«Vaccini anti Covid-19, servono programmi di sorveglianza attiva»

A febbraio l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha presentato il Rapporto annuale sulla sicurezza dei vaccini contro il Covid-19: 27/12/2020-26/12/2021. «Un’occasione persa», secondo Maurizio Bonati, direttore del dipartimento di Salute pubblica dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”, nonché componente del Comitato scientifico per la Sorveglianza Post-marketing dei vaccini Covid-19. E spiega che migliorare le indagini di vaccinovigilanza serve anche a creare «una partecipazione condivisa, razionale e responsabile alle attività di salute pubblica». Alla mia intervista, che è stata pubblicata giovedì 17 marzo su Avvenire, nella sezione è vita, premetto la spiegazione della gestione del Rapporto stesso, comparsa sulla stessa pagina.

Al Rapporto annuale sulla sicurezza dei vaccini Covid 19 non ha contribuito il Comitato scientifico per la sorveglianza dei vaccini (Csv) Covid-19, istituito il 14 dicembre 2020 dall’Aifa «in accordo con il ministero della Salute e il Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19». La motivazione, riferisce Aifa, è che «il Comitato Sorveglianza Vaccini non si è più riunito dopo l’estate perché ha progressivamente esaurito il suo ruolo. È stato molto attivo nel primo semestre nel supportare la Cts (Commissione tecnico-scientifica di Aifa) per alcune decisioni e nella farmacovigilanza ha visto coinvolti individualmente alcuni degli esperti. Inoltre era in corso di nomina il nuovo Nitag (National immunization technical advisory group, Gruppo tecnico consultivo nazionale sulle vaccinazioni, ndr), che ha avuto lunghi tempi per l’insediamento». Il Csv Covid-19 «rimarrà in carica per due anni – scriveva Aifa nel 2020 – e potrà essere rinnovato in base all’evoluzione della pandemia e all’andamento della campagna vaccinale Covid-19». È composto da 14 «esperti indipendenti » (tra cui presidente e direttore generale Aifa), con sette osservatori di istituzioni nazionali e regionali. L’obiettivo: «Coordinare le attività di farmacovigilanza e collaborare al piano vaccinale relativo all’epidemia Covid-19, svolgendo una funzione strategica di supporto scientifico all’Aifa, al ministero della Salute e al Ssn». All’insediamento del Csv il direttore generale dell’Aifa, Nicola Magrini, lo definiva «un punto di riferimento per il Ssn per garantire una sorveglianza attiva sulla sicurezza di tutti i vaccini Covid-19». Il Csv ha contribuito ai primi nove rapporti mensili presentati dal 26 gennaio 2021 al 26 settembre 2021.

«Dal Rapporto annuale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) sui vaccini contro il Covid- 19 si ricava poco, è un po’ un’occasione persa. Conferma i dati attesi secondo quanto emerge dai dossier sui trial effettuati dai produttori per ottenere l’autorizzazione dagli enti regolatori (Food and Drug Administration – Fda, European medicines Agency -Ema). Ma non aggiunge nessuna ricerca di farmacovigilanza attiva, nemmeno per seguire le coorti di pazienti che presentano qualche profilo di rischio».

Maurizio Bonati, direttore del Dipartimento di Salute pubblica dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, e componente del Comitato scientifico per la Sorveglianza Post-marketing dei vaccini Covid-19 (che però non ha lavorato a questo documento), osserva: «Posto che il rapporto rischio-beneficio dei vaccini contro il Covid-19 è ampiamente a favore del beneficio, questo documento, anche per le modalità di comunicazione adottate, contribuisce poco a informare i cittadini, in particolare gli “esitanti”. L’educazione sanitaria della popolazione è il fine principale mancato di questa pandemia».

Che cosa si ricava dal Rapporto annuale di vaccinovigilanza di Aifa?

Il Rapporto conferma quanto riportato in letteratura o da altre Agenzie regolatorie: è importante, ma non sufficiente. L’analisi fatta si basa sulle segnalazioni spontanee dei cittadini (farmacovigilanza passiva). Le segnalazioni sono state tante, più che per altre vaccinazioni, ma attese sia per il tipo di evento avverso segnalato che per le preoccupazioni e i timori che hanno accompagnato la scelta dei vaccini e la campagna vaccinale. Per creare consenso e partecipazione informati non è quindi sufficiente limitarsi a comunicare che non ci sono problemi particolari perché la proporzione di segnalazioni di sintomi è analoga a quella che, durante i trial, emergeva da coloro che avevano ricevuto un placebo e non il vaccino, il cosiddetto “effetto nocebo”. Tutt’altra efficacia e appropriatezza sarebbe accompagnare le valutazioni della sorveglianza passiva con quelle di sorveglianza attiva, una misura con la quale l’operatore di sanità pubblica provvede a contattare quotidianamente un campione di vaccinati per avere notizie sulle condizioni di salute.

Spicca il fatto che, mentre la mortalità per Covid-19 sin dall’inizio della pandemia resta fissa a 80 anni, le segnalazioni di effetti collaterali dei vaccini sono molto più numerose tra le età più giovanili. C’è una spiegazione?

Anche per la variabile età l’analisi delle reazioni avverse dopo la vaccinazione contro il Covid-19 necessita di confronti con le segnalazioni ricevute dopo altre vaccinazioni, sebbene la classe 17-55 anni di cittadini sani è scarsamente rappresentata perché non è target di altre vaccinazioni. Analoghe considerazioni andrebbero fatte per alcune reazioni avverse gravi, come per le pericarditi e le miocarditi segnalate in particolare nei giovani. Le validazioni delle segnalazioni vanno fatte rapidamente e rapportate alla frequenza della malattia insorta prima della campagna vaccinale, così come in cittadini vaccinati e non vaccinati. È un’attività che richiede un sistema preparato ed efficiente che non può essere adeguatamente organizzato in corso di epidemia ma prima. Anche questo serve per un’adesione partecipata, al successo di una campagna vaccinale e ai tempi per raggiungerlo.

È stata fatta una vaccinovigilanza passiva, aspettando le segnalazioni, e non attiva, cercandole. Che cosa comporta?

Quantificare i rischi implica definire quali costi la collettività e il singolo accetta di pagare. Quindi non basta la segnalazione spontanea, soggettiva del sintomo, ma il tipo, la gravità, il costo diretto e indiretto (sanitario ed economico) della reazione avversa che la somministrazione del vaccino ha indotto a breve e a distanza di tempo. Ecco, tutto questo è possibile solo con un monitoraggio sistematico e continuo nel tempo: con una vaccinovigilanza attiva.

Per il futuro, come si dovrebbe proseguire l’attività di vaccinovigilanza per il Covid-19?

In un Paese con un alto grado di analfabetismo sanitario occorre costruire un rapporto di fiducia con un’informazione chiara. Spiegare perché è necessaria una copertura del 95% della popolazione, specie in una condizione di limitate conoscenze, non è facile, ma è controproducente non farlo. Spiegare bene che il vaccino avrebbe protetto dalla malattia grave e forse non dal contagio, che nessun vaccino protegge tutti i vaccinati, che forse sarebbero stati necessari dei richiami: ecco sono tutte iniziative attive in un percorso collettivo di vigilanza, di contrasto alla pandemia. Uno dei problemi di questo virus – che si conosceva solo in parte – è il “long Covid”, problema che si potrà risolvere solo con il tempo e con un’attenta sorveglianza dei guariti, in particolare di quelli che hanno contratto l’infezione in modo grave. Dobbiamo cercare di costruire sempre un rapporto di fiducia nella popolazione, anche in vista di future infezioni e nuovi vaccini, che consenta una partecipazione condivisa, razionale e responsabile alle attività di salute pubblica.

Come mai il Comitato scientifico per la Sorveglianza Post-marketing dei vaccini Covid-19, istituito nel dicembre 2020 per una durata di due anni, non compare in questo Rapporto?

Il nostro Comitato ha chiuso i lavori, di fatto, con il Rapporto mensile di fine settembre, prima che venisse trasformato in trimestrale. Non siamo più consultati da tempo.

Nei farmaci una dose di buonsenso

Un confronto tra il presidente di Farmindustria, il coordinatore degli assessori regionali alla Sanità e il direttore della scuola di economia sanitaria Altems sulle proposte del Documento sulla governance farmaceutica nel mio articolo uscito ieri su Avvenire. Accompagnato da una scheda sul Documento stesso.

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Per la tutela della salute i farmaci rappresentano uno strumento molto importante. Ma la qualità scien­tifica deve fare i conti con le e­sigenze del bilancio pubblico, che costringono anche il siste­ma sanitario a cercare di ri­sparmiare. Il recente Docu­mento sulla governance farma­ceutica – proposto dagli esper­ti nominati dal ministro della Salute, Giulia Grillo – evidenzia la necessità di adottare un cri­terio più puntuale per definire il prezzo dei farmaci a carico del Servizio sanitario, per conti­nuare a rendere disponibili le cure a tutti coloro che ne han­no bisogno. In tema di spesa farmaceutica il sistema dei tet­ti fissati per legge e il meccani­smo di pay-back, cioè il rim­borso a carico delle aziende dello sforamento programma­to (adottato nel 2012 dal go­verno Monti), hanno portato a un complesso contenzioso tra Regioni e industrie produttri­ci dal 2013 al 2017. «Il documento recepisce diver­se osservazioni che come Re­gioni avevamo indicato al ministero della Salute già nel giu­gno scorso – spiega Antonio Saitta, assessore alla Sanità del Piemonte e coordinatore della commissione Salute della Con­ferenza delle Regioni – in rela­zione alla necessità di supera­re il contenzioso e per introdurre elementi di concorrenza, con le gare, in un mercato piut­tosto chiuso. Il nostro obiettivo è garantire la sostenibilità del sistema sanitario, continuan­do ad assicurare le cure ai ma­lati che ne hanno bisogno». «Del documento ritengo positivo che si cerchi di semplifica­re il pay-back – osserva Massi­mo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria – anche se mi sembra viceversa una compli­cazione la proposta di rimodu­lare i tetti a livello regionale. Credo che il pay-back debba rappresentare una clausola di salvaguardia, ma si deve tenere conto anche di altri fattori nell’economia complessiva della spesa sanitaria». «La possibilità di dichiarare l’equiva­lenza terapeutica è già nelle competenze dell’Aifa – precisa Americo Cicchetti, docente al­l’Università Cattolica e diretto­re di Altems (Alta scuola di E­conomia e management dei si­stemi sanitari) –. Ora viene pro­posto un ruolo più attivo dell’A­genzia in questa materia, sen­za attendere le sollecitazioni e le richieste delle Regioni».

Sull’equivalenza terapeutica le aziende sono da sempre criti­che: «Credo che debba essere dimostrata scientificamente – puntualizza Scaccabarozzi – nell’interesse non solo dell’in­dustria, ma anche del paziente. Non si può dire che due farma­ci sono uguali perché hanno gli stessi effetti, perché a essere di­versi sono i malati: un farmaco che abbassa la pressione fun­ziona bene su uno e non su un altro. Se non c’è prova scienti­fica si passerebbe dall’oggetti­vità alla soggettività, con un danno per i malati. E se si met­tesse l’industria nelle condizio­ni di non produrre più una se­rie di farmaci – perché estro­messi dal rimborso del Sistema sanitario – si potrebbe genera­re un grave danno economico a un settore che è diventato il primo produttore europeo, quindi con ripercussioni anche sul sistema-Paese». «In Pie­monte, anche in collaborazio­ne con altre Regioni, abbiamo realizzato gare d’appalto per la fornitura dei farmaci cui han­no partecipato molte aziende – riferisce Saitta – e abbiamo ot­tenuto sconti consistenti grazie al meccanismo prezzo/volume: vuol dire che la produzione, do­po l’innovazione, diventa stan­dardizzata e ci sono spazi per ridurre i costi. Il principio del­l’equivalenza terapeutica ha su­perato il vaglio anche dei ricor­si al Tar e al Consiglio di Stato perché abbiamo sempre ga­rantito la libertà di prescrizione: se il medico ritiene che per il suo paziente sia necessario un farmaco specifico, rispetto al­l’equivalente o al biosimilare, lo deve motivare». «La novità a proposito di equivalenza – osserva Cicchetti – è che la pro­posta del documento sulla go­vernanceprevede che sia appli­cata non solo ai farmaci di nuo­va registrazione, ma anche a quelli già in commercio».

«Come Regioni – continua Sait­ta – abbiamo anche un dovere etico, di equità. Ricordo che quando furono introdotti i far­maci contro l’epatite C (inno­vativi e costosi) vennero riser­vati a chi era nelle condizioni cliniche peggiori. Ma all’assessorato bussarono subito i ma­lati che erano prossimi a diven­tare gravissimi: un caso che di­mostra come il nostro intento è di risparmiare per avere le ri­sorse da spendere nelle cure in­novative per tutti». «Il caso del­l’epatite C – sottolinea Scacca­barozzi – è significativo. Come industrie, chiediamo di supe­rare il sistema “a silos” e di en­trare in una logica di sistema: è vero che i farmaci costano di più, ma il sistema sanitario nel complesso ha risparmiato. In­fatti i pazienti, guariti, non van­no più incontro all’iter di cirro­si epatica, carcinoma e tra­pianto di fegato che li attende­va. E lo stesso, dati alla mano, si registra per i tumori: tra il 2005 e il 2015 i farmaci oncologici so­no passati da 21 a 40 euro pro capite, ma il costo complessivo dell’assistenza è sceso da 171 a 156 euro. Su base annua, tra il 2009 e il 2015, sono stati rispar­miati 250-300 milioni. Atten­zione anche a credere di ri­sparmiare molto dalla revisio­ne del Prontuario: al 90 per cen­to si tratta di farmaci con bre­vetto già scaduto». «Resta da ve­dere – conclude Cicchetti – se si giungerà all’adozione di criteri più stringenti da parte di Aifa per legare in maniera più og­gettiva il prezzo di rimborso del farmaco al suo “valore”. Il crite­rio dei Qaly (la sigla inglese per quality adjusted life years, cioè anni di vita pesati per la qualità, ndr) proposto nel documento sulla governance farmaceuti­ca può essere una novità inte­ressante per dare omogeneità alle decisioni del Comitato prezzi dell’Aifa. Infine, se si ge­nerano risparmi con farmaci costosi, si deve avere anche il coraggio di operare in un’otti­ca complessiva di sistema: nel caso dell’epatite C, ridurre le unità ospedaliere o i centri tra­pianti ». Una bella sfida per il servizio sanitario. 

Il Documento: più informazione indipendente e coinvolgimento dei pazienti

Il Documento in materia di governance farmaceutica, pre­sentato al ministero della Salute a dicembre, è stato elabo­rato dal tavolo di esperti indipendenti e tecnici ministeriali i­stituito dal ministro Giulia Grillo. Riconosciuto il ruolo cen­trale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), il documento propone di revisionare il Prontuario farmaceutico e di incre­mentare le analisi per stabilire l’equivalenza terapeutica tra due prodotti medicinali, che determina poi per legge il rim­borso al prezzo più basso. Gli esperti suggeriscono anche di adottare un sistema che misuri in modo più oggettivo l’ef­fettivo valore dei nuovi farmaci immessi sul mercato: un prezzo più alto – scrivono – è giustificato solo da un valore terapeutico aggiunto. Tra gli altri suggerimenti, un tavolo con i rappresentanti delle associazioni dei pazienti, la revisio­ne dei tetti di spesa (con criteri regionali), più informa­zione indipendente sui farmaci, la diffusione dei mec­canismi di acquisto prezzo-volume. 

«Noi infermieri, il volto umano della sanità»

Concluso ieri a Roma il congresso della neonata Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche, ecco un’intervista alla presidente Barbara Mangiacavalli che parla anche dell’udienza con papa Francesco di sabato 3 marzo. Il mio articolo oggi su Avvenire nelle pagine della sezione è vita

20180228_115106Gli infermieri sono «il volto umano della sanità», ma l’appropriatezza e la competenza necessarie al letto del paziente richiedono alta professionalità. Servono maggiori investimenti nelle cure sul territorio, più adatte ad affrontare la cronicità di una popolazione che invecchia, magari attraverso la figura dell’infermiere di famiglia. Temi emersi al primo congresso nazionale della neonata Fnopi (Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche) che si è chiuso ieri a Roma, e che era stato anticipato da un’udienza con papa Francesco: «L’avevamo chiesta fin da novembre. È stato un momento molto sentito, ha colto nel profondo le caratteristiche della nostra professione e si è fatto quasi nostro “sindacalista”» commenta Barbara Mangiacavalli, presidente Fnopi, che lavora quale direttore sociosanitario alla Azienda sociosanitaria territoriale (Asst) Bergamo Ovest.

Perché la Federazione dei Collegi Ipasvi (infermieri professionali, assistenti sanitari, vigilatrici d’infanzia) è diventata Fnopi?

Ordini e Collegi sono nati a metà degli anni Quaranta, e la distinzione dipendeva dal titolo di studio: Ordini per i laureati, Collegi per i diplomati. Ma dagli anni Novanta, prima con un doppio canale, poi dal ’94-’95 in modo esclusivo, la formazione infermieristica avviene in università. La modifica era quindi necessaria da tempo. Ora la “legge Lorenzin” (3/2018) ha rinforzato il compito degli Ordini professionali di tutelare del cittadino, certificando le competenze dell’infermiere. Gli Ordini inoltre sono passati da enti ausiliari a enti sussidiari dello Stato, ampliando le competenze soprattutto sulla vigilanza contro l’abusivismo e sui procedimenti disciplinari per le violazioni al Codice deontologico.

Perché avete chiesto l’udienza con il Papa?

Abbiamo sempre avuto il desiderio di incontrare papa Francesco perché negli anni ha fatto molti accenni alla nostra professione. Avevamo già partecipato a un’udienza del mercoledì in piazza San Pietro, ma abbiamo osato chiedere un’udienza privata. Quando ci è stata offerta la data del 3 marzo, è parso una specie di prologo, in continuità ideale e simbolica, al nostro congresso, che era già fissato dal 5 al 7 marzo.

Il Papa vi ha definiti “esperti in umanità”: che effetto vi hanno fatto le sue parole?

Il Papa è riuscito a muovere le corde più profonde dei 6.500 infermieri presenti. Ha parlato quasi da infermiere, si è dimostrato un profondo conoscitore della nostra professione, dei nostri punti di forza e delle nostre debolezza. Ci ha esortato a custodire i primi e a lavorare sulle seconde. Idealmente è diventato un po’ anche il nostro “sindacalista”, ha rappresentato le nostre istanze in maniera chiara e puntuale.

Francesco ha sottolineato la vostra “tenerezza” nel “toccare” i malati. Si può dire che l’ infermiere rappresenta il volto umano della medicina?

Gli infermieri sono il volto umano della sanità, anche perché hanno questo privilegio di toccare le persone. Il tocco assistenziale è un gesto professionale, accompagnato da competenze e appropriatezza clinica, lavoriamo con le persone e con il loro corpo, abbiamo questo privilegio più di altri professionisti della sanità perché siamo presenti sulle 24 ore.

Che cosa è l’infermiere di famiglia?

Una figura su cui stiamo pensando da tempo. Al congresso abbiamo avuto modo di confrontarci con il ministero della Salute, con l’ Agenzia nazionale per i servizi sanitari, con l’ Università: la necessità è riconosciuta da tutti. Stiamo lavorando sulla creazione di reti territoriali, ma la strada è ancora lunga. I dati epidemiologici dicono che il nostro Paese invecchia, le malattie croniche toccano un terzo della popolazione: alcune sono ben controllate, altre si sommano a produrre fragilità e non autosufficienza. Abbiamo bisogno di disegnare un modello di sanità e di assistenza che superi la gestione solo ospedaliera, e punti sul territorio: e il ruolo degli infermieri può essere solo rinforzato e valorizzato.

È solo una questione di risparmio?

Il Servizio sanitario non è solo un costo, ma anche una risorsa. Deospedalizzare e garantire un’assistenza territoriale efficace risponde a criteri di appropriatezza economica, oltre che organizzativa e clinico-assistenziale. L’ospedale deve essere reso più efficace ed efficiente sulle patologie acute. Ma sulla cronicità occorrono modelli organizzativi diversi, più economici ma anche più appropriati, come i cosiddetti reparti di cure intermedie.

Il direttore generale di Aifa, Mario Melazzini, ieri ha “aperto” alla prescrizione da parte degli infermieri, ma i medici hanno subito contestato l’idea. Che cosa ne pensa?

Forse è stato un po’ frainteso. Melazzini si è dimostrato disponibile a iniziare una riflessione e ha ben specificato che bisogna ridisegnare il quadro normativo, non è un percorso che si realizza domani. Si tratterebbe di presidi, ausili, alimentazioni speciali, medicazioni. È importante ragionarne, conciliando esigenze e aspettative di tutti.