In Tauride la salvezza «rocambolesca» degli ultimi Atridi

Ifigenia in Tauride messa in scena nella primavera 2022 al teatro greco di Siracusa era solo alla terza rappresentazione nelle stagioni di spettacoli classici della Fondazione Inda (Istituto nazionale del dramma antico). Euripide riprende e riforma alcune vicende della versione principale dei miti relativi agli Atridi, con la salvezza degli ultimi eredi. Nell’Agamennone, Eschilo fondava parte del risentimento che spingeva Clitemenestra a uccidere il marito, al rientro da Troia, sul sacrificio della figlia Ifigenia che lo stesso comandante aveva voluto per propiziare la partenza della spedizione dei greci dall’Aulide. In questa tragedia invece, Euripide immagina che la dea Artemide abbia misteriosamente salvato Ifigenia, sostituendola con una cerva sacrificata al suo posto sull’altare e trasportandola nella lontana Tauride (l’odierna Crimea). Una conclusione a cui Euripide terrà fede nella sua più tarda Ifigenia in Aulide. Il testo dell’Ifigenia in Tauride risale agli anni tra il 414 e il 411 ed è discusso tra gli studiosi se sia precedente o successiva a quello dell’Elena, che ha un impianto narrativo simile. Può vantare diverse citazioni nella Poetica di Aristotele, che ne lodava l’intreccio (1455b), ma apprezzava solo a metà la scena del duplice riconoscimento tra i fratelli Ifigenia e Oreste. Questa versione del mito ottenne interesse in molti drammaturghi in epoca moderna, compreso Johann Wolfgang Goethe.

La tragedia si apre con il racconto di Ifigenia (Anna Della Rosa) che, indossando significativamente una maschera con muso e corna di cerva, riferisce la sua storia e il suo arrivo in Tauride: qui il compito della fanciulla era di essere sacerdotessa al tempio della dea Artemide, presiedendo i riti di sacrificio a cui per legge dei Tauri erano destinati gli stranieri catturati. Una schiera di schiave, anch’esse greche, le sono ancelle e costituiscono il coro. A questa terra lontana approdano Oreste (Ivan Alovisio) e l’amico Pilade (Massimo Nicolini) perché devono impossessarsi della statua di culto di Artemide custodita nel santuario di cui Ifigenia è sacerdotessa. Anche in questo caso Euripide “riforma” la versione eschilea, che aveva fatto assolvere Oreste dal delitto di matricidio dal tribunale ateniese dell’Areopago grazie al voto decisivo di Atena. Secondo Euripide questo processo non esauriva la pena per Oreste: alcune Erinni non avrebbero accettato il verdetto e avrebbero continuato a perseguitare Oreste. Di qui la richiesta di Apollo di recarsi in Tauride per riportarne il simulacro di Αrtemide.

I due inseparabili amici giunti in Tauride si accorgono dell’estrema difficoltà dell’impresa e rabbrividiscono al vedere il tempio a cui sono appesi i resti degli stranieri uccisi, secondo un rituale macabro. In più vengono presto catturati dopo una breve lotta riferita da un mandriano (Alessio Esposito). Per ordine del re Toante, sono condotti dalla sacerdotessa per le purificazioni necessarie prima di essere offerti in sacrificio. Ifigenia, che all’inizio della tragedia lamentava la sua nostalgia della Grecia e temeva che un sogno oscuro le avesse rivelato la morte del fratello Oreste, viene turbata dalla sorte dei due giovani greci. Ignorando la scia di sangue che aveva invaso la casa paterna, pensa di utilizzare uno dei due prigionieri per i suoi scopi: vuole salvarlo perché svolga un’ambasceria ad Argo in suo favore. Oreste e Pilade si rimpallano con generosità reciproca il diritto di scampare la morte: alla fine la lettera di Ifigenia viene consegnata a Pilade perché la porti in patria. Oreste è destinato a perire.

A questo punto avviene la scena del duplice riconoscimento. Infatti per essere sicura che Pilade porti a termine la missione anche se per un naufragio perdesse la lettera, Ifigenia gliene legge il contenuto. Grande è la sorpresa di Oreste che capisce di avere davanti a sé la sorella che credeva morta. A sua volta descrivendo la stanza di Ιfigenia giovinetta nel palazzo di Αrgo, la convince di essere il fratello da lei rimpianto. Secondo Aristotele (1454b), mentre il primo riconoscimento è molto ben riuscito, del secondo non si può dire altrettanto perché «non esce dal racconto» in modo spontaneo, come faceva il testo del “sofista Poliido” (1455a) che metteva in bocca a Oreste il lamento per essere sul punto di essere sacrificato come la sorella. Che a questo punto lo riconosceva.

La trama cambia direzione: ora Ifigenia e Oreste, con Pilade, condividono gli stessi obiettivi e studiano il modo di tornare in Grecia, portando con sé la statua di Artemide, senza cadere nelle mani dei Tauri. È la sacerdotessa a escogitare lo stratagemma decisivo per ingannare il re Toante, sfruttando il matricidio di Oreste: dirà che deve portare la statua a purificare perché è stata toccata dal greco, ancora impuro per il matricidio. Toante (Stefano Santospago), che inorridisce di fronte a un tale delitto («Nemmeno un barbaro farebbe una cosa simile» sottolinea), le concede di recarsi in riva al mare a compiere la purificazione, e accetta tutte le condizioni poste da Ifigenia, che cerca di rendere la fuga il più possibile sicura. Un messaggero (Rosario Tedesco) torna per avvisare Toante che gli stranieri sono fuggiti con l’inganno, e lo incita a inseguirli perché il vento sta rispingendo verso la riva la loro nave. Toante, dopo aver minacciato le schiave greche del tempio, ritenute complici, si prepara a inseguire i greci, ma interviene la voce di Atena che gli intima di desistere, spiegando che la fuga è approvata dagli dei. E poi incarica i due giovani Atridi della fondazione di due nuovi culti ad Artemide in Attica: ad Ale per Oreste, e a Brauron per Ifigenia, destinata a rimanere per sempre sacerdotessa della dea. Infine prefigura il rientro in Grecia anche delle altre schiave.

Il regista Jacopo Gassman parla dell’Ifigenia in Tauride come di «un testo intriso di domande e contraddizioni» e dalla «natura stilisticamente ibrida». Da scura e inquieta diventa la narrazione di una «fuga rocambolesca» ritiene «la Tauride di Euripide, un portentoso labirinto della mente, un paesaggio lunare e metafisico costellato di enigmi». E dove – dopo il riconoscimento tra i fratelli – Ifigenia «riappropriarsi di sé» e a compiere «un vero e proprio viaggio di liberazione e di emancipazione». La scenografia presenta un parallelepipedo che rappresenta il tempio di Artemide, davanti al quale si trova la vasca lustrale per la preparazione delle vittime sacrificali. E alcuni oggetti simbolici custoditi in teche trasparenti: in primo piano, una cerva evidente richiamo all’animale ucciso al posto di Ifigenia. Altri (toro, agnello: meno comprensibili), spiega lo scenografo Gregorio Zurla, sono sempre presenti a metà: «una forma che ci fa sospettare della veridicità di quello che vediamo». Un modo per assecondare la scelta registica di muoversi «tra finzione e realtà». Tanta “oniricità” non mi pare del tutto aderente agli intenti di Euripide, che pur trasportando la vicenda in un mondo lontano dalla Grecia, mantiene chiaro il senso della missione di Oreste e il dolore per l’isolamento che vive Ifigenia, lontana dalla patria, pur essendo scampata alla morte in Aulide. Pietà e paura, che Aristotele voleva producesse nella mimesi il testo tragico (1453b), sono presenti in abbondanza nell’Ifigenia in Tauride, anche se la vicenda si conclude senza ulteriore spargimento di sangue.

La «messa in discussione del mito» si traduce in una contaminazione con oggetti «contemporanei, appartenenti al contesto teatrale moderno» conclude Zurla. Vediamo infatti i microfoni che servono alle componenti del coro, fino ai protagonisti che riappaiono in abiti moderni seduti in un’ipotetica sala teatrale. Una “svolta” francamente che però pare snaturare il contesto, e appare poco comprensibile. Così come la proiezione sul tempio dei versi finali della tragedia convince a metà: se appare efficace per riferire con una voce fuori campo le parole di Atena, che viene così percepita senza essere vista, amplificando l’effetto della divinità che impone il suo volere, meno motivato mi pare il seguito, con le battute del coro e dello stesso Toante, che compaiono scritte mentre vengono pronunciate dagli attori sulla scena.

Convincenti gli attori, a partire da Anna Della Rosa (già a Siracusa come Elettra nel 2021 e Antigone nel 2017), Stefano Santospago e la coppia di amici Oreste-Pilade (Ivan Alovisio e Massimo Nicolini). Meno apprezzabili mi sono parsi i costumi di Gianluca Sbicca: non per la foggia ma per i colori, che vanno dal bianco al nero, passando per molte sfumature di grigi. Ridurre la gamma cromatica mi pare diventata una tendenza che si ripete negli anni (penso che fosse l’unico difetto dell’Edipo a Colono messo in scena nel 2018), ma continua a non piacermi.

Come spiega Anna Beltrametti nella sua edizione di Euripide (Millenni, Einaudi, 2002), il poeta tragico non accetta l’assoluzione “politica” di Oreste di eschilea memoria, e pretende un rapporto tra gli uomini e gli dei scevro da menzogne. Osservo poi che, come già in altri drammi, Euripide non fa sconti ai suoi connazionali: se i sacrifici umani in Tauride paiono agghiaccianti, i greci si sono resi responsabili dell’uccisione di una fanciulla innocente come Ifigenia, e Oreste viene perseguitato in quanto matricida. E la madre Clitemnestra aveva ucciso il marito. Infine attribuire alla dea ex machina una funzione convenzionale (come sostiene Giorgio Ieranò, autore della traduzione limpida e moderna) mi pare insufficiente. Proprio la sua “inutilità” (i giovani Atridi avrebbero potuto salpare e basta) deve interrogarci, perché dimostra che Euripide ha “voluto” introdurre la figura di Atena che conclude il dramma, per sottolineare l’origine di due culti attici: forse una captatio benevolentiae verso un pubblico, quello di Atene, che non lo amava molto?

La rinascita del teatro greco a Siracusa in una mostra. E in un romanzo “dannunziano”

Ad accompagnare la stagione 2021 degli spettacoli classici al teatro greco di Siracusa (ma anche quella 2022), l’Istituto nazionale del dramma antico (Inda) ha dato vita a una mostra storica – che resterà aperta fino al 30 settembre prossimo – intitolata “Orestea: atto secondo”. Il tema è una rievocazione del secondo spettacolo realizzato a Siracusa: infatti nel 1921, sette anni dopo la prima rappresentazione assoluta (Agamennone), furono portate sul palcoscenico le Coefore, la seconda tragedia della trilogia Orestea di Eschilo. E analogamente a un secolo fa, quando gli spettacoli classici ripresero vita dopo l’interruzione causata dalla Prima guerra mondiale e dall’epidemia di Spagnola, nel 2021 l’Inda – dopo la forzata interruzione del 2020 decisa dal governo per la pandemia di Covid-19 – ha messo in scena CoeforEumenidi, che completano la trilogia eschilea.


La mostra si divide in due parti: la prima è una ricostruzione storica dei protagonisti di quegli anni, ricca di documenti: lettere, spartiti musicali, disegni e verbali di riunioni; la seconda, multimediale, permette di vedere foto originali e – grazie alla tecnologia – un filmato di quella storica rappresentazione. L’idea per la mostra – progetto di Carmelo Iocolano, coordinamento di Marina Valensise, consigliere delegato dell’Inda, e supervisione del regista Davide Livermore –, è partita dalle foto inedite che il giovane fotografo siracusano Angelo Maltese (1896-1978) realizzò nel 1921 documentando la rappresentazione di Coefore. Oltre a svolgere un ruolo di supporto per la realizzazione di locandine e manifesti che, insieme con le immagini degli attori, erano utili per far conoscere gli spettacoli e attirare pubblico a Siracusa. Una selezione di 44 foto di Maltese, che comprendono gli attori della compagnia di Emilia Varini (che interpretò Clitemnestra), Ettore Berti (Oreste) e Giuseppe Masi (Egisto), ma anche le giovani siracusane scelte per il coro, introducono alla sala in cui il progetto multimediale prende vita: grazie alla realtà aumentata, Alain Parroni colora e mette in movimento le immagini che si trasformano in un filmato, che riporta lo spettatore indietro di un secolo. Si assiste quindi a uno spezzone suggestivo dello spettacolo, tra le scenografie di Duilio Cambellotti, realizzate dalla Regia Scuola d’arte applicata all’industria diretta da Giovanni Fusero, mentre si ascoltano i cori eseguiti dagli allievi dell’Accademia d’arte del dramma antico (Adda) dell’Inda sulle musiche originali di Giuseppe Mulè. Il tutto viene accompagnato dalla recita, da parte di Stefano Santospago, di un brano del discorso pronunciato a Siracusa dall’ex presidente del Consiglio, il palermitano Vittorio Emanuele Orlando, che espresse il suo sostegno all’iniziativa siracusana.

Ma non minore interesse rivestono i documenti della prima parte dell’esposizione, che rendono conto della frenesia del lavoro del Comitato per le rappresentazioni classiche, della tenacia di Gargallo e della quantità di ostacoli da superare perché il successo del 1914 non rimanesse un isolato, per quanto splendido, ricordo. Leggiamo per esempio, nella lettera di Mario Tommaso Gargallo al cugino Ugo Bonanno dell’11 ottobre 1920, a proposito dei suoi concittadini: «Mi duole sapere che tutti si disinteressano di quel movimento da noi iniziato che dovrebbe tornare a far di Siracusa una città intellettuale». E, con notevole lungimiranza, aggiungeva: «Bisogna che si comprenda che noi facciamo qualcosa di grande, che il nostro tentativo tende in ultima analisi all’innalzamento morale di Siracusa e della Sicilia che ove si istituisca l’Istituto per la Tragedia Antica una corrente di studii affluirà a Siracusa». Non mancano i particolari curiosi, come la lamentela di Gargallo per il fatto che Romagnoli era «un uomo la cui venalità è enorme» (lettera del 9 giugno 1920 a Francesco Caffo, segretario del Comitato). O la raccomandazione del Sopraintendente agli scavi per la Sicilia orientale, Paolo Orsi, di non praticare alcun buco in nessuna parte del teatro, o la richiesta dello stesso, che era anche direttore del Museo archeologico, di una lettera di libero ingresso a un rappresentante della Sopraintendenza, e ai suoi collaboratori, dai custodi del museo al disegnatore Rosario Carta. Altrettanto significativa la lettera che il Comitato per le rappresentazioni classiche invia l’11 gennaio 1921 a Romagnoli, mentre Gargallo è a Palermo per prendere accordi con la stampa «onde svolgere nei futuri mesi una larga propaganda in Sicilia» mentre è «molto preoccupato della stampa del Settentrione, sulla quale non ha che scarsa influenza». Pertanto al grecista viene rivolta «viva preghiera perché voglia interporre i Suoi buoni uffici presso il Corriere della Sera, la rivista “La Lettura”, ed altri importanti giornali per una benevola propaganda e per la pubblicazione di buoni articoli, di tanto in tanto, cui Ella dovrebbe dare il Suo interessamento». Dopo gli spettacoli, tra le relazioni entusiaste per il successo e le lettere di ringraziamenti, mi piace segnalare quella del 13 maggio 1921 di Giovanni Fusero che, in risposta ai complimenti ricevuti da Gargallo, si schermisce per la sua “modesta opera”. Peraltro a riconoscimento della qualità della scenografia, di cui sono in mostra un bozzetto e un modello, il Comitato per le rappresentazioni classiche decise di fare un dono allo stesso Fusero e di gratificare 12 allievi della Scuola d’arte con premi in denaro, da 20 a 120 lire.

Gargallo, còrego sognatore del ventesimo secolo

La figura di Gargallo è protagonista anche di un romanzo storico pubblicato da Morellini editore: I fantasmi di Dioniso. Mario Tommaso Gargallo e il sogno del Teatro Classico a Siracusa. Ne è autrice Giovanna Strano, dirigente scolastico di un istituto superiore, che ricostruisce la figura di questo nobiluomo siciliano, che si fece promotore del recupero del teatro greco di Siracusa, quale sede della rappresentazione di spettacoli classici, e diede origine all’antenato dell’Istituto nazionale del dramma antico (Inda). La vita non mancherà di riservargli amarezze quando fu di fatto estromesso dalla gestione della sua “creatura”, ma i suoi meriti sono indubitabili e grandissimi.

Discendente di Tommaso Gargallo, letterato siracusano noto nell’Ottocento soprattutto quale traduttore di Orazio, Mario Tommaso – futuro marchese di Castel Lentini – rimase presto orfano di padre, ma fu educato dalla madre, assieme al fratello maggiore Filippo, all’amore per l’arte. Anche grazie al suo carattere «risoluto e diretto» – scrive l’autrice – divenne un perfetto imprenditore culturale, quando maturò l’idea di riportare Siracusa ai lustri del passato grazie al recupero della tradizione del teatro classico. Gli fu d’aiuto nell’impresa il grande lavoro dell’archeologo trentino Paolo Orsi, direttore del Museo archeologico di Siracusa dal 1888, artefice di un’enorme opera di valorizzazione dei beni archeologici del territorio della Sicilia orientale, nonché del recupero del patrimonio artistico medievale, come Palazzo Bellomo. In particolare, il teatro greco era diventato un’area che, per la presenza di sorgenti di acque sul colle Temenite, veniva utilizzata dalle lavandaie e dai mulini, fatti costruire dai possidenti siracusani. E diventava anche area di pascolo per il bestiame, e le grotte circostanti venivano usate come stalle.

Mario Tommaso Gargallo – racconta Giovanna Strano – fece studi privati e si dilettava di fare lo scultore. Ma soprattutto, ancora molto giovane, maturò un grande interesse per il teatro. Frequentò a Firenze il circolo di letterati che – intorno a Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli – diede vita alla rivista Il Marzocco, ed ebbe modo di assistere alle esibizioni di Eleonora Duse e alle prime rappresentazioni di drammi antichi, messi in scena al teatro romano di Fiesole. Altro incontro cruciale fu quello con il grecista Ettore Romagnoli, impegnato a far riemergere una lettura del teatro antico filologicamente corretta. Questi stimoli suscitarono e rafforzarono in lui l’idea di riportare a nuova vita il teatro greco di Siracusa, che vide le rappresentazioni di Eschilo e di Epicarmo.

In patria riuscì a vincere le resistenze e gli interessi diversi che ostacolavano la nascita di un progetto tanto innovativo, anche grazie al peso della sua famiglia nobile, e con il sostegno di Paolo Orsi. Nel romanzo c’è spazio anche per il disegnatore Rosario Carta (ma perché chiamarlo Mario?), fido assistente dell’archeologo, a cui è stata dedicata una mostra a Siracusa nel 2017. Il grande merito di Gargallo, osserva opportunamente Strano, fu di fungere da catalizzatore o, come diceva egli stesso ispirandosi all’antica Atene, da còrego, cioè da finanziatore degli spettacoli pubblici. Si inebriò del suo sogno (fino a vaneggiare di «messe a Dioniso» che scandalizzavano l’arcivescovo) ma seppe tradurlo in realtà, mantenendo la calma anche di fronte alle provocazioni dei futuristi, scesi a Siracusa con la volontà di rovinare una manifestazione che richiamava le tradizioni del passato remoto. Coinvolto ufficialmente Ettore Romagnoli per la traduzione e le musiche, reclutati gli attori e lo scenografo Duilio Cambellotti, messi al lavoro gli allievi della Regia Scuola d’Arte per l’Industria per la realizzazione dell’allestimento, spinta attraverso varie vie la pubblicità dell’evento, finalmente il 16 aprile 1914, il teatro greco di Siracusa ospitava nuovamente una tragedia: l’Agamennone di Eschilo, di fronte a un pubblico eterogeneo quanto caloroso.

Ma la storia riservava un’altra salita: la prima guerra mondiale e l’epidemia di Spagnola interruppero subito la neonata iniziativa. Fu ancora merito di Gargallo, con la compagnia di quanti l’avevano sostenuto nella prima impresa, se nel 1921 gli spettacoli poterono riprendere (come testimonia la mostra dell’Inda) e diventare una tradizione. Il successo tuttavia attirò l’attenzione del regime fascista, che pensò di centralizzare a Roma la regia delle manifestazioni, trasformando il Comitato nell’Istituto nazionale del dramma antico: da un lato garanzia di un ruolo di primaria importanza, dall’altro espropriazione dei siracusani – e di Gargallo in particolare – della gestione delle attività.

Alla storia “ufficiale” il romanzo affianca notizie e interpretazioni della vita privata di Mario Gargallo e della sua famiglia. Qui, accanto a notizie sul matrimonio poco felice, l’autrice sparge pagine “dannunziane” con avventure erotiche del protagonista (con una ballerina immaginaria) e divagazioni oniriche di non evidente interpretazione. È la parte caduca di un libro per il resto apprezzabile, che rievoca una stagione e un personaggio che ebbero un ruolo decisivo per lo sviluppo degli spettacoli all’aperto al teatro di Siracusa. Se dopo un secolo possiamo ancora assistere a rappresentazioni classiche nell’incanto della cavea del colle Temenite, lo dobbiamo certamente in massima parte a Mario Tommaso Gargallo.

Baccanti, la vendetta crudele dell’ambiguo Dioniso

Le Baccanti di Euripide sono una delle tragedie più rappresentate al teatro greco di Siracusa: questa di Carlus Padrissa, della compagnia teatrale spagnola La Fura dels Baus, è infatti la loro settima apparizione nei cicli realizzati dall’Istituto nazionale del dramma antico (Inda), solo Agamennone e Coefore di Eschilo ne hanno avute di più. L’ultima tragedia a noi nota – opera di un Euripide già trasferitosi in Macedonia, anche se rappresentata postuma dal figlio ad Atene, probabilmente nel 403 a.C. – ci riporta alle origini del teatro greco, a quel Dioniso a cui erano dedicate le rappresentazioni, inserite com’erano nelle feste delle Grandi Dionisie e messe in scena ad Atene nel teatro, appunto, dedicato a Dioniso. È anche l’unica tragedia che ci è giunta in cui un dio è protagonista assoluto della scena: è figlio di Zeus e della tebana Semele, che – incinta e ingannata da Era – chiede improvvidamente al signore degli dei di mostrarsi nel suo pieno splendore, e viene incenerita dal fulmine. Tuttavia Dioniso viene salvato da Zeus che se lo cuce nella coscia fino al momento della nascita.


La storia delle Baccanti di Euripide è semplice quanto terrificante. Dopo essersi fatto conoscere in Oriente, Dioniso (Lucia Lavia) giunge a Tebe, dove si manifesta sotto forma di un uomo bello ed effemminato, seguace del dio. Questo straniero vuole convincere i concittadini di Semele a rendere il culto dovuto a Dioniso, che nel prologo si è detto a vendicarsi in caso contrario. Ma né le sorelle di Semele, né tanto meno il re Penteo (Ivan Graziano), nipote di Cadmo (Stefano Santospago), sono disposti a riconoscere la loro parentela con Dioniso e la sua divinità: ritengono che Semele abbia millantato l’amore con Zeus per nascondere una relazione con un uomo. Dioniso intanto, accompagnato da un seguito di baccanti dalla Frigia, ha fatto uscire di senno tutte le donne di Tebe e le spinge a svolgere i suoi riti sul monte Citerone.

Penteo non intende ascoltare gli inviti alla prudenza che l’indovino Tiresia (Antonello Fassari) e il nonno Cadmo gli rivolgono, convinti che – almeno per precauzione – sia più opportuno adeguarsi al nuovo culto, anche se non ci credono. Il re intende porre fine con la forza alla situazione, che ritiene frutto di irrazionalità e – soprattutto – di immoralità, supponendo che le donne sul Citerone siano solo preda di istinti sessuali disordinati, che sovvertono l’ordine cittadino.

Catturato lo straniero, Penteo vorrebbe punirlo, ma deve assistere impotente al suo incredibile liberarsi senza fatica, cui segue la distruzione della reggia per un terremoto. Nonostante i segni evidenti, e il racconto straordinario di come le donne sul monte vivano in uno stato di pace con la natura, salvo diventare sanguinarie assassine nel caso vengano disturbate, Penteo non vuole – razionalmente – accettare il culto di Dioniso. Tuttavia – cadendo nella rete tesagli dallo straniero/Dioniso – cede alla tentazione morbosa di spiare i riti che le tebane stanno celebrando lontano dalla città, e – ormai privato di senno dal dio – accetta di travestirsi da donna nell’illusione di potersi così confondere tra le baccanti. Condotto sul Citerone da Dioniso, è destinato invece a essere preda della furia delle baccanti che, invasate dal dio, lo scambiano per un leone: proprio la madre Agave (Linda Gennari), sorella di Semele, dà il via allo squartamento del figlio Penteo, la cui testa viene conficcata su un tirso. Rientrata a Tebe trionfante, con il padre Cadmo rientra in sé e riconosce l’atrocità della punizione subita da Dioniso. Che aveva detto di Penteo, prima della catastrofe: «Essendo un uomo, ha osato battersi con un dio».

La rappresentazione di Padrissa è coinvolgente e “sfrutta“ l’ambiente aperto del teatro di Siracusa per distribuire le baccanti nell’ampia cavea, creando un’immersione nello spettacolo. La scena resta piuttosto scarna, ma arricchita da alcuni “effetti speciali”: una gigantesca figura umana “partorisce” Dioniso, mentre una macchina teatrale – che richiama quella del deus ex machina – viene utilizzata per rappresentare balletti aerei di una parte del coro. Una gigantesca struttura che rappresenta una testa, che si apre a metà e rappresenta il palazzo reale di Penteo, viene richiamata anche nella sua corona, simbolo del suo strenuo razionalismo.

Lucia Lavia, con una interpretazione eccellente, dà vita a un personaggio multiforme e indecifrabile, capace di esprimere ira, dolore, seduzione, astuzia e inganno, che le è valso il premio “Siracusa teatro stampa” (ben più meritato rispetto a quello assegnatole per l’Ifigenia in Aulide nel 2015). Convincono anche Stefano Santospago, che spiega l’albero genealogico della sua parentela, intenerendosi al pensiero della moglie Armonia (con una citazione di Franco Battiato, scomparso a maggio) e Antonello Fassari che ben rappresenta l’ipocrisia di chi non crede, ma si adegua. Poco autoritario Ivan Graziano nella parte del tiranno, molto più ispirato quando si adegua al volere di Dioniso, travestendosi da donna. Un’intensa Linda Gennari dà vita all’angoscia di Agave quando torna in sé, scoprendo l’orrore del suo delitto. Una certezza le capocoro, Elena Polic Greco e Simonetta Cartia, apprezzabili i messaggeri, Spyros Chamilos, Francesca Piccolo e Antonio Bandiera.

Discorso a parte è la rappresentazione del coro: estremamente spettacolari le danze aeree della parte del coro issata dalla gru, un magnifico ornamento, che esprime la pace della vita dionisiaca e dei suoi riti. Il coro che agisce sulla scena, definito da Padrissa “coro dei cittadini” (estraneo al testo euripideo, a volte simile a contemporanei manifestanti urbani), dà voce alle caratteristiche più tipiche del dionisismo (le danze sfrenate) ma anche sorprendenti («il sapere non è saggezza») e rivendica insieme al tempo stesso «la vita tranquilla», «il piacere del vino che libera dal dolore» e il desiderio di recarsi a Cipro o nella Pieria, dove «sono lecite le orge delle baccanti». La traduzione di Guido Paduano dà conto della «ambivalenza radicale dell’ideale idillico della pace e quello illimitato della violenza».

«La religione di Dioniso non fu mai rappresentata così suggestivamente nella sua enigmatica polarità», scrive Albin Lesky nella sua Storia della letteratura greca, premettendo che «nessun altro dramma di Euripide è stato oggetto di interpretazioni così contrastanti». E com’è noto, a partire dalla Nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche, anche se dapprima respinto, l’aspetto dionisiaco della religiosità dei greci in contrapposizione a quello apollineo ha influenzato significativamente gli studi sul teatro tragico. Un utile compendio della acuta disputa – a fine Ottocento – tra Nietzsche e Ulrich von Wilamowitz-Moellendorf si trova nelle pagine di Gherardo Ugolini nell’opera a più mani Storia della filologia classica (a cura di Ugolini e Diego Lanza, Carocci editore), che ricorda la valorizzazione molto “postuma” che il dionisiaco ha ottenuto tra gli studiosi dell’antichità, soprattutto – direi – «la considerazione della cornice religioso-cultuale degli spettacoli tragici». E alle feste dionisiache come «opera d’arte totale» (come nella tradizione della Fura dels Baus), nonché all’interpretazione di Nietzsche si richiama esplicitamente Padrissa, nelle sue note di regia, sentendosi in dovere di giustificare anche la scelta di una donna, per interpretare Dioniso, maschio, ma dio dell’ambiguità per eccellenza. Del resto «la scena moderna ha sciolto molti nodi del teatro antico, non l’enigma delle Baccanti» osserva Margherita Rubino (docente di Teatro e drammaturgia dell’antichità all’Università di Genova e componente del consiglio di amministrazione dell’Inda). Il fascino della lettura di Padrissa a Siracusa resterà comunque nella memoria.

A Siracusa un Eschilo trasfigurato (e pasticciato)

Dopo l’assenza forzata dell’anno scorso, conseguenza delle restrizioni decise dal governo per fronteggiare la pandemia di Covid-19, l’estate del 2021 ha visto la ripresa degli spettacoli classici al Teatro greco di Siracusa. Il 56° ciclo messo in scena dall’Istituto nazionale del dramma antico (Inda) ha leggermente modificato il programma annunciato nel 2020. Al posto dell’Ifigenia in Tauride di Euripide (rimandata al 2022) è stata realizzata la rappresentazione di CoeforEumenidi di Eschilo in coproduzione con il Teatro nazionale di Genova, diretto da Davide Livermore, che ne firma la regia a Siracusa. È una scelta che si ricollega al 1921, quando le Coefore furono messe in scena dopo l’interruzione dovuta alla prima guerra mondiale e all’epidemia di Spagnola (allo stesso modo l’Orestea monopolizzò il cartellone alla ripresa del 1948, dopo la pausa dovuta alla seconda guerra mondiale). Le Baccanti di Euripide, con la regia di Carlus Padrissa, e le Nuvole di Aristofane, con la regia di Antonio Calenda, sono gli altri due spettacoli andati in scena tra luglio e agosto, e che erano previsti già nel 2020. A sottolineare il richiamo al 1921 è stata allestita una mostra nella sede dell’Inda a Palazzo Greco, che rievoca con foto e materiali d’epoca quella storica rappresentazione e di cui scriverò a parte. Inutile cercare un filo rosso fra i tre spettacoli: Coefore ed Eumenidi fanno parte della grandiosa trilogia dell’Orestea, ultimo grande trionfo negli agoni tragici ad Atene di Eschilo nel 458 a.C., prima del suo trasferimento in Sicilia. Le Baccanti, pur essendo l’ultima tragedia rappresentata ad Atene (403) di cui abbiamo il testo si richiama all’origine stessa delle tragedie, a quel culto di Dioniso che caratterizzava le feste in cui si rappresentavano le opere teatrali. Nelle Nuvole (423) il giovane Aristofane prende di mira un Socrate “sofista” con accuse molto simili a quelle che 24 anni dopo ne determinarono la condanna a morte.

Coefore ed Eumenidi completano l’Orestea, dopo l’Agamennone, che racconta l’uccisione del comandante della spedizione greca a Troia, da cui torna vittorioso accompagnato dalla concubina Cassandra, la figlia del re Priamo. A differenza di quanto narra Omero nell’Odissea (XI, 405-426), che attribuisce il delitto a Egisto, amante di Clitemnestra, moglie di Agamennone, Eschilo attribuisce il delitto a Clitemnestra, spinta da due moventi: la relazione con Egisto e la vendetta per il sacrificio della figlia Ifigenia, fatta uccidere da Agamennone per favorire la partenza della flotta dei guerrieri greci diretti a Troia. Più in ombra, anche se in parte sottintesa, la volontà di regnare con l’amante.

Oltre alla trilogia dell’Orestea di Eschilo (l’unica giunta fino a noi) a teatro la vicenda del delitto di Oreste per vendicare il padre Agamennone fu rappresentata anche dagli altri due maggiori poeti tragici, Sofocle ed Euripide, autori entrambi di una Elettra.

Ed eccoci alle Coefore (le portatrici di offerte). Dieci anni dopo il delitto, Clitemnestra è sconvolta da un sogno premonitore e manda a offrire libagioni sulla tomba di Agamennone. Nel frattempo però il figlio Oreste, spinto da Apollo a vendicare il padre, è tornato in patria in incognito per sorprendere e uccidere i due amanti assassini. Dopo essersi fatto riconoscere dalla sorella Elettra, che accompagna le coefore, Oreste mette in atto il piano di morte e uccide prima Egisto e poi Clitemnestra. Per quest’ultimo delitto viene immediatamente perseguitato dalle Erinni, decise a punire il matricida.

Eumenidi (le benevole) concludono la trilogia: Oreste si rifugia al santuario di Apollo a Delfi. Pur protetto da Apollo, non cessa la persecuzione delle Erinni e deve sottoporsi al processo all’Areopago di Atene. Qui sarà assolto grazie al voto decisivo di Atena, che riesce a placare la furia vendicatrice che le Erinni volevano riversare sulla città per mantenere l’antica legge, e le convince a trasformarsi in dee benevole, omaggiate dalla città di Atene, a cui esse assicurano protezione.

Sul fondo della scena appaiono sulla destra il palazzo reale, mentre al centro campeggia un enorme palla “multimediale”, che pare essersi abbattuta come un meteorite su un ponte. Al centro del palcoscenico campeggia un rilievo circolare che rappresenta la tomba di Agamennone. Il tutto è coperto da un sottile strato di neve, «una neve dolorosa – spiega il regista Davide Livermore nelle note di regia – che congela il corpo della tragedia, lo sospende per dieci anni, dieci lunghissimi anni in cui un bambino, Oreste, diventerà un assassino matricida».

Oreste (Giuseppe Sartori) giunge ad Argo accompagnato dall’amico Pilade (Spyros Chamilos) – abbigliati come partigiani – e pone un proiettile di pistola sulla tomba del padre: ovviamente Eschilo parla di un ricciolo dei capelli, ma le sparatorie in scena si vedranno davvero. Poi Elettra (Anna Della Rosa) e le coefore (in abiti eleganti) riescono a superare l’ostilità delle guardie (vestite da soldati nazifascisti e armate di mitragliatori) e a portare le loro libagioni sulla tomba di Agamennone, dove il ritrovamento del proiettile mette Elettra in agitazione. Dopo il riconoscimento tra i fratelli e la predisposizione del piano uccidere gli assassini del padre, viene fatto chiamare Egisto (Stefano Santospago). Arriva a bordo di un’auto, da cui scarica violentemente una ragazza, che subito uccide con un colpo di pistola. L’odiosità del personaggio viene accentuata dalle molestie che riversa sulle coefore presenti, che poi uccide. Ma, essendo privo di guardie, viene facilmente eliminato da Oreste e Pilade, addirittura con un proiettile nella schiena. Più problematica – ovviamente – si rivela l’eliminazione di Clitemnestra (Laura Marinoni). Arriva anche lei a bordo di un’auto, con abiti sontuosi, e capita la sorte che sta per toccarle, si difende con il figlio, rivendicando i torti subiti dal marito (in particolare l’uccisione della figlia Ifigenia), ma commette l’errore di rivelarsi innamorata di Egisto. A nulla poi le vale scoprirsi il seno materno per indurre pietà in Oreste: la sua sorte è segnata. E viene fatta morire come Socrate, bevendo una coppa di veleno. Le Erinni (Maria Layla Fernandez, Marcello Gravina e Turi Moricca), subito cominciano a perseguitare il matricida.

E siamo alle Eumenidi. Per purificarsi nel tempio di Apollo, che gli aveva ordinato di vendicare il padre, Oreste corre disperato su un tapis roulant (unica trovata “moderna” che appare utile). Anche la Pizia (Maria Grazia Solano) si allontana dal tempio, occupato dal matricida di cui si citano le mani insanguinate, e dalle Erinni che non gli danno pace, anche se poi si addormentano. Apollo (Giancarlo Judica Cordiglia) ne approfitta per invitare Oreste a recarsi ad Atene per essere giudicato, e poi scaccia le Erinni dal proprio tempio.

La scena si trasferisce ad Atene, dove la dea Atena (Olivia Manescalchi) presiede il processo i cui giurati sono sagome dei cittadini migliori della città riuniti nell’Areopago, che viene pertanto istituito per giudicare i fatti di sangue. Dopo le ragioni contrapposte di Oreste, spalleggiato da Apollo, e delle Erinni, Atena fa votare i cittadini, ma il verdetto è in parità (che significa assoluzione) solo grazie al voto decisivo della dea, che esprime valutazioni “arcaiche” sulla prevalenza dell’uomo sulla donna. Le Erinni, furiose, minacciano vendette sulla città, ma poi accettano l’invito di Atena a essere onorate dagli ateniesi e a restare a proteggere quindi la fecondità della terra e dei cittadini. Oreste, diretto ad Argo, proclama che mai la sua città dovrà dimenticare l’alleanza con Atene.

La messa in scena richiama gli anni Trenta-Quaranta, ma alcuni anacronismi rispetto a Eschilo appaiono assurdi e fastidiosi. A Livermore, si capisce, non piace l’assoluzione di Oreste grazie a un giudice e un avvocato «che per la loro stessa natura divina determinano una disparità di giudizio al limite dell’iniquo», scrive nelle note di regia (in cui paragona la sorte di Ifigenia a quella di Mafalda di Savoia, “sacrificata” dal padre Vittorio Emanuele III). E questa “combine” viene accentuata dalla telefonata (!) che i due si scambiano prima del verdetto.

Viceversa viene trascurato un tema che stride con la mentalità moderna, oltre che con i dati della biologia: la riduzione della donna a contenitore del seme maschile, considerato vero tramite della discendenza; lo svilimento del ruolo della madre nelle parole di Atena, che si proclama figlia del solo Zeus. Scorrevole la traduzione di Walter Lapini, convincenti le prove degli attori, in particolare Oreste – preda di dubbi e poco “eroico” – e Clitemnestra, personalità “dominatrice” della scena. Invece i proiettili e le sparatorie (così come il veleno o l’automobile) appaiono fuori luogo, visto anche che il testo continua a essere recitato indicando le spade come strumenti di morte. Il costume delle tre Erinni (perché due uomini? drag queen?), scintillante da cabaret, non appare consono al loro ruolo di paurose persecutrici. Il rogo finale delle sagome dei giurati vuol forse indicare che vanno puniti? Infine la palla multimediale che campeggia sullo sfondo (una soluzione che Livermore aveva adottato anche nell’Elena rappresentata a Siracusa nel 2019): viene sfruttata opportunamente per evocare l’ombra di Agamennone (Sax Nicosia), ma anche per mostrare, alla fine dello spettacolo, famose immagini di tragedie italiane: dall’assassinio di Aldo Moro alla strage di Capaci, dalla Costa Concordia al ponte Morandi (rievocato anche dalla scenografia) che appaiono del tutto estranee al clima del testo eschileo, se non forse nel pensiero del regista che le mostra per indicare fatti che non hanno ricevuto giustizia. Lo spettacolo, grazie anche a un accompagnamento musicale sostenuto, è vivace e “piacevole”, Eschilo però è un’altra cosa.

Le Troiane, simbolo dell’atrocità di ogni guerra, smascherano la crudeltà dei greci

La guerra di Troia è finita, i greci hanno espugnato la città. Gli uomini sono stati uccisi quasi tutti, solo pochissimi sono riusciti a scappare: le donne (con i bambini) aspettano di essere portate via come preda di guerra sulle navi dei vincitori, per un destino di schiave e concubine. Le Troiane, seconda tragedia di Euripide andata in scena al teatro greco di Siracusa con la regia di Muriel Mayette-Holtz a cura dell’Istituto nazionale del dramma antico (Inda), è un catalogo di orrori. In un’Atene che da 15 anni viveva un contesto bellico, ma che trepidava per l’imminente spedizione in Sicilia, il tragediografo ricorda ai suoi concittadini che la guerra porta solo orrori. E se si deve credere a Tucidide, che pone nel 416 la vicenda dell’assedio e distruzione di Melo, Euripide scrive all’indomani dell’attacco più crudele portato da Atene a una popolazione greca, che condusse alla strage di tutti i cittadini maschi dell’isola.

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La profezia-delirio di Cassandra

La tragedia di Euripide non ha uno svolgimento, è un susseguirsi di quadri dolorosi: dopo che Poseidone (Massimo Cimaglia) e Atena (Francesca Ciocchetti) si sono accordati per rendere infausto il ritorno dei greci in patria, a causa delle numerose empietà commesse nel saccheggio della città nemica, Ecuba (Maddalena Crippa) prostrata dalle paure rievoca tutte le sciagure subite, i figli uccisi uno dopo l’altro, il marito Priamo sgozzato sugli altari degli dei. E ora, l’incertezza per il destino da schiave che attende tutte le donne. L’araldo Taltibio (Paolo Rossi) arriva a comunicare le prime decisioni: Cassandra è destinata a essere concubina di Agamennone, che trascura il fatto che la profetessa sia consacrata ad Apollo, Andromaca sarà preda di Neottolemo, Ecuba è destinata a Odisseo. La vecchia regina, già attanagliata dall’angoscia per non avere ottenuto una risposta esaustiva sulla sorte di Polissena (in realtà già uccisa), sprofonda nella disperazione: «Mi è toccato essere schiava di uno sporco impostore, di un mostro criminale, che stravolge ogni cosa con i suoi discorsi doppi» (traduzione di Alessandro Grilli per questo spettacolo). Cassandra (Marial Bajma Riva) entra in scena, in preda a uno dei suoi deliri, e agitando una fiaccola nuziale invita a non compiangere troppo la sua sorte: i suoi discorsi sembrano (e sono ritenuti da tutti) quelli di una pazza, ma rivelano molte verità future, per esempio che Odisseo impiegherà dieci anni a tornare a casa, da solo, e che la madre Ecuba morirà sul suolo troiano (in proposito c’erano diverse versioni del mito). Infine che lei stessa (a prezzo però della sua vita) rappresenterà la rovina dell’intera casa di Agamennone: e in effetti al rientro in patria, il re verrà ucciso (come la sua concubina) dalla moglie Clitemnestra, che a sua volta sarà più tardi assassinata dal figlio Oreste con Elettra.

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I soldati greci si apprestano a strappare Astianatte dalle braccia della madre Andromaca

L’entrata in scena di Andromaca (Elena Arvigo) porta lo strazio su un altro piano: la sposa fedele di Ettore, pur ripugnandole diventare concubina nella casa di Achille, ha la consolazione di avere con sé il piccolo Astianatte (Riccardo Scalia). Ma c’è appena il tempo di cullarsi con questa speranza, che Taltibio viene a riferire l’ordine più disumano: i greci, convinti da Odisseo, hanno deciso di far morire il figlio di Ettore, gettandolo dalle mura della città, non fidandosi di lasciar crescere un possibile vendicatore di Troia. Disperazione inutile e infinita della madre, cui il figlio viene strappato dalle braccia, e della nonna Ecuba. Vale la pena di osservare che vengono confermati i timori di Ecuba di essere stata assegnata al peggiore dei capi greci. Noto qui che noi siamo soliti avere un’immagine positiva di Odisseo: l’intera Odissea lo presenta come l’uomo dal multiforme ingegno, che deve sopportare infinite traversie per tornare a casa e riprendere il suo trono. Anche Dante Alighieri (Inferno XXVI) ne esalta l’insaziabile desiderio di conoscenza. Tuttavia nei testi del teatro tragico greco a noi rimasti, di Odisseo vengono privilegiate le caratteristiche negative: oltre alle Troiane, nei sofoclei Filottete e Aiace (per non parlare del perduto Palamede di Euripide), Odisseo è personaggio che usa ogni forma di raggiro per raggiungere i suoi scopi (anche nell’Ifigenia in Tauride è indicato come l’autore dell’inganno delle finte nozze della figlia di Clitemnestra e Agamennone).

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Inizia il compianto di Ecuba e delle donne troiane su Astianatte

Dopo questo delitto crudele, entra in scena Menelao (Graziano Piazza) per comunicare che intende riportare Elena (Viola Graziosi) in patria e farla morire per mano dei greci che hanno avuto parenti uccisi sotto le mura di Troia. È chiaro che qui viene seguita la versione tradizionale del mito, e la donna – che è oggetto dell’odio di tutte le troiane prigioniere – viene trascinata al centro della scena. Elena, discinta pur nella modestia degli abiti, tenta di difendersi e di sedurre nuovamente il marito. Ecuba ne rintuzza le argomentazioni, ma sa che difficilmente Menelao resisterà alla bellezza e al fascino di Elena: «Non c’è amante che non ami sempre» (del resto il mito, a partire dall’Odissea, voleva che i due tornassero a vivere in armonia in patria). L’ultima scena è il seppellimento di Astianatte sullo scudo del padre Ettore affidato a Ecuba (Andromaca ha dovuto partire con Neottolemo): il pianto inconsolabile della nonna si accompagna a quello delle donne troiane che rendono l’ultimo omaggio al bambino. Infine l’incendio di Troia (con il tentato suicidio di Ecuba) ne determina l’estrema rovina.

La scena allestita al teatro greco di Siracusa da Stefano Boeri rende bene l’idea della desolazione dopo una catastrofe: un bosco di tronchi morti, nudi, recuperati dalle foreste abbattute nell’autunno scorso dalla violentissima tempesta che ha colpito il Friuli. La regista Mayette-Holtz realizza uno spettacolo potente nel rappresentare la crudeltà della guerra: gli abiti (i costumi sono di Marcella Salvo) impolverati e laceri delle troiane testimoniano il loro stato di prigioniere, l’utilizzo dello spazio del teatro anche esterno alla scena sembra allargare lo spazio del dolore e del male. Meno riuscita – a mio modo di vedere – l’accomunare nella polvere anche gli abiti dei soldati greci: il parallelo con l’11 settembre è fuorviante perché in quel caso, come spiega la regista stessa, le vittime aiutarono le vittime, ma a Troia i greci erano vincitori. Né si capisce molto perché solo le guardie di Menelao abbiano un cappello più militaresco. Efficace infine, dopo la svestizione finale delle troiane che offrono i loro miseri abiti per il seppellimento di Astianatte, che le donne restino in un abito rosso acceso, che ricorda le recenti battaglie contro la violenza sulle donne: le troiane diventano il simbolo delle donne maltrattate e violate. Semplice ma valido l’accompagnamento musicale di Cyril Giroux. Ottimi gli attori: da una Ecuba che giganteggia in scena all’intensa Andromaca; convincente la giovane Cassandra. Una parola finale sul ruolo di Taltibio: la regista osserva che, nel portare ordini tanto disumani, il cuore del messaggero è «orribile, anestetizzato» e fa un parallelo con i nazisti (aggiungerei: tutti coloro che si fanno strumento della sopraffazione gratuita dei più deboli). Si può anche osservare che Euripide non porta in scena gli eroi greci (a parte un irresoluto Menelao), ma trasmette gli ordini più disumani appunto tramite il messaggero Taltibio: in tal modo crescono l’orrore e il terrore verso un potere che è lontano, oscuro, senza volto, ma minaccia da vicino la vita delle persone. Tanta crudeltà – tipica di ogni guerra, ma che qui l’ateniese Euripide attribuisce ai “civili” greci contro i “barbari” troiani – viene riassunta nell’epigrafe che Ecuba propone per la tomba di Astianatte: «Questo bambino lo uccisero gli Argivi, per paura».

Siracusa, l’Elena euripidea riscatta la “condanna” della sua bellezza

La 55ª stagione degli spettacoli classici organizzati dall’Istituto nazionale del dramma antico (Inda) al teatro greco di Siracusa quest’anno ha presentato due tragedie di Euripide, Elena e Le troiane (con la regia, rispettivamente di Davide Livermore e Muriel Mayette-Holtz) e una commedia di Aristofane, Lisistrata (regia di Tullio Solenghi). I tre testi hanno indubbiamente come filo rosso la contestazione della guerra, la follia di risolvere le contese con le armi, portando solo morte e sofferenze, lasciando discordie senza risolvere le ingiustizie. E poi il ruolo delle donne, spesso vittime ma di ulteriori violenze a guerra finita. Donne però che mostrano anche un carattere determinato: oltre alle figure di Elena ed Ecuba nelle due tragedie, nella commedia di Aristofane, Lisistrata si fa promotrice di un singolarissimo sciopero del sesso per costringere gli uomini a fare la pace.

Elena di Euripide è un dramma di cui abbiamo la data certa della prima rappresentazione: le Grandi Dionisie del 412, anno buio per Atene, che aveva appena perso uomini e navi nella sventurata impresa militare in Sicilia. Il tragediografo recupera una versione minoritaria del mito, che aveva un illustre predecessore nel poeta lirico Stesicoro di Imera: Elena non aveva seguito Paride, ma era stata trasportata in Egitto, mentre a Troia era andato solo un suo simulacro, forgiato da Era per vendicarsi. La prima evidente conseguenza era che la guerra era stata combattuta per nulla e che schiere di soldati erano morti inutilmente.

2019-06-18 18.58.52Euripide presenta Elena (Laura Marinoni) come una donna fedele e ancora innamorata del marito Menelao (Sax Nicosia), a cui ha potuto mantenersi fedele grazie alla protezione del re egiziano Proteo. All’inizio del dramma rivela le sue angosce: non solo non ha notizia se Menelao sia ancora vivo, ma sa di essere esecrata dai greci in quanto ritenuta fedifraga e origine della guerra e dei lutti conseguenti. La sua “fatale bellezza” è stata la sua condanna, lamenta. E viene presto a sapere che anche sua madre Leda si è uccisa in casa per la vergogna dello scandalo provocato dal suo adulterio, mentre la figlia non trova chi la voglia sposare. E anche dei suoi fratelli Dioscuri, Castore e Polluce, non sono certe le sorti. In più si trova in una situazione di pericolo: Teoclimeno, figlio del defunto Proteo, è determinato a sposarla, venendo meno alle promesse del padre. Elena quindi si rifugia sulla tomba-isola di Proteo, quasi fosse un’ancora di salvezza.

2019-06-18 20.21.11 - CopiaL’arrivo di Teucro (Viola Marietti) le conferma l’odio di cui la fanno oggetto i greci e l’incertezza sul destino di Menelao. Ci pensa la veggente Teonoe (Simonetta Cartia), sorella di Teoclimeno, a rassicurarla sul fatto che suo marito è salvo. Ma quando questi compare, naufrago con pochi compagni sulle coste dell’Egitto, questi stenta a credere alla storia del simulacro. Quando finalmente ottiene la prova che Elena dice la verità, i due si possono abbandonare agli abbracci e ai sogni d’amore attesi da 17 anni. Si pone però il problema di lasciare l’Egitto: Teoclimeno è determinato a sposare Elena e ucciderebbe qualunque greco si avvicinasse al palazzo. Implorato e ottenuto il silenzio di Teonoe, che preferisce onorare la giustizia e proteggere i due sposi che aiutare il fratello a infrangere le promesse di Proteo, Elena escogita lo stratagemma di far credere a Teoclimeno (Giancarlo Judica Cordiglia) che Menelao sia morto annegato, e che lei debba assolvere il dovere pietoso di una cerimonia funebre in mare aperto. Il re, pur tra qualche dubbio, si lascia convincere e fornisce una nave veloce e un equipaggio per svolgere al largo il rito. Un messaggero (Linda Gennari) viene a riferire a Teoclimeno come, realizzato l’inganno e sopraffatto l’equipaggio, i due sposi sono in navigazione verso Sparta. I Dioscuri (Marcello Gravina e Vladimir Randazzo) compaiono ex machina: si premurano di vietare a Teoclimeno di uccidere Teonoe e informano il pubblico della sorte dopo la morte di Elena (divinizzata) e Menelao (nelle isole dei Beati).

È una tragedia l’Elena? La domanda si pone solo per noi moderni, sottolinea Albin Lesky nella sua Storia della letteratura greca. E anche l’identificazione di Elena con Dioniso (argomentata da Anna Beltrametti nella sua edizione delle tragedie di Euripide pubblicata nei Millenni Einaudi, 2002) non fa che confermare che l’opera si inseriva nel contesto della tradizione tragica. Certo il moltiplicarsi di episodi (Teucro e la vecchia portinaia che maltratta Menelao), osserva Beltrametti, sono zeppe, utili solo a «ritardare il corso drammatico», e i meccanismi del riconoscimento progressivo dei due sposi e dell’inganno ordito una danni di Teoclimeno richiamano la commedia nuova (peraltro l’impianto della tragedia richiama da vicino l’Ifigenia in Tauride). Ma i messaggi che Euripide manda sono più legati alla denuncia antibellica («Se decideremo le dispute con scontri di sangue, mai la discordia lascerà le città degli uomini», denuncia il coro) e alla necessità di affidarsi, piuttosto che alle parole degli indovini, che suonano «false», al «buon senso» (e sono due servitori a ripetere questo concetto). Così come Euripide sottolinea la labilità della verità: non fu la vera Elena a recarsi a Troia, e per volere degli dei gli uomini si sono inflitti innumerevoli sofferenze.

2019-06-18 20.58.12L’allestimento di Davide Livermore (anche scenografo dello spettacolo) è sorprendente e affascinante al tempo stesso: lo spazio scenico è allagato per portarci con più evidenza sulle sponde del Nilo e del mare. Una dimensione – quella acquatica – ossessivamente ripetuta dal grande schermo tecnologico che per tutto lo spettacolo rimanda quasi sempre immagini di onde in mare aperto. Anche la musica (di Andrea Chenna) riesce a emergere dalla distesa d’acqua. Al centro compare la tomba di Proteo, che risulta quasi un’isola. Accanto, un relitto di nave a completare «uno spazio scenico – scrive Livermore nella sua presentazione – dove affiorano i tanti naufragi di un’esistenza». Un tema, il naufragio, che assume qui evidentemente una grande rilevanza: alla protezione invocata da Menelao nella scena – tragicomica – con la vecchia portinaia (Maria Grazia Solano) viene risposto che «da noi i porti sono chiusi», attualizzando il «rivolgiti a qualcun altro e lascia in pace noi» del testo greco (traduzione di Walter Lapini).

Se la scenografia risulta insolita e coinvolgente (anche il movimento del relitto risulta efficace), altre scelte registiche mi paiono meno convincenti. La più seria è forse il ruolo del coro: nel testo euripideo è composto di schiave greche, con un ruolo di supporto a Elena nelle sue sofferenze e dubbi. Qui sono uomini con un costume anonimo e un ruolo ancora più incomprensibile: risultano utili solo a mimare la battaglia che si svolge sulla nave dove i greci si liberano dell’equipaggio egiziano, ma in tutto il resto della tragedia non hanno giustificazione. Capovolgimento dei sessi anche con Teucro, e risulta francamente inutile, visto che si tratta di un personaggio in cui emerge soprattutto lo spirito guerriero del reduce, segnato dalla guerra sotto le mura di Ilio (così come una donna interpreta il compagno naufrago di Menelao, necessariamente un altro guerriero, che viene a informarlo che la sua moglie si è smaterializzata un aria). Bravi tutti gli attori: Laura Marinoni trasmette l’idea della donna vittima della sua bellezza e ancora innamorata del marito; e riscatta le accuse che ha subito con un accorto piano di fuga, che con il marito riesce a realizzare. Sax Nicosia rende un Menelao che – per una volta nel teatro tragico – appare pronto ad atti di eroismo: omicidio-suicidio sulla tomba di Proteo (contaminandola) se dovesse cadere prigioniero del re. Se il gioco degli specchi delle messaggere con Elena e nella scena finale può rimandare a molti significati (la bellezza che si guarda, realtà e apparenze), genera un po’ di confusione il miscuglio di riferimenti dei costumi (di Gianluca Falaschi): Livermore scrive di aver guardato al gioco di alterazione della verità del librettista Lorenzo Da Ponte nelle sue Memorie. Forse con questo si spiegano gli abiti settecenteschi di Teonoe e di Teoclimeno, ma sembrano in effetti stridere con il resto dell’ambientazione. Il finale con la rappresentazione sullo schermo di un’Elena invecchiata mentre sul palcoscenico muoiono tutti gli altri personaggi non aggiunge gran che alla profezia dei due Dioscuri (anch’essi con un costume piuttosto femminile).

Trieste, 1938: le leggi contro gli ebrei preludio della persecuzione

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Il discorso di Mussolini a Trieste il 18 settembre 1938

Quest’anno la Giornata della memoria cade a poca distanza dall’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi anti ebraiche in Italia. L’evento che più di ogni altro marchia negativamente il ventennio fascista è all’origine di quell’atteggiamento discriminatorio che diventò persecuzione vera e propria pochi anni dopo. Sull’argomento offre un’interessante documentazione la mostra allestita a Trieste al secondo piano del museo della Comunità ebraica “Carlo e Vera Wagner” (via del Monte 7) e aperta fino al 29 marzo prossimo. Il titolo «Basta, qui siamo finiti!» esprime in maniera chiara la consapevolezza (che non fu di tutti), che la promulgazione delle leggi razziali nel 1938 rappresentava un punto di non ritorno, e che la tradizione di produttiva presenza degli ebrei in una città multiculturale come Trieste non era più sufficiente a garantire loro una vita pacifica. A conferma, se mai ce ne fosse bisogno, dell’integrazione degli ebrei nella prima città italiana di respiro mitteleuropeo è possibile visitare anche il primo piano del museo, dove sono esposti foto e documenti relativi ai triestini ebrei che, a partire dalla metà del Settecento, si sono distinti in molti campi della cultura (non solo i ben noti Italo Svevo e Umberto Saba). E “Porta di Sion” era chiamata la città per tutti i perseguitati ebrei che, dalla seconda metà dell’Ottocento, dall’Europa orientale confluivano su Trieste per imbarcarsi verso la terra d’Israele, meta e speranza del nascente movimento sionista, o verso le Americhe. 

A inaugurare la mostra è un filmato tratto dal documentario che realizzò l’Istituto Luce in occasione della visita di Benito Mussolini a Trieste il 18 settembre 1938 . Non fu forse un caso se il duce scelse Trieste, città con la terza comunità ebraica in Italia (5mila iscritti), per annunciare – da un balcone dell’allora palazzo prefettizio in piazza Unità (ora sede del Comune) – l’arrivo di misure anti ebraiche: «L’ebraismo mondiale è stato durante 16 anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del fascismo». La frase, pretestuosa fino al ridicolo, ricevette il solito scroscio di applausi dalla piazza gremita. Ecco come rievocava quei momenti – in un’intervista del 1996 – un giovane universitario ebreo, Italo Dino Levi: «Ero sotto il palco, dove c’è guardia del corpo, tutti neri e subito davanti c’era la milizia universitaria. In quel momento uno dietro dice: “Butè fora Levi!”. E questo qui chi era? Un carissimo amico! Quando ho inteso, ho detto: Basta, qui siamo finiti!”». L’oscura minaccia di Mussolini suonò in parte inattesa, e colse di sorpresa molti ebrei, tra i quali non mancava chi fino a quel momento aveva sostenuto il regime. Tuttavia, a un osservatore attento, i preparativi per la svolta razzista, coeva a quanto andavano realizzando i nazisti in Germania, non potevano sfuggire. Anche se le leggi italiane furono approvate nel novembre 1938, erano sicuramente allo studio da tempo. Lo dimostra proprio la realtà triestina, dove una prima lista su base razziale fu promossa sin dal giugno 1937 e un altro censimento fu condotto nell’agosto 1938 per individuare gli appartenenti «alla razza ebraica». Dalla collaborazione tra Provincia e Comune fu compilata una lista di 6.787 ebrei domiciliati a Trieste, e una nuova “autodenuncia” fu richiesta agli ebrei nel 1939, e ancora nel 1942 un nuovo elenco distingueva gli ebrei puri e gli ebrei misti. Delle persone si registrava tutto: indirizzo, data di nascita, genitori, stato civile e data del matrimonio, professione e datore di lavoro. E note a matita («trasferitosi a Zurigo») testimoniano lo scrupolo con cui veniva tenuto aggiornato l’elenco. A indicare la natura nettamente razzistica dei provvedimenti adottati dal governo fascista è l’assoluta indifferenza verso le convinzioni personali o la credenza religiosa: per il solo fatto di essere ebreo fu perseguitato anche chi si era allontanato dalla religione dei padri, o chi aveva contratto matrimonio con cittadini cattolici, e persino ferventi patrioti (talora anche fascisti); la legge faceva eccezione solo per chi aveva in famiglia un parente che fosse stato eroe della prima guerra mondiale o morto per la “causa fascista”. 

Nelle scuole, dove i provvedimenti razzisti precedettero il discorso di Mussolini, non solo oltre 500 studenti furono espulsi, ma anche a 80 insegnanti ebrei fu impedito di continuare a lavorare: all’università solo chi era già iscritto potè proseguire il corso di laurea, mentre i docenti furono licenziati e sostituiti. Persino dei testi di autori ebrei fu vietata l’adozione (mentre nelle biblioteche scolastiche si acquistavano libri che illustravano le teorie razzistiche), e il rettore stesso, inaugurando l’anno accademico 1938-39 disse che era stata scongiurata «la minaccia dell’inquinamento della nostra razza». 

Particolarmente pesanti furono le conseguenze delle misure discriminatorie sugli ebrei stranieri (numerosi a Trieste proprio perché luogo di raccolta e transito di perseguitati in fuga) ai quali venne revocata la cittadinanza italiana se conseguita dopo il 1919: nei registri di classe della scuola elementare ebraica I. S. Morpurgo – che fu ampliata con la sezione delle medie e delle superiori per permettere di continuare a studiare ai ragazzi che furono espulsi dagli istituti statali, e che diede lavoro ai docenti licenziati – compaiono appunto le indicazioni di alunni “apolidi”. Mentre nella sede della Comunità, in via del Monte, continuarono a essere ospitati coloro che cercavano di emigrare. 

Le attività commerciali ebraiche – di proprietà o in compartecipazione –  andarono incontro a difficoltà crescenti e molti furono costretti a svendere: tra il 1938 e il 1940 passarono da 350 a 110. Il caso forse più noto è quello della libreria antiquaria Umberto Saba, che il poeta cedette al fido commesso Carlo Cerne (padre di Mario, l’attuale titolare). Ma anche in grandi imprese, borsa e assicurazioni le leggi razziste esclusero gli ebrei, mettendo in difficoltà il mondo economico e finanziario, in particolare compagnie di assicurazione, di navigazione e i cantieri navali attivi a Trieste. Cancellata inoltre la partecipazione degli ebrei alle società sportive e alle manifestazioni artistiche, con la grottesca decisione di togliere dal Museo Revoltella anche i quadri di pittori ebrei. 

Se le persecuzioni civili ed economiche appaiono odiose, tanto più risultano toccanti le testimonianze – esposte in mostra – dei tanti ebrei perseguitati che dopo il 1943 furono deportati nei campi di concentramento in Germania o alla risiera di San Sabba. Lettere, fotografie, documenti accompagnano le storie di persone che hanno visto la loro vita sconvolta, le loro famiglie spezzate, che hanno patito sofferenze inenarrabili tanto che molte testimonianze sono emerse tardi, talvolta a distanza di decenni dagli orrori visti e subiti. Conclude la mostra un video con alcune interviste a ebrei sopravvissuti, all’epoca bambini e ragazzi che non solo furono espulsi da scuola senza un motivo valido ma sperimentarono anche presto l’isolamento sociale: di solito, i loro coetanei, i loro compagni di studi e di giochi, li trascurarono del tutto. 

Infine una nota sulle libere professioni: in provincia di Trieste erano ebrei – secondo i calcoli del Piccolo – il 23,6% dei medici, il 5% dei farmacisti e degli architetti, quasi il 15% dei legali e l’8,4% degli ingegneri. Per tutti una legge del giugno 1939 istituì elenchi aggiunti o speciali ai rispettivi Albi di appartenenza. Fu del tutto vietato il notariato e – tranne eccezioni – il giornalismo. Il 10 novembre 1938 sul Popolo di Trieste fu pubblicato  un trafiletto per dare notizia dell’espulsione dal Circolo della stampa di due giornalisti professionisti e di sei pubblicisti, con tanto di elenco nominativo (ne faceva parte anche una collega fedele al regime, elogiata pochi mesi prima da Mussolini). All’ignominia dell’azione in sé (con l’ipocrisia di “considerare come dimissionari” i colleghi) il giornale fascista aggiungeva un commento in corsivo: «Era logico che i giudei non dovessero più far parte di quella che noi consideriamo la nostra casa, la nostra famiglia. Il giornalismo fascista è un posto avanzato della rivoluzione, che dev’essere presidiato da uomini puri di sangue e di cuore, da militi interamente votati alla Causa» (e un certo giornalismo che, anziché cercare di informare con onestà il lettore, diventa “militante” non ha smesso di fare danni nei decenni successivi). Il titolo del trafiletto, alla luce di quanto accadrà in seguito, suona quanto mai sinistro: «I giudei eliminati dal Circolo della stampa». 

Eracle, una follia che sgomenta. L’uomo è in balia del capriccio degli dei

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La scenografia dell’Eracle

È una tragedia a due volti, l’Eracle di Euripide in scena al teatro greco di Siracusa a cura dell’Istituto nazionale del dramma antico (Inda). L’atmosfera di angoscia che caratterizza la prima parte del dramma, si capovolge in giubilo all’arrivo dell’eroe delle 12 fatiche, prima che una catastrofe peggiore di quella temuta all’inizio si abbatta definitivamente sulla casa, la famiglia e la persona stessa di Eracle. L’eroe prostrato troverà soccorso psicologico e materiale dal re di Atene, Teseo, che si sente obbligato per il fatto di essere stato salvato dall’Ade proprio da Eracle. Tra i temi che Euripide rappresenta è sempre apparsa centrale la polemica contro la credenza negli dei, che si mostrano capricciosi e nemici degli uomini, il cui destino appare quanto mai fragile. La regista Emma Dante crea uno spettacolo che offre molte soluzioni drammaturgicamente efficaci, ma anche alcune perplessità di fondo.

A Tebe, in assenza dell’eroe Eracle, ha preso il potere con un colpo di stato il tiranno Lico (Patricia Zanco) che ha ucciso il vecchio re Creonte e i suoi figli maschi. Ora vuole uccidere sia la figlia di Creonte, Megara (Naike Anna Silipo), sia i figli che lei ha avuto da Eracle, nipoti quindi di Creonte, temendo che una volta adulti possano vendicare il nonno e gli zii. Nessuno spera più in un ritorno di Eracle, che viene dato per morto nell’ultima fatica impostagli da Euristeo: la cattura del cane guardiano dell’Ade, Cerbero. A dimostrare la gratuita crudeltà di Lico sta anche la sua volontà di uccidere anche il vecchio padre di Eracle, Anfitrione (Serena Barone), del tutto imbelle e inoffensivo. Nessuno a Tebe sembra voler ricordare i benefici che Eracle garantì alla città, lamentano sia Anfitrione sia Megara, e il coro – composto di vecchi tebani – inorridisce di fronte ai delitti annunciati da Lico, ma è impossibilitato fisicamente a impedirli. Megara ottiene dal tiranno una breve proroga per vestire da lutto i figli, ma quando tutto sembra ormai volgere al peggio, ricompare Eracle (Mariagiulia Colace) di ritorno dagli inferi, dove si è attardato per liberare Teseo. Gioia della famiglia per l’arrivo del più valido difensore, sdegno di Eracle per l’impudenza di Lico e organizzazione di un piano per elimare il tiranno si susseguono velocemente. Entrato dentro la casa di Megara credendo di poter compiere il suo delitto, Lico trova invece la morte per mano di Eracle. Il coro dei vecchi ha appena il tempo di esultare, che una duplice e sinistra apparizione preannuncia sciagure. Iride (Francesca Laviosa), messaggera degli dei, giunge accompagnata da Lyssa (Arianna Pozzoli), il nume della follia capace di scatenare negli uomini la pazzia. Contro la sua stessa volontà, il suo prossimo bersaglio sarà proprio Eracle: indiscutibile è l’ordine di Era, la sposa di Zeus, da sempre nemica dell’eroe per la sua nascita, frutto dell’adulterio del marito con Alcmena, la moglie di Anfitrione. Giunge quindi un messaggero (Katia Mirabella) a raccontare lo scempio compiuto da Eracle che uccide i figli e la moglie, fermato e stordito da Atena quando stava per colpire anche il padre Anfitrione. Quest’ultimo – fatto legare il figlio – può ormai solo piangere insieme con il coro la sciagura toccata alla sua famiglia. Al risveglio l’eroe, informato dal padre sui delitti compiuti, ritiene che gli resti solo la soluzione del suicidio. A dissuaderlo sopravviene l’amico Teseo (Carlotta Viscovo), che lo convince che sia più degno di un eroe sopportare il dolore e la sventura, e gli offre asilo in Atene.

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La presentazione dei personaggi

La messa in scena diretta da Emma Dante comincia con una inconsueta presentazione di tutti i personaggi, che costituisce una didascalia utile all’ambientazione della storia. La scenografia (di Carmine Maringola) è caratterizzata da un enorme muro di un cimitero, tappezzato dalle fotografie di defunti, e da alcune vasche lustrali: introducono nel tema della morte che incombe sullo svolgimento dell’azione ma, accompagnati anche da strane croci di legno che continuano a ruotare, mi pare caratterizzare in modo troppo “cristiano” l’ambiente. Belli e variopinti, viceversa, i costumi (di Vanessa Sannino), soprattutto quelli di Megara ed Eracle, Iris e Lyssa. Altrettanto coinvolgenti sono sia l’accompagnamento musicale di Serena Ganci, sia le coreografie di Manuela Lo Sicco, compresi i cortei funebri con l’invenzione finale dei cuscini di fiori. Molto efficace l’inseguimento che si svolge sul palcoscenico di una delle piccole vittime della follia di Eracle, che cerca invano una via di fuga dal padre impazzito.

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Eracle ricompare davanti alla sua famiglia

Tuttavia come si evince dai nomi degli attori, la scelta più sorprendente della regista Emma Dante è di far intepretare tutte le parti ad attrici, in un curioso capovolgimento con l’abitudine degli antichi greci di far recitare solo uomini, anche per le parti femminili. L’esperimento mi pare tutt’altro che riuscito. E non per incapacità delle attrici. Il fondamento ideologico è quanto meno fragile: i greci non facevano recitare le donne per una consuetudine sociale, figlia delle condizione di relativa subalternità che esse vivevano. E usavano maschere per identificare i personaggi. Al giorno d’oggi invece, vedere rappresentato da una donna proprio Eracle, l’eroe che più di ogni altro nella grecità rappresentava la forza fisica, non mi è parso rendere onore alle qualità dell’attrice: il semplice gioco con i capelli lunghi (che coprono e scoprono il viso in determinate circostanze) non sembra espediente così decisivo. Usare una donna per recitare frasi al maschile, rivolgendosi alla moglie Megara, non porta alcun vantaggio al personaggio Eracle, così come a Teseo. Per non parlare della comicità involontaria di una delle frasi finali di Teseo, che vuole sostenere lo spirito dell’amico: «Ti comporti da donna» (traduzione di Giorgio Ieranò per l’Inda). Per fortuna ci è stata risparmiata la parodia nella recitazione, che viceversa non manca nell’atteggiamento del vecchio Anfitrione, veramente una macchietta che non convince, proprio quando deve pronunciare frasi molto serie, quali le pesanti accuse a Zeus di essere stato capace di sedurre una donna, ma di disinteressarsi ora della sorte del figlio. Lo stesso si può dire dell’inutilità di far recitare a tre ragazze la parte dei tre figli maschi dell’eroe. Mentre il coro di vecchi, interpretati da uomini, veste abiti femminili, da suore d’altri tempi, ed è eccessivamente caratterizzato da una debolezza del corpo che si manifesta in una posa quasi perennemente sciancata e zoppicante. 

«Nessun altro dramma euripideo si avvicina a Sofocle come questo, che ci ripresenta ancora una volta, nello spirito della tragicità autentica, l’impotenza e la caducità dell’esistenza umana» osserva Albin Lesky nella sua «Storia della letteratura greca». D’altra parte è stato notato che questa tragedia contiene alcune delle critiche più precise di Euripide verso l’antropomorfismo religioso e il comportamento immorale degli dei. Eracle, orma prostrato, dichiara di non credere che gli dei siano adulteri o si incatenino a vicenda: «Il dio, se è veramente un dio, non ha bisogno di nulla. Queste sono solo miserabili favole dei poeti». Tuttavia è innegabile sia che – proprio in questa azione drammatica – gli dei sono intervenuti a travolgere l’eroe, sia che Eracle, secondo il mito, è figlio di Zeus. Interessante, come segnala il grecista Luciano Canfora (nella presentazione della tragedia a cura dell’Inda) la lezione che si ricava sul piano etico dalla conclusione della tragedia: «Non già il suicidio … bensì la virile sopportazione del dolore causato dalle proprie colpe, contraddistingue la condotta di un eroe … incorso nella sventura». Un percorso in cui viene accompagnato da Teseo, personaggio che riveste un ruolo curiosamente simile a quello svolto nell’Edipo a Colono nell’accogliere e purificare l’ospite contaminato dai delitti. «La solidarietà tra esseri umani è fragile – spiega Giulio Guidorizzi parlando del finale dell’Eracle nel commento all’Edipo a Colono (edizione Fondazione Valla-Mondadori) –, ma è pur sempre, nella visione umanistica di Euripide, ciò che fa la loro grandezza, davanti all’indifferente crudeltà degli dei». 

Edipo trova la pace a Colono, ma la sua vita disgraziata resta un mistero

Inda

Il 54° ciclo di spettacoli classici al teatro greco di Siracusa curati dall’Istituto nazionale del dramma antico (Inda) comprende quest’anno due tragedie, Edipo a Colono di Sofocle ed Eracle di Euripide, e la commedia I cavalieri di Aristofane. La presentazione del direttore artistico dell’Inda Roberto Andò parla della «scena del potere», anche se Edipo ne è ormai estraneo, solo di fronte ai problemi esistenziali, ed Eracle, al culmine della gloria, viene stravolto dalla follia. Un tema su cui insiste anche il grecista Luciano Canfora sottolineando nel suo intervento («Tiranno, eroe, governo: ascesa e declino») il rischio che il governante saggio ed equilibrato si trasformi in sovrano assoluto, in tiranno, generando un tragico corto circuito. Delle due tragedie peraltro, mi pare opportuno sottolineare anche il tema della disgrazia in cui possono cadere i potenti, e della difficoltà nel sopportare il peso di sciagure irrimediabili. Un discorso che chiama in causa il destino dell’uomo rispetto a volontà che appaiono a lui superiori, si chiamino dei o fato.

Il dramma di Sofocle che racconta l’ultimo atto della vita di Edipo è una tragedia molto particolare. Non c’è infatti un vero e proprio evento di sangue: Edipo muore, ma senza soffrire, quasi “beato”, pacificato con gli dei che avevano oscuramente determinato la sua vita a un destino di parricida e incestuoso. La tensione tragica si proietta sulla guerra fratricida che incombe tra Eteocle e Polinice, destinati a uccidersi a vicenda, distruggendo la famiglia di Edipo. Ma il testo di Sofocle è anche molto altro: costituisce un omaggio del poeta novantenne alla sua patria, quel borgo di Colono, di cui il tragediografo era originario, e dove si trovava una “tomba di Edipo”, in un luogo caratterizzato dall’aura di soprannaturale per un bosco sacro, dove si percepiva la presenza delle dee “innominabili”, le Eumenidi (trasformazione benefica delle Erinni). E di Atene celebra la gloria non solo nella figura del mitico re Teseo, ma anche nei canti corali: dall’ambiente naturale rigoglioso di Colono e in generale dell’Attica al rispetto religioso che caratterizza l’intera città, consacrata ad Atena, ma che onora l’intero pantheon olimpico. A una meditazione sulla fragilità umana sono dedicati gli ultimi due canti corali, composti da un uomo che vedeva ormai vicino l’ultimo traguardo. La tragedia – che fu rappresentata postuma verosimilmente nel 405 a.C. – risente della mancanza di un’ultima revisione dell’autore, come nota Giulio Guidorizzi in diversi punti del suo commento (pubblicato nella collana “Scrittori greci e latini” della Fondazione Valla-Mondadori). E secondo Albin Leski (nella sua Storia della letteratura greca) «non si può ignorare che il legame fra le varie parti sia meno solido che nelle opere del periodo migliore; anche la continuità e la scioltezza dello sviluppo drammatico non sono le stesse». Peraltro «in virtù della sua generale intonazione lirica questa tarda tragedia contiene alcune perle della poesia corale sofoclea».

20180525_192747_001Edipo (Massimo De Francovich) giunge a Colono, sobborgo di Atene, presso un boschetto sacro, nella condizione di vecchio cieco e malandato, accompagnato dalla figlia Antigone (Roberta Caronia), che costituisce il sostegno indispensabile alla sua sopravvivenza. Capisce di essere arrivato al luogo della sua morte, secondo quanto gli avevano predetto gli oracoli. L’arrivo dell’altra figlia Ismene (Eleonora De Luca) ricompone un nucleo di pietà familiare contrapposto ai figli maschi che non hanno difeso il padre, preoccupandosi solo di prendere il potere su Tebe. Ma il percorso di Edipo verso una fine che ponga termine alle sue sofferenze è ancora irto di ostacoli: innanzi tutto deve farsi accettare dalla nuova comunità cittadina, e cerca di liberarsi dello stigma che lo marchia protestando vigorosamente la sua “innocenza”, perché inconsapevole che fosse Laio e che fosse suo padre l’uomo che egli anni prima aveva ucciso, e tanto meno che Giocasta fosse sua madre. Alla iniziale presa di distanza degli abitanti di Colono, preoccupati della contaminazione del supplice, fa da contraltare l’accoglienza che gli accorda il re Teseo (Sebastiano Lo Monaco), che porta in scena i valori dell’umanità ateniese. A cercare di riportare Edipo nella lotta per il potere a Tebe giungono prima Creonte (Stefano Santospago), poi il figlio Polinice (Fabrizio Falco): ancora un oracolo aveva predetto che la vittoria sarebbe toccata a chi avrebbe potuto contare sul sostegno di Edipo. In due scene successive il vecchio ma ancora iroso Edipo – reso anche più sicuro dall’essere stato integrato tra i cittadini stranieri di Atene – rifiuta ogni tentativo di essere sostegno di una delle parti in causa: Creonte è rappresentante della città governata da Eteocle, che rifiutando di rispettare il patto dell’alternanza ha provocato la reazione di Polinice, che si prepara a muovere guerra alla sua patria. Tuoni a cielo sereno avvisano Edipo che è giunta l’ora della fine: si allontana accompagnato da Teseo e dalle figlie e un messaggero (Danilo Nigrelli) riferirà della sua misteriosa scomparsa, senza dolore, in un luogo noto solo al re ateniese.

IMG_4944L’allestimento siracusano del regista greco Yannis Kokkos, da tempo attivo in Francia, si fa apprezzare innanzi tutto per la qualità degli interpreti. In scena per quasi tutto il dramma, De Francovich riesce efficace in tutto il registro drammatico: da quando compare mendico e sfinito a quando supplica il coro dei cittadini di Colono di accoglierlo, dall’invettiva contro Creonte e Polinice all’accettazione della chiamata finale degli dei verso la sua morte misteriosa. Anche Roberta Caronia (già Antigone nel 2009, la precedente rappresentazione dell’Edipo a Colono a Siracusa, una delle ultime presenze su un palcoscenico di Giorgio Albertazzi) difende appassionatamente il diritto del padre a trovare finalmente pace. Bravo Stefano Santospago a mostrare il volto odioso e ipocrita del potere, che usa le persone per i propri scopi: vestito in modo elegante, ma accompagnato da uomini armati, non esita a rapire le figlie di Edipo quando vede preclusa la via della persuasione. Sebastiano Lo Monaco troneggia calmo ma deciso nel proteggere il suo ospite e nel rendergli giustizia. Fabrizio Falco, roso dalla rabbia verso il fratello, spera invano che il padre abbia dimenticato il trattamento ricevuto dai figli. Meno convincenti mi sono parse invece altre scelte: se l’enorme busto di spalle che domina il palcoscenico allude efficacemente a Edipo che si appresta a lasciare la scena del mondo, non altrettanto comprensibile è lo svolgimento di tutta l’azione drammatica all’interno di quel perimetro “sacro” da cui all’inizio i coloniati fanno allontanare il supplice. La torretta militare e il filo spinato orientano precisamente l’attenzione sul tema del confine e della difesa armata, trascurando però la bellezza di un ambiente incantevole e fiorente (ben noto al pubblico ateniese perché si trovava a breve distanza dal teatro in cui si rappresentava la tragedia). Anche i costumi, con un prevalere complessivo di tonalità scure e neutre (a parte Creonte), trasmettono un senso di uniformità che mi pare contrastare con la vivacità del testo sofocleo: a parte l’ovvia modestia dell’abbigliamento degli esuli, quello del re Teseo, ma anche quello degli ateniesi e che lo accompagnano e dei coloniati che lo attendono, meritavano forse maggior risalto.

Una riflessione finale sul destino di Edipo è ineludibile. Il potente sovrano che era precipitato nell’orrore di due delitti esecrabili nella tragedia più nota (Edipo re) appare qui un reietto, e ormai prossimo alla fine. Tuttavia – in modo misterioso – gli dei gli hanno assicurato non solo una morte a suo modo “eroica”, ma anche che il suo corpo rappresenta un valore, un bene inestimabile per chi lo ospiterà (agli ateniesi non poteva sfuggire il ricordo della vittoria militare conseguita contro i tebani nel 407 a.C. anche grazie all’intervento – si diceva – del fantasma di Edipo). Tuttavia pare un “riscatto” che non ripaga lo sventurato figlio di Laio e la sua (e nostra) sete di giustizia. Il testo di Sofocle, peraltro spesso presentato in una anomala trilogia con Edipo re e Antigone (composte decenni prima), contiene inoltre una delle affermazioni più cupe del pessimismo umano (traduzione scenica di Federico Condello per l’Inda): «Non essere mai nati è la fortuna che supera ogni altra. Ma se l’uomo viene alla luce, ritornare presto là da dove è venuto è la migliore sorte che ti rimane» (vv. 1224-8). Per quanto si tratti di espressioni tipiche, come osserva Guidorizzi, di una tradizione della poesia lirica (per esempio Teognide), sembra di leggere una resa circa la possibilità di una comprensione del reale: siamo ben lontani da qualche consolatoria interpretatio christiana per la sorte di Edipo, opportunamente rifiutata dal traduttore Condello.

Carta, foto, pietre… Rane: mille motivi per visitare Siracusa

20170609_105031Oltre a poter assistere alle ultime rappresentazioni delle Rane di Aristofane al teatro greco (terminano domenica 9 luglio), una visita in questi giorni a Siracusa permette di scoprire alcune mostre interessanti, legate all’antichità classica ma non solo. Innanzi tutto la tradizionale «Inda Retrò», che l’Istituto nazionale del dramma antico dedica alle precedenti rappresentazioni delle opere in cartellone. Quest’anno la mostra è divisa in tre parti. La prima sono documenti, foto e testi, e abiti di scena appunto di Sette contro Tebe, Fenicie e Rane. L’opera di Eschilo è stata rappresentata tre volte (nel 1924, 1966, 2005), quella di Euripide solo nel 1968 e la commedia di Aristofane nel 1976 e nel 2002. Esaminando i documenti nelle vetrine si scoprono alcune curiosità, come il fatto che le stagioni negli anni Sessanta erano molto corte (19 giorni nel ’66 e nel ’68), o che nel 1976 la terza opera, la commedia plautina Rudens, fu rappresentata all’anfiteatro romano di Siracusa. E si trovano spartiti musicali, lettere, locandine e foto ancora in bianco e nero degli spettacoli. Completa la rievocazione, un filmato a cura di Franca Centaro, che permette di vedere dal vivo brani di alcune delle più recenti rappresentazioni.

In un’altra sezione («La città come scena, la città nella scena») si esamina lo sviluppo architettonico-urbanistico di Siracusa nel corso dei decenni dal particolare punto di osservazione rappresentato dal teatro greco con focus sugli anni 1970, ’84, ’96, 2000 e 2012. La ricostruzione è a cura della facoltà di Architettura dell’Università di Catania con sede a Siracusa. Infine «Il superbo spettacolo», a cura di Angela Gallaro Goracci, è un esame dell’evoluzione del pubblico nel corso del tempo con una foto per ogni decennio: dalla folla negli anni Venti (ma gli uomini erano in giacca e cravatta) ai giovani con gli smartphone degli anni Duemila.

20170611_204520Costituisce un ulteriore motivo di interesse il fatto che le tre mostre sono ospitate nell’atrio del Teatro Comunale di Siracusa, che è stato rimesso a disposizione solo da pochi mesi dopo un lungo lavoro di restauro. Il teatro, che risale alla fine dell’Ottocento, era infatti chiuso da più di cinquant’anni e la sua riapertura offre un nuovo motivo di interesse e un’occasione di arricchimento culturale per la città. Spiccano nell’atrio tre magnifici lampadari in vetro di Murano, dono di Dolce&Gabbana, ma tutta la struttura è stata rimessa a nuovo in modo esemplare. E nelle sere dei fine settimana è possibile usufruire di una visita guidata che illustra la storia e le particolarità dell’edificio.

20170706_121514Curiosità antiquaria e tanta passione sono invece presenti nella piccola ma interessante esposizione aperta nella Sala Caravaggio dell’ex museo archeologico in piazza Duomo. «Memorie su Carta» rievoca la figura del disegnatore Rosario Carta (1869-1962) che fu prezioso collaboratore degli archeologi che si sono succeduti dalla fine dell’Ottocento alla guida della Soprintendenza alle antichità (ora ai Beni culturali e ambientali), da Paolo Orsi a Giuseppe Cultrera a Luigi Bernabò Brea. La mostra, a cura di Rosalba Panvini e Marcella Accolla, documenta l’attività di questo figlio della terra siracusana (era nato a Melilli) affiancò le operazioni di scavo in diversi luoghi della Sicilia (oltre a Siracusa, anche Eloro, Gela, Camarina e altri), documentando con disegni accurati i reperti che venivano portati alla luce, prezioso complemento delle relazioni degli archeologi. Ed ebbe anche la capacità di mantenersi aggiornato, prendendo confidenza con la nuova arte della fotografia che stava affermandosi. Scrisse di lui Paolo Orsi nel 1919: «Le terrecotte architettoniche di via Minerva oltre che da me furono amorosamente e con le più grandi cure esaminate e scrutate dal mio valoroso collaboratore, il disegnatore Sig. R. Carta, che in questa materia è diventato un pratico di singolare perizia, nel riconoscere la ragione e la funzione di ogni singola parte, di ogni minuto particolare. Egli ha sempre diretto e vigilati i restauri abilmente eseguiti dal restauratore G. D’Amico; ed alla sua perspicacia, oltre che alla mano abilissima per i disegni e gli acquarelli, io devo una quantità di preziose osservazioni, di cui ho fatto tesoro nel presente studio».

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La stanza dell’ipogeo che fu dedicata a santa Lucia

Infine, ma non per importanza, la mostra «Siracusa. Immagine e immaginario. Verso un museo della città» (fino al 15 ottobre) ospitata nell’ipogeo di piazza Duomo, riaperto solo pochi anni fa. Realizzata in occasione dei 2750 anni di Siracusa a cura dell’Archeoclub Siracusa da un’idea di Fabio Granata e uno studio di Liliane Dufour, offre testimonianza interessanti dal Cinquecento a oggi: dalle cartografie cinquecentesche a plastici in legno settecenteschi fino alle fotografie noventesche. L’ipogeo, che si apre sotto il giardino dell’arcivescovado con il suo splendido limoneto, e finisce a livello del mare al Foro Vittorio Emanuele II, nasce in epoca arcaica come cava di pietra, che fu usata per molti edifici, compresa la cattedrale (già tempio di Atena), e tornò utile durante la seconda guerra mondiale quale rifugio antiaereo per la popolazione. Toccanti le foto esposte delle torme di bambini lì rifugiati, curioso il privilegio dei nobili di avere una stanza per sé (dove peraltro saranno stati piuttosto stretti…), emozionante la devozione che fece riservare un apposito vano – con porta serrata – al simulacro di santa Lucia, qui trasferito insieme con ex voto e tesoro, evidentemente ritenuti patrimonio spirituale importante per la popolazione e meritevoli di essere messi in salvo.