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha presentato il Rapporto annuale sulla sicurezza dei vaccini contro il Covid-19: 27/12/2020-26/12/2021. «Un’occasione persa», secondo Maurizio Bonati, direttore del dipartimento di Salute pubblica dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”, nonché componente del Comitato scientifico per la Sorveglianza Post-marketing dei vaccini Covid-19. E spiega che migliorare le indagini di vaccinovigilanza serve anche a creare «una partecipazione condivisa, razionale e responsabile alle attività di salute pubblica». Alla mia intervista, che è stata pubblicata giovedì 17 marzo su Avvenire, nella sezione è vita, premetto la spiegazione della gestione del Rapporto stesso, comparsa sulla stessa pagina.

Al Rapporto annuale sulla sicurezza dei vaccini Covid 19 non ha contribuito il Comitato scientifico per la sorveglianza dei vaccini (Csv) Covid-19, istituito il 14 dicembre 2020 dall’Aifa «in accordo con il ministero della Salute e il Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19». La motivazione, riferisce Aifa, è che «il Comitato Sorveglianza Vaccini non si è più riunito dopo l’estate perché ha progressivamente esaurito il suo ruolo. È stato molto attivo nel primo semestre nel supportare la Cts (Commissione tecnico-scientifica di Aifa) per alcune decisioni e nella farmacovigilanza ha visto coinvolti individualmente alcuni degli esperti. Inoltre era in corso di nomina il nuovo Nitag (National immunization technical advisory group, Gruppo tecnico consultivo nazionale sulle vaccinazioni, ndr), che ha avuto lunghi tempi per l’insediamento». Il Csv Covid-19 «rimarrà in carica per due anni – scriveva Aifa nel 2020 – e potrà essere rinnovato in base all’evoluzione della pandemia e all’andamento della campagna vaccinale Covid-19». È composto da 14 «esperti indipendenti » (tra cui presidente e direttore generale Aifa), con sette osservatori di istituzioni nazionali e regionali. L’obiettivo: «Coordinare le attività di farmacovigilanza e collaborare al piano vaccinale relativo all’epidemia Covid-19, svolgendo una funzione strategica di supporto scientifico all’Aifa, al ministero della Salute e al Ssn». All’insediamento del Csv il direttore generale dell’Aifa, Nicola Magrini, lo definiva «un punto di riferimento per il Ssn per garantire una sorveglianza attiva sulla sicurezza di tutti i vaccini Covid-19». Il Csv ha contribuito ai primi nove rapporti mensili presentati dal 26 gennaio 2021 al 26 settembre 2021.

«Dal Rapporto annuale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) sui vaccini contro il Covid- 19 si ricava poco, è un po’ un’occasione persa. Conferma i dati attesi secondo quanto emerge dai dossier sui trial effettuati dai produttori per ottenere l’autorizzazione dagli enti regolatori (Food and Drug Administration – Fda, European medicines Agency -Ema). Ma non aggiunge nessuna ricerca di farmacovigilanza attiva, nemmeno per seguire le coorti di pazienti che presentano qualche profilo di rischio».

Maurizio Bonati, direttore del Dipartimento di Salute pubblica dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, e componente del Comitato scientifico per la Sorveglianza Post-marketing dei vaccini Covid-19 (che però non ha lavorato a questo documento), osserva: «Posto che il rapporto rischio-beneficio dei vaccini contro il Covid-19 è ampiamente a favore del beneficio, questo documento, anche per le modalità di comunicazione adottate, contribuisce poco a informare i cittadini, in particolare gli “esitanti”. L’educazione sanitaria della popolazione è il fine principale mancato di questa pandemia».

Che cosa si ricava dal Rapporto annuale di vaccinovigilanza di Aifa?

Il Rapporto conferma quanto riportato in letteratura o da altre Agenzie regolatorie: è importante, ma non sufficiente. L’analisi fatta si basa sulle segnalazioni spontanee dei cittadini (farmacovigilanza passiva). Le segnalazioni sono state tante, più che per altre vaccinazioni, ma attese sia per il tipo di evento avverso segnalato che per le preoccupazioni e i timori che hanno accompagnato la scelta dei vaccini e la campagna vaccinale. Per creare consenso e partecipazione informati non è quindi sufficiente limitarsi a comunicare che non ci sono problemi particolari perché la proporzione di segnalazioni di sintomi è analoga a quella che, durante i trial, emergeva da coloro che avevano ricevuto un placebo e non il vaccino, il cosiddetto “effetto nocebo”. Tutt’altra efficacia e appropriatezza sarebbe accompagnare le valutazioni della sorveglianza passiva con quelle di sorveglianza attiva, una misura con la quale l’operatore di sanità pubblica provvede a contattare quotidianamente un campione di vaccinati per avere notizie sulle condizioni di salute.

Spicca il fatto che, mentre la mortalità per Covid-19 sin dall’inizio della pandemia resta fissa a 80 anni, le segnalazioni di effetti collaterali dei vaccini sono molto più numerose tra le età più giovanili. C’è una spiegazione?

Anche per la variabile età l’analisi delle reazioni avverse dopo la vaccinazione contro il Covid-19 necessita di confronti con le segnalazioni ricevute dopo altre vaccinazioni, sebbene la classe 17-55 anni di cittadini sani è scarsamente rappresentata perché non è target di altre vaccinazioni. Analoghe considerazioni andrebbero fatte per alcune reazioni avverse gravi, come per le pericarditi e le miocarditi segnalate in particolare nei giovani. Le validazioni delle segnalazioni vanno fatte rapidamente e rapportate alla frequenza della malattia insorta prima della campagna vaccinale, così come in cittadini vaccinati e non vaccinati. È un’attività che richiede un sistema preparato ed efficiente che non può essere adeguatamente organizzato in corso di epidemia ma prima. Anche questo serve per un’adesione partecipata, al successo di una campagna vaccinale e ai tempi per raggiungerlo.

È stata fatta una vaccinovigilanza passiva, aspettando le segnalazioni, e non attiva, cercandole. Che cosa comporta?

Quantificare i rischi implica definire quali costi la collettività e il singolo accetta di pagare. Quindi non basta la segnalazione spontanea, soggettiva del sintomo, ma il tipo, la gravità, il costo diretto e indiretto (sanitario ed economico) della reazione avversa che la somministrazione del vaccino ha indotto a breve e a distanza di tempo. Ecco, tutto questo è possibile solo con un monitoraggio sistematico e continuo nel tempo: con una vaccinovigilanza attiva.

Per il futuro, come si dovrebbe proseguire l’attività di vaccinovigilanza per il Covid-19?

In un Paese con un alto grado di analfabetismo sanitario occorre costruire un rapporto di fiducia con un’informazione chiara. Spiegare perché è necessaria una copertura del 95% della popolazione, specie in una condizione di limitate conoscenze, non è facile, ma è controproducente non farlo. Spiegare bene che il vaccino avrebbe protetto dalla malattia grave e forse non dal contagio, che nessun vaccino protegge tutti i vaccinati, che forse sarebbero stati necessari dei richiami: ecco sono tutte iniziative attive in un percorso collettivo di vigilanza, di contrasto alla pandemia. Uno dei problemi di questo virus – che si conosceva solo in parte – è il “long Covid”, problema che si potrà risolvere solo con il tempo e con un’attenta sorveglianza dei guariti, in particolare di quelli che hanno contratto l’infezione in modo grave. Dobbiamo cercare di costruire sempre un rapporto di fiducia nella popolazione, anche in vista di future infezioni e nuovi vaccini, che consenta una partecipazione condivisa, razionale e responsabile alle attività di salute pubblica.

Come mai il Comitato scientifico per la Sorveglianza Post-marketing dei vaccini Covid-19, istituito nel dicembre 2020 per una durata di due anni, non compare in questo Rapporto?

Il nostro Comitato ha chiuso i lavori, di fatto, con il Rapporto mensile di fine settembre, prima che venisse trasformato in trimestrale. Non siamo più consultati da tempo.

«In democrazia occorre accettare le incertezze della scienza, coinvolgendo i cittadini. Anche con il Covid-19»

Una versione ampliata della mia intervista a Mariachiara Tallacchini, docente di Filosofia del diritto all’Università Cattolica di Piacenza, apparsa su Avvenire lo scorso 4 dicembre. In tema di comunicazione della scienza segnalo anche l’articolo di Telmo Pievani, comparso sul mensile Le Scienze di dicembre 2021, ma disponibile anche online.

«Per prendere decisioni che hanno un forte impatto sulla vita delle comunità, insieme al necessario riferimento alle evidenze scientifiche, occorre che il coinvolgimento dei cittadini sia stato preparato in precedenza dal punto di vista delle conoscenze e attraverso la costruzione di rapporti di fiducia. Ciò vale in particolare in una pandemia, dove le molte scienze coinvolte forniscono conoscenze tutt’altro che certe». Mariachiara Tallacchini insegna Filosofia del diritto presso la facoltà di Economia e Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Piacenza, e Scienza, diritto e democrazia al Master in Comunicazione della Scienza della Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste. I suoi principali interessi riguardano la regolazione della scienza, i rapporti tra scienza e diritto e tra scienza e democrazia, in particolare nel settore della biomedicina e delle scienze della vita.

La pandemia ci ha colto di sorpresa a causa delle nostre scarse conoscenze scientifiche?

In realtà, credo che si debba risalire a monte, al fatto che in Italia è mancata e ancora manca una riflessione su ciò che nei Paesi anglosassoni si chiama science policy, vale a dire come la scienza è legittimamente utilizzata nel contesto di decisioni pubbliche in società democratiche fondate sul diritto. Questa mancanza di una cultura sull’uso della scienza per finalità di scelte politiche ha generato alcuni errori importanti. Non solo i cittadini non sono stati aiutati a prendere atto delle incertezze della scienza e a familiarizzare con esse, ma non si è adeguatamente spiegata la distinzioney tra scienziati che parlano come accademici e scienziati che parlano con ruoli e responsabilità pubbliche. Negli Stati Uniti Anthony Fauci da un lato non ha avuto timore di dire umilmente ai cittadini «We don’t know», non sappiamo, senza nascondersi dietro certezze presunte e arroganti; dall’altro, non c’erano dubbi sul fatto che solo lui fosse il punto di riferimento istituzionale per scienza e policy – mentre in Italia nessun esperto ha mai chiarito a “che titolo” e “in nome di chi e che cosa” parlasse: personale, per la propria disciplina, per il proprio reparto. Chi parla a nome delle istituzioni è diventato indistinguibile, quanto ad autorevolezza, da chiunque altro.

Ma le istituzioni per la regolazione della scienza (regulatory science) negli Stati Uniti hanno alle spalle sia un esplicito scientific advisory system, la configurazione istituzionale della consulenza scientifica, sia anni di costruzione di fiducia dei cittadini nelle autorità scientifiche e delle autorità politiche nei confronti dei cittadini, che hanno “preparato” (preparadness) a fronteggiare eventi incerti. Una cultura di preparedness, per esempio, è in atto da decenni in California: si deve sempre essere pronti per il “Big one”, il grande terremoto e ciò è stato fatto con un training di conoscenza e pratica per i cittadini, che devono sempre avere scorte alimentari e non in casa (e cambiarle quando scadono), devono fare esercitazioni, avere piani di riunione familiare, eccetera. Qualora il Big one arrivasse, la popolazione non sarà serena, ma disporrà delle capacità per fronteggiare l’emergenza. E nelle pagine dei Centers for Disease Control (Cdc) americani vengono fornite indicazioni precise sui comportamenti adeguati da tenere e le conoscenze scientifiche che stanno dietro questi comportamenti: dalle tecniche per lavarsi le mani o maneggiare le mascherine fino alle istruzioni per i bambini su come festeggiare Halloween senza commettere imprudenze. Il punto, insomma, sono le istituzioni che collaborano con i cittadini per passare dalla paura alla gestione della conoscenza.

Come si comunicano adeguatamente rischi di una situazione in evoluzione, senza mettere in dubbio la validità della scienza?

Parlare di rischi non è propriamente corretto. Tecnicamente, condizioni di rischio si danno quando sono note tutte le variabili di un problema e si può quantificare la probabilità di eventi avversi. Ma la pandemia è una condizione definita (dal filosofo della scienza Jean-Pierre Dupuy) come «incertezza radicale». Ciò significa che non solo non si conoscono tutte le variabili del problema – e quindi quantificare è approssimativo –; ma soprattutto ogni comportamento individuale diventa una variabile in un puzzle che cambia a ogni passo. Noi non siamo meri osservatori di ciò che accade, ma siamo parte di un sistema complesso che costantemente contribuiamo a modificare.

Per questo è necessario familiarizzare e accettare l’incertezza e avere grande flessibilità nel sapere che in un quadro di complessità ci si muoverà un po’ avanti e un po’ indietro. Quindi la fiducia tra istituzioni, scienziati e cittadini è fondamentale. Non basta l’appello a «credere nella scienza». Fauci ha ottenuto la fiducia degli americani dicendo che la scienza «non sapeva» e che proprio questo «non sapere» giustificava le precauzioni. Certamente tutto ciò non elimina l’opposizione degli scettici radicali (come i no-vax), ma certamente contribuisce a togliere carburante al complottismo. Anche riconoscere gli errori compiuti è importante, come pure spiegare perché si adotta un provvedimento basato su un certo scenario di incertezza e le modifiche necessarie se lo scenario dovesse cambiare.

Infatti nei sistemi complessi può essere in atto una molteplicità di cause, come ha spiegato Charles Perrow parlando dei «normal accidents» (gli incidenti normali). Di fronte a grandi incidenti (Perrow parlava delle centrali nucleari di Three Mile Island e Fukushima) si pensa a cause imponenti, improbabili e irripetibili. Non è così: possono esserci cause minuscole che scalano un po’ per volta il sistema fino a diventare pervasive e inarrestabili.

Dopo la prima fase, la “disciplina” degli italiani ha un po’ traballato. Ha prevalso un senso di anarchia?

Ci sono tanti aspetti in una situazione così complessa e certamente ciò che ha prevalso nella popolazione è la responsabilità, non l’anarchia, se quasi il 90% degli italiani ha avuto almeno una dose di vaccino. Detto questo, molte disposizioni normative potevano essere accompagnate e spiegate meglio.

Nella prima fase della pandemia è stata fatta un’importante delega di conoscenza e di responsabilità ai cittadini. Autocertificazioni in cui si chiede alle persone di dichiarare che non hanno il Covid, di interpretare i propri sintomi, di predisporre nel quotidiano protocolli di sicurezza o di procedere all’isolamento fiduciario esigono una preparazione e standardizzazione dei comportamenti. Questo è ciò che mi piace nell’approccio del Cdc. Noi abbiamo considerato molti gesti come ovvi e basati sul senso comune. Ma non è così e capire quale sia la scienza “che sta dietro” gli atti quotidiani genera un senso di collaborazione fondamentale tra istituzioni e cittadini e tra i cittadini medesimi. Analogamente, i richiami alla responsabilità e alla capacità di mettere in atto delle “auto-restrizioni” rispetto a comportamenti autorizzati – posso andare a passeggio in centro, ma se c’è troppa gente è meglio che mi allontani – devono essere spiegati, perché la cultura dominante è quella di pensare che, se ho una libertà o un diritto, li posso dispiegare all’infinito. Non è così. Sempre più il diritto alla salute si presenta come un “diritto collaborativo”, che si realizza solo se tutti cooperiamo in modo convergente.

Il passaggio più recente a forme di nudging, la “spinta” (più o meno) “gentile” implicita nel consentire i tamponi, ma costruendo una sorta di “imbuto” e “piano inclinato” verso il vaccino, poteva essere introdotto meglio. Forse questo avrebbe in parte prevenuto la percezione di queste misure come forme di arbitrio e addirittura fatto preferire ad alcuni tout court l’obbligo vaccinale sanzionato. Dovremmo impegnarci per andare verso società più consapevoli e responsabili, non intrappolate nella falsa alternativa tra rivendicazione di libertà senza limiti e richiesta di misure coercitive.

L’obbligatorietà dei vaccini non viene posta per problemi di costituzionalità?

Non ci sono problemi di costituzionalità perché il secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione dice che i trattamenti sanitari obbligatori sono ammessi se autorizzati per legge. Certamente ci possono essere problemi di implementazione ed efficacia della norma quando questa misura riguarda una popolazione vasta.

Dal punto di vista dei principi però, si deve ricordare che dal secondo dopoguerra la strada maestra della medicina è diventato il consenso informato ai trattamenti (il primo comma dell’articolo 32 può essere interpretato in tal senso). I casi previsti dal secondo comma hanno riguardato le patologie psichiatriche e le malattie infettive. Ma dalla legge Basaglia (1978) in poi le malattie psichiatriche hanno avuto un’evoluzione verso il primo comma; e questo è diventato vero anche per le patologie infettive, per una medicina ispirata alla convinzione e alla coesione sociale. E non solo in Italia. La “reputazione” e il “prestigio” delle società democratiche rispetto ai Paesi autoritari risiede anche nell’ossequio a questi principi. Quando, nel 2017, la Francia ha reso obbligatorie le vaccinazioni per i minori, un editoriale di Nature ha commentato che una scelta di questo tipo sembrava maggiormente in linea con le politiche di uno Stato dell’ex-Unione Sovietica. Anche in una situazione di emergenza si deve cercare di bilanciare le misure immediate e una prospettiva di medio e lungo periodo.

È però anche vero che la spinta verso i diritti individuali in medicina ha finito per far perdere il senso dei diritti condivisi alla salute. Per decenni i paradigmi dominanti della bioetica (ispirati al prevalere indiscusso dell’individuo sulla comunità, un comprensibile retaggio della Seconda guerra mondiale) hanno dedicato scarsissima attenzione ai temi di salute pubblica. E oggi abbiamo bisogno di riconsiderare il valore di condivisione dei diritti.

Al netto di una situazione inedita, difficile a livello globale, su quali obiettivi è opportuno convergere?

È opportuno, in primo luogo, pensare a una “educazione civica alla scienza” per tutti e fin da bambini. Questo significa l’esigenza di una cultura generalizzata (politici, scienziati e cittadini) di science policy sull’uso credibile, aperto e trasparente della scienza nelle società della conoscenza. E si tratta anche di costruire istituzioni e sistemi di consulenza scientifica che non temano di palesare l’incertezza scientifica. Scienza, diritto e politica non sono più forti se cercano di ancorarsi a certezza e oggettività, perché l’incertezza non corrisponde all’arbitrio delle opinioni e decisioni, ma al contrario rende necessarie le argomentazioni e il confronto pubblico. E dobbiamo anche riconfigurare i comportamenti che ci tengono rispettosamente insieme nella vita associata con un nuovo vocabolario condiviso.

Yamanaka: le “mie” staminali da Nobel

La mia intervista allo scienziato giapponese sulle applicazioni delle cellule staminali pluripotenti indotte (Ips), la scoperta che gli è valsa il premio Nobel per la medicina. L’articolo è stato pubblicato su Avvenire lo scorso 8 luglio.

«Credo che le promesse scientifiche e cliniche sulle cellule Ips siano state mantenute. Lo dimostrano molte scoperte e l’avvio di numerosi trial clinici». Lo scienziato giapponese Shinya Yamanaka ha vinto il premio Nobel per la medicina nel 2012 per la scoperta delle cellule staminali pluripotenti indotte (Ips), grazie a un metodo (applicato nel 2006 a cellule di topo e nel 2007 a cellule umane) che consente di far regredire le cellule fino a uno stadio simil-embrionale. Una svolta che ha permesso di affrontare le sfide della ricerca su molte malattie con un’arma innovativa e potente. Yamanaka, che è direttore del Centro di ricerca e applicazione delle cellule Ips (CiRA) dell’Università di Kyoto, in Giappone, vede il suo compito principale nel «portare la tecnologia delle cellule Ips ai pazienti». Il testo completo può essere letto sul sito di Avvenire

«Medici al centro delle riforme post pandemia»

Filippo Anelli, presidente nazionale degli Ordini dei medici, sottolinea la necessità di valorizzare le competenze dei professionisti per utilizzare bene le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). La mia intervista è comparsa su Avvenire domenica 6 giugno

«Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) non basta puntare sulle strutture, bisogna valorizzare le professionalità, senza stravolgere le competenze. E il Paese ha bisogno di più medici specializzati, si è visto bene con la pandemia». Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), concorda che la campagna vaccinale anti Covid-19, se diventerà annuale, dovrà andare sul territorio: «Come accade per la vaccinazione antinfluenzale. Ma i medici andranno supportati, per il carico di lavoro extra sanitario che richiede».

La vaccinazione anti Covid-19 sta funzionando, basterà a portarci fuori dall’emergenza?

La vaccinazione ha ridotto il contagio, abbattuto la mortalità e ci ha aiutato a uscire dalla fase critica. Lo avevamo visto già per i medici: dopo che sono stati vaccinati tra gennaio e febbraio, abbiamo assistito a un crollo della mortalità da marzo. Non sappiamo però ancora esattamente quanto duri l’immunità: la campagna è iniziata a fine dicembre. Però vediamo che il green pass è già stato prolungato da 6 a 9 mesi, e quello europeo varrà un anno: significa che i primi studi hanno dato risultati migliori di quanto si era pensato.

Se occorrerà una terza dose, la faranno i medici negli ambulatori?

Sulla terza dose, al momento, non ci sono certezze: la natura di un virus che muta suggerisce di essere prudenti e di adottare strategie di vaccinazione annuale. Per quanto il piano vaccinale basato sugli hub abbia funzionato (a parte la necessità di “inseguire” i soggetti fragili con l’aiuto dei medici di famiglia), è chiaro che, in caso di richiami annuali, la gestione non potrà più essere emergenziale, ma dovrà basarsi su servizi sanitari del territorio. Da un lato occorre che i medici “dirottati” sull’emergenza Covid tornino alle loro attività ordinarie per rispondere alla “pandemia silenziosa”: liste di attesa che si allungano, diagnosi tardive, difficoltà di accesso alle prestazioni. Dall’altro non bastano i dipartimenti di prevenzione delle Asl: è ragionevole prevedere il coinvolgimento dei medici di medicina generale (mmg). Tuttavia il carico di lavoro extra sanitario che i vaccini anti Covid comportano (organizzare e chiamare i pazienti) fa sì che si debbano prevedere adeguati “rinforzi”. Inoltre rispetto al vaccino antinfluenzale, monodose e conservato per sei mesi nei normali frigoriferi, quelli anti Covid a mRna sono in flaconi polidose, 6 per Pfizer e 10 per Moderna, da utilizzare interamente una volta aperti.

Ci sono stati medici che non hanno voluto vaccinarsi. È ragionevole che ci sia un obbligo per il personale sanitario?

Su circa 460mila medici, i “no vax” sono pochissimi. Sull’obbligo vaccinale del personale sanitario c’è una sentenza dalla Corte Costituzionale (137/2019) che ha riconosciuto valida una legge della Regione Puglia che lo prevedeva per chi lavora in alcuni reparti. La Consulta ha stabilito che per un operatore sanitario una protezione come il vaccino rappresenta non un “obbligo” ma un “requisito” per svolgere l’attività, anche in termini di sicurezza del lavoro per sé e per i pazienti (ci sono professioni per le quali la vaccinazione antitetanica è un requisito). Avevamo lamentato la mancanza dei dispositivi di protezione individuale all’inizio della pandemia: oggi la vaccinazione si dimostra il miglior presidio per la sicurezza.

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) prevede 20 miliardi per la sanità. Quali i suggerimenti della Fnomceo?

Il Pnrr è uno strumento teso a colmare le disuguaglianze e le carenze di carattere strutturale. Prevede, per esempio, 4 miliardi per rinnovare le apparecchiature obsolete. Poi risorse per l’ammodernamento tecnologico, il fascicolo sanitario elettronico, la messa in sicurezza degli ospedali secondo la normativa antisismica. Mi pare però che manchi altrettanto investimento sulle professioni. Si parla di case di comunità, ospedali di comunità, assistenza territoriale, ma i professionisti restano ai margini: non è possibile una riforma del Servizio sanitario nazionale (Ssn), soprattutto sul piano territoriale, se non si coinvolge chi deve metterla in atto. Per potenziare l’assistenza primaria, non basta fare le case della comunità, occorre che i medici possano lavorare in équipe con assistente di studio, infermiere, ostetrica, terapisti, psicologi, cioè integrando le professionalità. Siamo contrari allo slittamento delle competenze, cioè a dare i compiti del medico ad altri professionisti: significa abbassare la qualità dell’assistenza. Esiste anche un problema di governance. Bisogna evitare che il modello delle aziende sanitarie serva solo per contenere i budget: di recente il presidente della Consulta ha ribadito che i diritti di salute non possono essere sacrificati per esigenze di bilancio. Nella misura 6 del Pnrr questo tema è accennato, ma solo in termini di principio.

Che cosa proponete dunque?

Sulla scia del dibattito negli Stati generali della Fnomceo, accanto al Pnrr abbiamo lanciato la questione medica, cioè la necessità di definire con precisione i confini della professione. Il medico fa diagnosi e terapia. Se l’infermiere si specializza ben venga, così come altri terapisti, ma senza invasioni di campo. Occorre valorizzare le competenze di professionisti che devono lavorare insieme, e non in conflitto: se nelle case della salute ci saranno équipe multifunzionali, è opportuno che le competenze siano ben definite. E poi manca personale. L’abbiamo visto nella pandemia: non basta raddoppiare i respiratori per le terapie intensive, se per farli funzionare non abbiamo un numero sufficiente di anestesisti rianimatori. Ma per ovviare alla carenza di medici, occorre un’adeguata programmazione.

Si riferisce al cosiddetto “imbuto formativo”?

Sì, tutti i medici devono avere la possibilità di trovare un percorso formativo post laurea: una scuola di specialità o il percorso della medicina generale. È un atto di giustizia nei confronti dei giovani. Servirebbe che fosse stabilito per legge, perché nessuno sia penalizzato e magari scelga di espatriare, causando un danno non solo economico al Paese. Il Pnrr ha stanziato 4mila borse post-laurea per le specialità e 2mila per la medicina generale, ma deve diventare un provvedimento duraturo e non occasionale.

Nel Pnrr è anche accennata la possibilità che i mmg diventino dipendenti del Ssn. Una prospettiva praticabile?

Mi pare che sia una questione più ideologica che pratica. Da quando esisteva il medico condotto a oggi è sempre stato salvaguardato il diritto del cittadino di scegliere il proprio medico. Recentemente uno studio sul British medical journal ha mostrato che seguire per lungo tempo un paziente migliora gli indici di sopravvivenza. La scelta della persona a cui affidare la propria salute sviluppa un importante legame di fiducia che valorizza anche l’autodeterminazione del paziente e la tutela della sua dignità. All’interno del Ssn, la scelta del medico si è realizzata solo con l’intramoenia, che non mi pare una soluzione perfetta dal punto di vista della giustizia sociale.

Malattie rare, quanti danni dal lockdown

Il mio articolo per la Giornata mondiale per le malattie rare, uscito sabato 27 febbraio su Avvenire

Per i pazienti con malattie rare la pandemia da Covid-19 ha rappresentato «un’emergenza nell’emergenza, soprattutto nella prima fase. Ha determinato un significativo impatto sulle condizioni di benessere psico-fisico e relazionale nei malati rari e loro famiglie». Non usa giri di parole Domenica Taruscio, direttore del Centro nazionale malattie rare presso l’Istituto superiore di sanità (Iss), per indicare le problematiche che queste persone, più di un milione in Italia, ma divisi tra quasi 8mila patologie diverse, hanno dovuto affrontare negli ultimi 12 mesi. La Giornata mondiale delle malattie rare, che si celebra domani, è l’occasione per gettare un po’ di luce su questi pazienti, fragili ma abituati a sviluppare capacità di resilienza. «Scontiamo alcuni ritardi, che la pandemia ha messo ancor più in evidenza – commenta Annalisa Scopinaro, presidente di Uniamo, la Federazione italiana delle associazioni di persone con malattie rare – in particolare il Piano nazionale delle malattie rare, scaduto nel 2016, e l’iter di una nuova legge sulle malattie rare, fermo alla commissione Bilancio della Camera». Tra le norme della futura legge che Uniamo valuta positivamente c’è l’immissione automatica nei Prontuari regionali delle terapie avanzate subito dopo l’approvazione da parte dell’Agenzia italiana del farmaco, mentre attualmente è necessario un provvedimento specifico, che non viene mai adottato nello stesso momento dalle diverse Regioni, provocando disuguaglianze tra i malati sulla base della loro residenza.

La solida collaborazione esistente tra Istituto superiore di sanità e Uniamo ha prodotto, tra le altre cose, un’indagine conoscitiva per rilevare le necessità dei pazienti e le principali difficoltà incontrate durante la pandemia. «I malati rari non sono stati considerati prioritari rispetto alla emergenza Covid-19 – osserva Domenica Taruscio –. Il 50% di loro non si è recato nelle strutture ospedaliere per controlli clinici e terapie, anche laddove erano attive e non erano state trasformate in reparti Covid, perché c’è stata la percezione di aumentato rischio di contagio, considerando anche la difficoltà iniziale a procurarsi i dispositivi di protezione individuale». Un’altra criticità rilevata dall’indagine Iss-Uniamo è stata la difficoltà per i malati a reperire alcuni farmaci che sono distribuiti dagli ospedali. Nell’assistenza si è accumulato un ritardo «non ancora del tutto recuperato – ammette Taruscio –, anche se la situazione varia a seconda delle regioni». «Possiamo dire – aggiunge Scopinaro – che è mancata la continuità tra il paziente e i centri specialistici. Non va dimenticato che al milione di malati vanno aggiunte le loro famiglie: le malattie rare sono per l’80% di origine genetica, spesso riguardano bambini e presentano un’estrema varietà di condizioni. In generale, a parte l’abitudine dei pazienti a “proteggersi”, che ha reso loro meno insolita e pesante la segregazione del lockdown, il contatto con i medici è stato spesso affidato solo alla buona volontà di coloro che si sono resi reperibili personalmente tramite telefonate o messaggi». Di positivo, precisa Scopinaro, c’è che «la situazione ha indotto a prendere maggiormente in considerazione la telemedicina (in realtà più una teleassistenza), che è stata inserita nel documento prodotto dal gruppo di lavoro creato all’Iss e che è stato approvato dalla Conferenza Stato-Regioni». «I bisogni dei pazienti rari – continua Scopinaro – sono molto variegati. Saperli affrontare e risolvere sarebbe utile anche in altre situazioni sanitarie. Durante la pandemia i malati rari hanno faticato a farsi riconoscere lo status (articolo 26 del “Cura Italia”) che permette di assentarsi dal lavoro o avere accesso allo smart working. E peccato che si sia pensato al bonus monopattini ma non a sostenere i caregiver dei disabili gravi».

Sul piano delle cure, la novità maggiore degli ultimi anni è la terapia genica per l’atrofia muscolare spinale (Sma) di tipo 1: «Per motivi di sicurezza finora è autorizzata solo fino ai sei mesi di vita del bambino», osserva Scopinaro. Ma questa circostanza ha reso ancora più evidente l’opportunità di incrementare gli screening neonatali, già previsti per 40 malattie metaboliche dal 2017: «Un progetto pilota di screening regionale sulla Sma avviato in Toscana e Lazio sembra incoraggiante – riferisce Taruscio –. È in fase di valutazione presso le istituzioni competenti se e quando estenderlo su scala nazionale: poter somministrare la terapia disponibile il più precocemente possibile cambia per sempre il destino di questi bambini».

Cruciale, anche in pandemia, avere informazioni: «Molto utili risultano i numeri verdi dell’Iss (800.896949) e di Uniamo (800.662541), dove rispondono esperti in grado di fornire adeguato counseling. Le domande sono venute soprattutto dai malati sulle relazioni tra la loro patologia e il virus, ma anche dagli operatori sanitari, per esempio sui vaccini. Importante è anche la condivisione, sul portale interistituzionale del ministero della Salute, malattierare.gov.it, di tutte le informazioni utili per il pubblico (diffuse anche con la newsletter MonitoRare, a cui chiunque può iscriversi): dalle patologie ai centri di riferimento, alle associazioni di pazienti». L’esperienza italiana, che risale al 2001, ha dato al nostro Paese un ruolo di primo piano nelle Reti di riferimento europee (Ern), nate nel 2017. Le patologie sono state suddivise in 24 Reti e sono stati selezionati oltre 350 ospedali di riferimento, e più di 60 sono italiani. «L’Italia – conclude Domenica Taruscio – coordina tre di queste Reti di malattie rare: quelle metaboliche, quelle del connettivo e quelle dell’osso. In più ci sono progetti di ricerca co-finanziati dalla Commissione europea, come l’importante European Join Programming on Rare Diseases, che promuove innovazione e collaborazione internazionale per incrementare la ricerca scientifica, la diagnosi e una migliore gestione delle patologie; finanzia anche i corsi che organizziamo all’Iss sui registri per le patologie rare e sulle malattie senza diagnosi». Uno degli aspetti più positivi è «aver imparato a lavorare insieme e non in ordine sparso». Per il bene dei pazienti.

Covid-19, in Italia poca attenzione alla prevenzione. Occorre cambiare rotta

Ripubblico qui due miei articoli, usciti su Avvenire domenica 19 aprile e giovedì 2 aprile 2020: il primo esamina con alcuni esperti la situazione di impreparazione in cui è stato colto il nostro sistema sanitario e socio-assistenziale dalla pandemia di coronavirus. Il mancato aggiornamento di un Piano pandemico efficace e la generale sottovalutazione del pericolo incombente tra le maggiori criticità. Il secondo è un’intervista che indicava alcune strategie per recuperare il tempo perduto.

Quali lezioni trarre dall’emergenza Covid 19 per la tutela della salute pubblica? Come hanno risposto le Regioni alle necessità di gestione del sistema sanitario? Quali priorità in un Paese come l’Italia, alle prese con difficoltà di bilancio?Innanzitutto i dati non sono sempre chiari. «Nessuno sa se il paziente uno di Codogno fosse in realtà il paziente dieci, cento o mille – osserva Giovanni Corrao, docente di Statistica medica all’Università di Milano Bicocca –. Nella maggior parte delle malattie infettive vediamo solo la parte emersa dell’iceberg, cioè le persone che si riversano sul servizio sanitario per una cura perché hanno sintomi gravi». Ma nel caso del Sars-CoV-2 c’è stata una complicazione: «Abbiamo scoperto che il virus è trasmissibile prima della comparsa dei sintomi, e questo era del tutto imprevedibile – aggiunge Giovanni Capelli, docente di Igiene generale applicata all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale –. Anche l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) si è mossa in ritardo, forse erano convinti che fosse qualcosa di simile alla Sars, ma un indice di diffusione così alto non si vedeva forse dalla Spagnola del 1918». Di fronte a un contagio che avanza, serve un Piano pandemico, che era stato avviato in Italia dopo la Sars del 2003-04 e rivisto in occasione della pandemia di H1N1 del 2009: «Il nostro però (aggiornato nel 2013 e nel 2016) è troppo generico – puntualizza Americo Cicchetti, direttore dell’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari dell’Università Cattolica (Altems) –. Un Piano pandemico dovrebbe essere elaborato con livelli di dettaglio tali che possano rappresentare linee di indirizzo immediatamente operative per le regioni, dovrebbe chiarire in maniera molto puntuale quali sono le strutture organizzative da mettere in campo e che cosa deve essere rafforzato rispetto alla normale dotazione, altrimenti è poco utile».

Il Paese ha una generale disattenzione alla prevenzione: «Innanzi tutto ravanò disabituati alle malattie infettive. Poi è più facile che si ringrazi il chirurgo che toglie il tumore – osserva Capelli – che il medico che fa vaccinazioni. Del resto abbiamo uno dei tassi più bassi in Europa di personale sanitario vaccinato contro l’influenza». «Inoltre nel nostro Paese, e specie in Lombardia, sono stati trascurati da decenni i laboratori di sanità pubblica, che tutelano la salute della popolazione – aggiunge Corrao – in favore di una medicina di precisione, che guarda all’individuo ed è costosissima».

Quando il contagio si è diffuso, ciascuna regione ha reagito come ha saputo, spiega Cicchetti: «In Altems abbiamo predisposto report settimanali per analizzare come hanno risposto i modelli organizzativi regionali (con focus su Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte, Lazio e Marche) e come si stanno adattando, cercando di fornire la soluzione migliore alle medesime indicazioni, fornite dal ministero della Salute e dall’Istituto superiore di sanità. Ogni Regione si è basata su ciò che aveva: la Lombardia un modello molto ospedalocentrico, di alta specializzazione; il Veneto con le Unità complesse di cure primarie (Uccp) puntando sull’assistenza domiciliare e la ricerca proattiva; l’Emilia-Romagna un po’ a metà tra ospedale e territorio, utilizzando le Case della salute».

Le risposte, e la loro efficacia, cambiano anche in relazione all’incidenza dei contagi, spiega Cicchetti: «In Lombardia si è arrivati a 0,61% dei casi sulla popolazione regionale, nel Lazio siamo allo 0,09%. È incomparabile il modo in cui è stato sotto pressione il sistema lombardo rispetto a quello laziale: la Lombardia ha risposto secondo quello che sapeva fare in una situazione che comunque era molto più grave rispetto a quella di tutte le altre regioni». «Stime dell’Istituto superiore di sanità su cartelle a campione – precisa Capelli – ipotizzano che è venuto a contatto con il virus il 10% della popolazione. Ma il sovraccarico ospedaliero ha funzionato da moltiplicatore. Il confinamento di Codogno si è dimostrato uno strumento efficace, ma si riusciva a chiudere subito la Lombardia?». Un altro strumento sono le Unità speciali di continuità assistenziale (Usca) previste dal decreto dell’8 marzo nella misura di una ogni 50mila abitanti: «Sono gruppi di medici, presi da servizi meno impegnati, che vanno a domicilio – chiarisce Cicchetti –, per governare le cure intermedie, la transizione tra ospedale e casa e fare in modo che persone con sintomi o convalescenti possano essere gestite a domicilio. Restano monitorate, anche con tamponi, senza andare in ospedale». In Lombardia ne sono state attivate 44, ma ne serviranno 200.

Le misure di sanità pubblica, negli ultimi 20 anni, si sono spesso scontrate con il nodo risorse: «Spinti dalle necessità di maggiore efficienza dettate dal ministero dell’Economia – spiega Cicchetti –abbiamo cercato di far girare il motore del Servizio sanitario a un numero di giri altissimo senza aumentare la cilindrata, anzi riducendola un po’. Però se si spinge al limite, c’è il rischio che in un’emergenza (una salita, un sorpasso) il motore non ce la faccia più. Invece bisogna lasciare un piccolo margine: per paura di riempirli male o non riempirli, abbiamo ridotto i posti letto fino ad averne 3,7 per milione di abitanti e 5mila osti in terapia intensiva; la Germania, che ha 20 milioni di abitanti più di noi, ha il doppio dei posti letto e 28mila in terapia intensiva. I posti letto possono essere gestiti in modo appropriato anziché cancellarli, e tornano utili proprio nelle emergenze (epidemie, terremoti, alluvioni)». «Spero che questa pandemia – aggiunge Corrao – dimostri che di una sanità pubblica, universalistica, non si può fare a meno». «Ora non serve – conclude Capelli – la caccia all’untore, ma capire che gli errori costano e non vanno ripetuti. Avere fretta di riaprire attività inutili significa rischiare un’altra ondata».

«È il momento di programmare il futuro»

«Al netto della grande dedizione e professionalità che il personale sanitario ha mostrato e continua a mostrare nella cura dei malati di Covid-19, da questa pandemia dobbiamo trarre molte lezioni. E per uscirne dobbiamo già oggi prevedere una serie di interventi che invertano una rotta che ci ha portato ad affrontare l’emergenza senza la necessaria preparazione». Americo Cicchetti, direttore dell’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari (Altems) dell’Università Cattolica del Sacro Cuuore, teme che i rischi per la salute non saranno finiti dopo l’emergenza, e pensa che si debba cominciare a predisporre già ora un piano per la ripresa.

Che lezioni si possono trarre dall’epidemia di Covid-19?

La crisi si è innestata in un momento di debolezza del Ssn già provato da anni di decrescita della spesa e lo tsunami è arrivato anche nelle Regioni in cui il sistema era migliore perché aveva già raggiunto livelli di efficienza che lo avevano portato al limite. La conseguenza è che la risposta è stata scoordinata e la reazione lenta anche perché non avevamo un piano pronto e credibile. In Italia il piano per la pandemia influenzale, da utilizzare in casi come questo, è del 2007 ed è stato solo aggiornato marginalmente nel 2016. Il Gruppo tecnico consultivo nazionale sulle vaccinazioni (di cui faccio parte), con la responsabilità della strategia per le malattie infettive, si è riunito una volta sola dopo che è stato ricostituito nel 2018 e non ha mai trattato questo tema.

Hanno pesato il blocco del turn over e i piani di rientro?

La spesa sanitaria è cresciuta tra il 2000 e il 2005 di circa il 6% l’anno, e di circa il 3% fino al 2011, perché erano partiti i piani di rientro del debito nelle Regioni. Dal 2011 è cresciuta – in media – meno dell’1% l’anno. Negli ultimi 5 anni è cresciuta di circa un miliardo l’anno, cioè meno dell’inflazione: quindi è come se si fosse ridotta. Questo ha pesato soprattutto nelle regioni sottoposte ai piani di rientro, quasi tutto il Centro-Sud, ma ha avuto effetti anche al Nord. In questi stessi anni, la spesa sanitaria è cresciuta intorno al 4% l’anno in Paesi quali Francia, Germania e Regno Unito. Dal 2021 entreranno in vigore nuovi indicatori per i Livelli essenziali di assistenza (Lea), perché sono cambiati i bisogni: il numero di over 65 da seguire in assistenza domiciliare, i posti letto in lungodegenza per anziani disabili, o il tasso di copertura degli screening per tumori. Questi nuovi Lea, oggi, non li rispetterebbero 9 Regioni su 20.

Quali problemi per la sanità dopo la crisi del Covid-19?

Una grande quantità di interventi e ricoveri programmati e ora rinviati. Ho esaminato i dati del ministero della Salute sulle schede di dimissione: i ricoveri in ospedali per acuti nel 2018 sono stati 7,9 milioni, da marzo a giugno ne perderemo un milione, con 520mila interventi chirurgici. Da luglio si dovranno recuperare: si allungheranno le liste d’attesa e ci sarà pressione sul sistema sanitario. Ricordiamo che non tutti i malati oncologici continuano i trattamenti, perché i pazienti più fragili è bene che non vadano in ospedale. L’Associazione italiana di oncologia medica segnala che vengono sospese le immunoterapie oncologiche ai malati di Covid-19, perché si teme che possano mettere a rischio il sistema immunitario di tali pazienti.

Come evitare danni ulteriori alla salute della popolazione?

Alcuni provvedimenti sono già stati emanati e sono opportuni. Riguardano il personale del Ssn che potrà essere rinforzato, si spera non solo per l’emergenza ma in modo strutturale. Anche le Unità speciali di continuità assistenziale (Usca) previste dal Decreto legge 14/2020 sono strutture purtroppo non attive ancora in tutte le Regioni, ma sono un presidio che potrebbe essere utile anche per il futuro. È necessario mettere in conto un’accelerazione dei ritmi di funzionamento delle sale operatorie con sedute non più di 8 ore ma di 14, aumentare le équipe, compresi gli infermieri. Stesso ragionamento per le radiologie o i laboratori di analisi. Per un certo periodo alcune strutture e tecnologie (l’alta diagnostica) dovranno funzionare h24 per recuperare il tempo perduto. Tutto ciò è possibile con le adeguate risorse, ma anche con adeguata programmazione e preparazione. È il momento di programmare il futuro.

Contro la didattica a distanza: “uccide” i nostri giovani. E il futuro del Paese

A vincere su tutto sono i numeri (ormai gestiti in modo incomprensibile) utilizzati per spargere paura e paralizzare ogni ragionamento che non sia: chiudiamo tutto e aspettiamo il vaccino. Peccato che finora il virus non sembri aver “obbedito” alla strategia adottata (il discorso sarebbe lungo) e che quando – l’estate scorsa – il contagio aveva rallentato la sua corsa, le misure messe in campo non abbiano riguardato il potenziamento dei trasporti o altre proposte di screening in ambito scolastico, bensì il bonus monopattini o i banchi a rotelle.

I morti sono veri e meritano rispetto, ma non per giustificare una gestione della seconda fase dei contagi che stava diventando una gigantesca e tragica farsa, come si è intuito all’inizio di dicembre. Quando, contraddicendo le promesse di fine ottobre («chiudiamo ora per salvare il Natale» con la creazione delle zone rosse, arancioni e gialle) il governo decise le restrizioni più dure proprio durante le settimane delle festività natalizie, mentre gli indicatori sulla diffusione del virus stavano portando tutte le Regioni a diventare “gialle”. Siamo quindi rimasti gialli per tre giorni (ma vietando spostamenti tra Regioni), poi rossi per quattro, arancioni per tre, rossi per quattro, arancioni per uno, rossi per due, per tornare gialli il 7 gennaio. Come se il virus seguisse questo andamento da sismografo impazzito. L’unico obiettivo era impedire di muoversi senza chiamarlo lockdown.

Numeri per un pensiero unico

Ma anche quando sembrava che finalmente si aprisse uno spiraglio per le esigenze dei giovani, ecco la doccia fredda: preceduta – nei primi giorni dell’anno – da un crescente allarmismo di dichiarazioni di politici e di analisi dei giornali, la notte tra il 4 e il 5 gennaio il governo ha deciso di rinviare il rientro a scuola dal 7 all’11 gennaio. Seguito, in ordine sparso, da ordinanze regionali che rimandavano la didattica in presenza di una, due o tre settimane (ultima ieri la Lombardia). Vanificando anche sforzi e programmazioni dei dirigenti scolastici e dei loro collaboratori, che avevano calcolato le presenze (prima del 75%, poi del 50%) degli allievi, le divisioni delle classi anche in base alla residenza degli studenti per non affollare eccessivamente i mezzi pubblici; che avevano concordato in innumerevoli riunioni con i prefetti gli orari di ingresso scaglionato, rivoluzionando l’organizzazione scolastica (talvolta obbligando gli studenti a uscire da scuola alle 15 o alle 16, con pause pranzo ridicole). E che, ancora prima, avevano organizzato gli spazi, i percorsi e gli orari differenziati tra le classi per evitare occasioni di assembramento degli studenti (ovviamente sempre dotati di mascherina).

Che cosa giustifica la decisione? Numeri misteriosi, scelti con criteri mutevoli. Tralascio di calcolare il numero delle morti, che accadono dopo un tempo variabile e piuttosto lungo dal momento dell’infezione (ricordo solo che, in epoca pre Covid, ogni giorno morivano in Italia 1.700 persone). Si segnala ogni giorno la percentuale di tamponi positivi, una cifra inaffidabile: per limitarsi agli ultimi giorni è stato rilevato del 14,9% (27 dicembre), 12,4 (28), 8,7 (29), 9,6 (30), 12,6 (31), 14,1 (1° gennaio), 17,6 (2) 13,8 (3 e 4), 11,4 (5 e 6), 14,8 (7). Ma davvero crediamo che un indice così variabile da un giorno con l’altro misuri l’effettiva diffusione del virus e non dipenda invece dai diversi soggetti che sono stati sottoposti al tampone e dal numero dei test? O da altri elementi distorsivi?
Senza dimenticare che l’informazione sceglie quasi ogni giorno di valorizzare l’indice peggiorativo (se calano i morti, sale il tasso di positivi; se questo scende, salirà il numero di casi o l’occupazione dei posti letto ospedalieri). Intanto il governo ha anche deciso di abbassare la soglia di Rt sopra la quale le Regioni verranno classificate rosse, arancione o gialle, certificando che dei numeri si fa un uso strumentale. E fa sorgere qualche dubbio sull’impostazione univoca imposta: il virus circola, non si può fare altrimenti. Neanche verso il Vangelo, per chi ci crede, c’è tanta fede come verso questo pensiero unico: ma di fronte a un virus nuovo, e quindi in gran parte ignoto, e dopo avere assistito a scienziati che hanno detto tutto e il contrario di tutto, non mi sembra segno di rigore e metodo scientifico.

Dispersione scolastica e disturbi mentali

Il fatto quasi paradossale è che la decisione di rimandare il rientro in classe viene all’indomani della diffusione del rapporto dell’Istituto superiore di sanità (Iss) che segnala che fra il 31 agosto e il 27 dicembre sono stati rilevati 3.173 focolai in ambito scolastico, meno del 2% di quelli rilevati a livello nazionale, concludendo che «la percentuale dei focolai in ambito scolastico si è mantenuta sempre bassa e le scuole non rappresentano i primi tre contesti di trasmissione in Italia, che sono nell’ordine il contesto familiare/domiciliare, sanitario assistenziale e lavorativo». Negli stessi giorni un’altra indagine (realizzata da Ipsos per Save the children) certifica i danni che il lockdown scolastico provoca negli adolescenti e nei giovani, con la stima di 34mila studenti a rischio abbandono. «I ragazzi – riferisce Avvenire – si sentono frustrati dalle scelte per il contrasto al Covid: il 65% è convinto di star pagando in prima persona per l’incapacità degli adulti di gestire la pandemia, il 43% si sente accusato dagli adulti di essere tra i principali diffusori del contagio, mentre il 42% ritiene ingiusto che agli adulti sia permesso di andare al lavoro, mentre ai giovani non è permesso di andare a scuola. E serpeggia una certa amarezza. Quasi la metà, il 46%, parla di un “anno sprecato”». Dati che confermano precedenti indagini, come quella dell’ospedale Gaslini di Genova che indicava che con la chiusura delle scuole «negli adolescenti compare maggiore instabilità emotiva con irritabilità e cambiamenti del tono dell’umore, verso il tipo depressivo». Su una popolazione già fragile si è svolta invece l’indagine della Neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza dell’ospedale Bambino Gesù di Roma, diretta da Stefano Vicari: su 128 ragazzi che avevano già bisogno di un supporto psicologico per un disturbo mentale, di età tra 12 e i 17 anni, il 40% ha investito molto meno nello studio con la didattica a distanza e il 35% dice che passa molto più tempo a letto durante il giorno, a guardare il soffitto, o a dormire.

«Vittime della disfunzionalità collettiva»

In questi giorni non sono mancate sui giornali alcune voci che hanno sottolineato quanto la situazione sia grave. Ne cito quattro. Giancarlo Frare, presidente dell’Associazione genitori scuole cattoliche (Agesc), in una intervista su Avvenire del 6 gennaio, parla di «colpo basso che le famiglie non meritavano» ricordando che «tutti gli esperti confermano che questo periodo (di Dad, ndr) avrà conseguenze devastanti su tanti ragazzi. Può rappresentare un danno enorme e va a colpire chi non ha voce e magari nemmeno gli strumenti per sopportare una situazione del genere. Gli studenti sono una categoria completamente dimenticata». E ancora: «Le famiglie erano consapevoli di correre un rischio, ma erano disposte a compiere questo passo pur di non far perdere ulteriori giorni di scuola ai ragazzi. Che, dal canto loro, hanno accettato tutte le regole, sono stati più che diligenti e ora si trovano nuovamente al palo. I giovani si fidano degli adulti, di genitori e insegnanti. Non dicono nulla ma vedono tutto. E si ricordano delle promesse fatte e puntualmente disattese».

Lo stesso 6 gennaio, sul Corriere della Sera, interviene il fisico e scrittore Paolo Giordano, il quale commentando le scelte del governo osserva: «Singolare è soprattutto lo stravolgimento del principio di causalità: siamo costretti a estrapolare le informazioni alla base delle decisioni dalle decisioni stesse, e non viceversa». Dopo aver ricordato che c’è incertezza sui dati scientifici (anche quelli del rapporto dell’Iss, dice Giordano) conclude: «Le vittime designate della disfunzionalità collettiva sono i ragazzi e le ragazze delle scuole superiori, gli stessi che hanno visto la loro routine, la loro istruzione e la loro socialità squarciate più a lungo. E che iniziano ormai a soffrire visibilmente». Osservo per inciso che i ragazzi non possono più fare sport di squadra da novembre, ma vedono che i professionisti del calcio non solo giocano regolarmente, ma se vengono trovati positivi si isolano e dopo un tampone negativo tornano in campo.

Sempre il 6 gennaio, su Repubblica, Andrea Gavosto (direttore della Fondazione Agnelli) accanto alla singolare proposta di continuare l’anno scolastico fino ad agosto, sottolinea: «Il prezzo che questa generazione di studenti rischia di pagare – già altissimo dopo il lockdown di primavera e la troppo incerta ripartenza in autunno – sta diventando enorme, con perdite in termini di conoscenze, di prospettive di lavoro e di reddito, di qualità della cittadinanza già ora in parte irrecuperabili».

Infine ieri, ancora sul Corriere della Sera, l’ex leader del Pd Walter Veltroni dice: «Nessuno sembra occuparsi di quello che sta accadendo nel profondo dell’animo degli adolescenti. … Quanto pesa l’assenza dalla dimensione scolastica che è certo apprendimento ma anche scambio, condivisione, definizione di uno spazio proprio, il primo autonomo dalla famiglia, in cui ciascuno mostra sé stesso ed è messo alla prova?». E ancora: «Perdere la pienezza dei quattordici o quindici anni, quando il mondo è una scoperta quotidiana delle sue possibilità e delle sue insidie, non è come vivere quest’esperienza a cinquant’anni. I ragazzi si sono incupiti, chiusi, molti hanno peggiorato i loro risultati scolastici, la maggioranza trascorre il tempo appesa allo schermo di un telefono, che costituisce l’aggancio al mondo esterno». E chiede di ricordare che «nelle case di milioni di italiani c’è una ragazza o un ragazzo che sta annaspando nel tempo decisivo della vita è c’è il rischio che si smarrisca. Per un ragazzo il “distanziamento sociale” è pena più grave che per un adulto (…) In un mondo adulto che è andato in confusione su tutto: vaccini, tamponi, terapie, governi, regole… l’unica cosa su cui tutti si sono sempre uniti è stata randellare i giovani se una sera uscivano, perfino essendo consentito, per vedere amici o semplicemente prendere un aperitivo».

Non basta ripetere che non siamo un Paese per giovani. In modo perlomeno miope, si sta “uccidendo” non solo l’animo dei nostri figli o nipoti, ma anche il futuro del Paese.

Dio stramaledica gli inglesi

L’aeroporto di Londra Stansted

Con l’arrivo dei primi voli in Italia, sembra in via di risoluzione la situazione dei cittadini italiani bloccati nel Regno Unito dall’ordinanza di domenica scorsa del ministro della Salute, Roberto Speranza. Ai giornali oggi sembra un problema del tutto secondario, dedicano alla questione solo piccoli spazi (salvo eccezioni), tuttavia non può mancare qualche riflessione su come è stata gestita la vicenda. Che non è priva di ulteriori criticità.

Il panico si è impadronito dei governi europei quando ha avuto risalto la notizia, che peraltro circolava da giorni, che si era diffusa Oltremanica una nuova variante del Sars-CoV-2, più contagiosa anche se non più pericolosa (apparentemente). Tutti però si affannavano a rassicurare che i vaccini anti-Covid, appena approvati dalle autorità sanitarie e di prossima distribuzione, non avrebbero avuto minore efficacia. In un rapido propagarsi di isteria collettiva, più veloce ancora del Covid-19, alcuni governi europei, tra cui quello italiano, hanno deciso di bloccare i voli da e per il Regno Unito, causando seri disagi a non pochi connazionali. Anche se motivata dal ministro con la “massima prudenza”, la decisione appare abbastanza illogica e pertanto ingiustificata. Non solo si è scoperto presto che la stessa variante del virus, ribattezzata “inglese”, circola anche in Australia, Olanda e Danimarca (e ora si teme per una variante sudafricana). Ma si è finto di non sapere che tutte le persone che dovevano imbarcarsi dagli aeroporti britannici verso l’Italia dovevano avere fatto un test che dimostrasse la loro negatività al virus.

Quindi centinaia di persone, anche cittadini italiani all’estero, sono stati trattati da presunti untori e messi nel limbo. Dovrebbe essere inutile precisare le motivazioni che sotto Natale portano la gente a spostarsi: a parte i turisti, quest’anno limitati dalle restrizioni anti Covid, sono perlopiù persone che rientrano a trovare i parenti per passare le feste in famiglia. Ma sono finiti nella tagliola delle trattative sulla Brexit che hanno inasprito gli animi dei governanti europei, sino a far dimenticare le norme che prevedono la libera circolazione delle persone, tra cui la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che all’articolo 3 del protocollo 4 recita che «Nessuno può essere privato del diritto di entrare nel territorio dello Stato di cui è cittadino».

Non solo. Di fronte alle preoccupazioni e alle richieste degli nostri concittadini, ambasciata e consolato italiani a Londra da lunedì 21 rispondevano che non erano previsti voli di rimpatrio, e di seguire le notizie sui loro siti internet e profili social (!). Quindi migliaia di persone sostanzialmente abbandonate al loro destino, con il governo inglese verosimilmente più preoccupato dei problemi dei propri connazionali, e della fila di camion bloccati sulla via della Francia. Nessuna notizia anche martedì, fino alle decisioni di mercoledì 23 pomeriggio di permettere il rimpatrio, a precise condizioni. Peraltro, anche nell’aprire i confini ai voli da Londra, il nostro governo si è ben guardato dall’agevolare i propri connazionali ai quali aveva immotivatamente sconvolto la vita: «Si segnala – scrive il sito dell’ambasciata italiana a Londra – che i voli saranno di tipo commerciale, pertanto i biglietti saranno acquistabili direttamente tramite le compagnie aeree e non attraverso Ambasciata o Consolato Generale, presso i quali non sono quindi previste liste di prenotazione». Cioè: arrangiatevi a ricomprarvi i biglietti.

Un’ultima criticità riguarda le condizioni per il rimpatrio: bisogna essere residenti in Italia da prima del 23 dicembre oppure avere “un motivo di assoluta necessità” da autocertificare. Il che appare ancora una volta singolare: se un cittadino italiano ha preso la residenza nel Regno Unito perde i suoi diritti di cittadino italiano?

Altrettanto discutibile la condizione sanitaria: test anti Covid (ovviamente negativo), prima dell’imbarco, test all’arrivo in Italia. E fin qui tutto bene, all’insegna della “massima prudenza”. Ma che cosa dire dell’obbligo di isolamento per 14 giorni “a prescindere dall’esito del test”? Sono presunti colpevoli anche se hanno due test negativi a distanza di pochi giorni?

Di slogan in slogan, si è passati da febbraio con “abbraccia un cinese” a dicembre con “Dio stramaledica gli inglesi”. Peccato che siano cittadini italiani.

Buon Natale. Anche alla perfida Albione.

Post scriptum

Il giorno dopo essere tornati con due tamponi negativi (prima della partenza e all’arrivo nell’aeroporto italiano) i malcapitati cittadini italiani di serie B rientrati dal Regno Unito vengono contattati dalla Asl per eseguire un nuovo tampone. Il motivo? «Per maggiore sicurezza, controllare la diffusione della variante inglese», bla bla bla. Ma almeno un ulteriore tampone negativo (il terzo) cancella l’obbligo di quarantena? «No, quella resta». Beh, almeno a quest’ultima presa in giro i cittadini italiani di serie B hanno potuto sottrarsi (quelli di serie C, purtroppo, sono tuttora bloccati nel Regno Unito).

Fratel Elio Croce, una vita donata al Signore e al popolo dell’Uganda

Nel trigesimo della morte, fratel Elio Croce ricordato da Dominique Corti, presidente della Fondazione Corti onlus. Il mio articolo è stato pubblicato su Avvenire nelle pagine di Catholica

<p value=”<amp-fit-text layout=”fixed-height” min-font-size=”6″ max-font-size=”72″ height=”80″>Fratel Elio Croce, missionario comboniano trentino morto l’11 novembre all’ospedale governativo di Kampala (Uganda) per il Covid-19, ora riposa nell’area al centro del <a href=”http://www.lacorhospital.org/&#8221; target=”_blank” rel=”noreferrer noopener”>St. Mary’s Hospital Lacor</a> di Gulu che ospita le tombe dei fondatori dell’ospedale, i coniugi medici Piero Corti e Lucille Teasdale, e quella di Matthew Lukwyia, il medico ugandese che perì nell’epidemia di Ebola nel 2000. <br>Di fratel Elio ha un mare di ricordi Dominique Corti, figlia dei fondatori e presidente della <a href=”https://fondazionecorti.it/&#8221; target=”_blank” rel=”noreferrer noopener”>Fondazione Corti onlus</a>, che sostiene l’attività dell’ospedale: «Quando nel 1985 arrivò al Lacor dall’ospedale di Kitgum, dove si trovava dal 1971 – racconta Dominique Corti – qualcuno avanzò il dubbio che due personalità forti come la sua e quella di mio padre potessero scontrarsi. Invece fu amore a prima vista: papà pensava in grande e cercava i fondi, Elio era la mano che realizzava i progetti. Al Lacor non c’è costruzione che non sia stata realizzata o ampiamente ristrutturata da lui. Condividevano la stessa totale dedizione alla popolazione».Fratel Elio Croce, missionario comboniano trentino morto l’11 novembre all’ospedale governativo di Kampala (Uganda) per il Covid-19, ora riposa nell’area al centro del St. Mary’s Hospital Lacor di Gulu che ospita le tombe dei fondatori dell’ospedale, i coniugi medici Piero Corti e Lucille Teasdale, e quella di Matthew Lukwyia, il medico ugandese che perì nell’epidemia di Ebola nel 2000.
Di fratel Elio ha un mare di ricordi Dominique Corti, figlia dei fondatori e presidente della Fondazione Corti onlus, che sostiene l’attività dell’ospedale: «Quando nel 1985 arrivò al Lacor dall’ospedale di Kitgum, dove si trovava dal 1971 – racconta Dominique Corti – qualcuno avanzò il dubbio che due personalità forti come la sua e quella di mio padre potessero scontrarsi. Invece fu amore a prima vista: papà pensava in grande e cercava i fondi, Elio era la mano che realizzava i progetti. Al Lacor non c’è costruzione che non sia stata realizzata o ampiamente ristrutturata da lui. Condividevano la stessa totale dedizione alla popolazione».

Il suo incarico al Lacor era quello di direttore tecnico: «Fratel Elio aveva capacità incredibili, affinate dalla lunghissima esperienza in Africa: non solo progettava, ma dirigeva i lavori in cantiere e sapeva fare manutenzione. Era difficile stargli dietro, ma ha allevato squadre di operai locali a eseguire lavori a regola d’arte: perché soprattutto dove le risorse sono scarse, la buona volontà non basta, ci vogliono competenza e capacità. Ha costruito padiglioni ospedalieri, scavato pozzi, impiantato attività tecniche e agricole. Persino la grande chiesa poco lontana dall’ospedale, dedicata a san Daniele Comboni, è opera sua, eretta quando apparve chiaro che la piccola cappella del Lacor era insufficiente. Adesso avevamo intenzione di ristrutturare le casette del personale e saremo in difficoltà, perché ci vorranno tre persone per coprire le sue competenze».

Fratel Elio Croce ha vissuto tutte le vicende, anche le più tragiche, degli acholi, la popolazione che abita questa regione dell’Uganda: dalle crudeli lotte tribali all’Ebola, come testimoniano i suoi Diari di guerra e di pace (1996-2004), pubblicati nel 2016. «È stato non solo un costruttore di edifici, ma anche di pace – sottolinea Dominique Corti –. Un eroe non con le spade, uno di quelli che fanno il bene per aiutare il prossimo, a 360 gradi: quando vedeva un bisogno, partiva per portare il suo aiuto, senza mai tirarsi indietro, nonostante rischi e pericoli. In questo modo aveva “ereditato” da Bernardetta la gestione del St. Jude Children’s Home, casa e scuola per bambini orfani e/o con disabilità, e lo sosteneva grazie alla sua capacità di raccogliere fondi».

In tutte le opere, a maggior ragione in quelle di carità, fratel Elio era sostenuto da una fede profonda: «Anche in questo era una roccia, e sosteneva che la Provvidenza porta avanti le sue opere attraverso le persone che trova, e questo valeva anche per il St. Jude Children’s Home: “Se ci fidiamo e manteniamo questo spirito – diceva – penso che la Provvidenza non ci abbandonerà”». Tanta generosità gli è valsa infinita riconoscenza: «Nell’ultimo suo messaggio whatsapp che ho ricevuto il 22 ottobre – conclude Dominique Corti – quando era già da diversi giorni ricoverato in terapia intensiva, Elio mi ha scritto che si sentiva meglio (confesso di aver sperato che ce la facesse) e aveva mangiato verdura e burro di arachidi, una ricetta locale preparata da due donne acholi che aveva incontrato in ospedale. E una di queste lo aveva ringraziato perché fratel Elio le aveva pagato le scuole per sette anni e così aveva potuto diventare maestra. Una tra le migliaia di bambini ai quali aveva contribuito a dare un futuro».