A Siracusa un Eschilo trasfigurato (e pasticciato)

Dopo l’assenza forzata dell’anno scorso, conseguenza delle restrizioni decise dal governo per fronteggiare la pandemia di Covid-19, l’estate del 2021 ha visto la ripresa degli spettacoli classici al Teatro greco di Siracusa. Il 56° ciclo messo in scena dall’Istituto nazionale del dramma antico (Inda) ha leggermente modificato il programma annunciato nel 2020. Al posto dell’Ifigenia in Tauride di Euripide (rimandata al 2022) è stata realizzata la rappresentazione di CoeforEumenidi di Eschilo in coproduzione con il Teatro nazionale di Genova, diretto da Davide Livermore, che ne firma la regia a Siracusa. È una scelta che si ricollega al 1921, quando le Coefore furono messe in scena dopo l’interruzione dovuta alla prima guerra mondiale e all’epidemia di Spagnola (allo stesso modo l’Orestea monopolizzò il cartellone alla ripresa del 1948, dopo la pausa dovuta alla seconda guerra mondiale). Le Baccanti di Euripide, con la regia di Carlus Padrissa, e le Nuvole di Aristofane, con la regia di Antonio Calenda, sono gli altri due spettacoli andati in scena tra luglio e agosto, e che erano previsti già nel 2020. A sottolineare il richiamo al 1921 è stata allestita una mostra nella sede dell’Inda a Palazzo Greco, che rievoca con foto e materiali d’epoca quella storica rappresentazione e di cui scriverò a parte. Inutile cercare un filo rosso fra i tre spettacoli: Coefore ed Eumenidi fanno parte della grandiosa trilogia dell’Orestea, ultimo grande trionfo negli agoni tragici ad Atene di Eschilo nel 458 a.C., prima del suo trasferimento in Sicilia. Le Baccanti, pur essendo l’ultima tragedia rappresentata ad Atene (403) di cui abbiamo il testo si richiama all’origine stessa delle tragedie, a quel culto di Dioniso che caratterizzava le feste in cui si rappresentavano le opere teatrali. Nelle Nuvole (423) il giovane Aristofane prende di mira un Socrate “sofista” con accuse molto simili a quelle che 24 anni dopo ne determinarono la condanna a morte.

Coefore ed Eumenidi completano l’Orestea, dopo l’Agamennone, che racconta l’uccisione del comandante della spedizione greca a Troia, da cui torna vittorioso accompagnato dalla concubina Cassandra, la figlia del re Priamo. A differenza di quanto narra Omero nell’Odissea (XI, 405-426), che attribuisce il delitto a Egisto, amante di Clitemnestra, moglie di Agamennone, Eschilo attribuisce il delitto a Clitemnestra, spinta da due moventi: la relazione con Egisto e la vendetta per il sacrificio della figlia Ifigenia, fatta uccidere da Agamennone per favorire la partenza della flotta dei guerrieri greci diretti a Troia. Più in ombra, anche se in parte sottintesa, la volontà di regnare con l’amante.

Oltre alla trilogia dell’Orestea di Eschilo (l’unica giunta fino a noi) a teatro la vicenda del delitto di Oreste per vendicare il padre Agamennone fu rappresentata anche dagli altri due maggiori poeti tragici, Sofocle ed Euripide, autori entrambi di una Elettra.

Ed eccoci alle Coefore (le portatrici di offerte). Dieci anni dopo il delitto, Clitemnestra è sconvolta da un sogno premonitore e manda a offrire libagioni sulla tomba di Agamennone. Nel frattempo però il figlio Oreste, spinto da Apollo a vendicare il padre, è tornato in patria in incognito per sorprendere e uccidere i due amanti assassini. Dopo essersi fatto riconoscere dalla sorella Elettra, che accompagna le coefore, Oreste mette in atto il piano di morte e uccide prima Egisto e poi Clitemnestra. Per quest’ultimo delitto viene immediatamente perseguitato dalle Erinni, decise a punire il matricida.

Eumenidi (le benevole) concludono la trilogia: Oreste si rifugia al santuario di Apollo a Delfi. Pur protetto da Apollo, non cessa la persecuzione delle Erinni e deve sottoporsi al processo all’Areopago di Atene. Qui sarà assolto grazie al voto decisivo di Atena, che riesce a placare la furia vendicatrice che le Erinni volevano riversare sulla città per mantenere l’antica legge, e le convince a trasformarsi in dee benevole, omaggiate dalla città di Atene, a cui esse assicurano protezione.

Sul fondo della scena appaiono sulla destra il palazzo reale, mentre al centro campeggia un enorme palla “multimediale”, che pare essersi abbattuta come un meteorite su un ponte. Al centro del palcoscenico campeggia un rilievo circolare che rappresenta la tomba di Agamennone. Il tutto è coperto da un sottile strato di neve, «una neve dolorosa – spiega il regista Davide Livermore nelle note di regia – che congela il corpo della tragedia, lo sospende per dieci anni, dieci lunghissimi anni in cui un bambino, Oreste, diventerà un assassino matricida».

Oreste (Giuseppe Sartori) giunge ad Argo accompagnato dall’amico Pilade (Spyros Chamilos) – abbigliati come partigiani – e pone un proiettile di pistola sulla tomba del padre: ovviamente Eschilo parla di un ricciolo dei capelli, ma le sparatorie in scena si vedranno davvero. Poi Elettra (Anna Della Rosa) e le coefore (in abiti eleganti) riescono a superare l’ostilità delle guardie (vestite da soldati nazifascisti e armate di mitragliatori) e a portare le loro libagioni sulla tomba di Agamennone, dove il ritrovamento del proiettile mette Elettra in agitazione. Dopo il riconoscimento tra i fratelli e la predisposizione del piano uccidere gli assassini del padre, viene fatto chiamare Egisto (Stefano Santospago). Arriva a bordo di un’auto, da cui scarica violentemente una ragazza, che subito uccide con un colpo di pistola. L’odiosità del personaggio viene accentuata dalle molestie che riversa sulle coefore presenti, che poi uccide. Ma, essendo privo di guardie, viene facilmente eliminato da Oreste e Pilade, addirittura con un proiettile nella schiena. Più problematica – ovviamente – si rivela l’eliminazione di Clitemnestra (Laura Marinoni). Arriva anche lei a bordo di un’auto, con abiti sontuosi, e capita la sorte che sta per toccarle, si difende con il figlio, rivendicando i torti subiti dal marito (in particolare l’uccisione della figlia Ifigenia), ma commette l’errore di rivelarsi innamorata di Egisto. A nulla poi le vale scoprirsi il seno materno per indurre pietà in Oreste: la sua sorte è segnata. E viene fatta morire come Socrate, bevendo una coppa di veleno. Le Erinni (Maria Layla Fernandez, Marcello Gravina e Turi Moricca), subito cominciano a perseguitare il matricida.

E siamo alle Eumenidi. Per purificarsi nel tempio di Apollo, che gli aveva ordinato di vendicare il padre, Oreste corre disperato su un tapis roulant (unica trovata “moderna” che appare utile). Anche la Pizia (Maria Grazia Solano) si allontana dal tempio, occupato dal matricida di cui si citano le mani insanguinate, e dalle Erinni che non gli danno pace, anche se poi si addormentano. Apollo (Giancarlo Judica Cordiglia) ne approfitta per invitare Oreste a recarsi ad Atene per essere giudicato, e poi scaccia le Erinni dal proprio tempio.

La scena si trasferisce ad Atene, dove la dea Atena (Olivia Manescalchi) presiede il processo i cui giurati sono sagome dei cittadini migliori della città riuniti nell’Areopago, che viene pertanto istituito per giudicare i fatti di sangue. Dopo le ragioni contrapposte di Oreste, spalleggiato da Apollo, e delle Erinni, Atena fa votare i cittadini, ma il verdetto è in parità (che significa assoluzione) solo grazie al voto decisivo della dea, che esprime valutazioni “arcaiche” sulla prevalenza dell’uomo sulla donna. Le Erinni, furiose, minacciano vendette sulla città, ma poi accettano l’invito di Atena a essere onorate dagli ateniesi e a restare a proteggere quindi la fecondità della terra e dei cittadini. Oreste, diretto ad Argo, proclama che mai la sua città dovrà dimenticare l’alleanza con Atene.

La messa in scena richiama gli anni Trenta-Quaranta, ma alcuni anacronismi rispetto a Eschilo appaiono assurdi e fastidiosi. A Livermore, si capisce, non piace l’assoluzione di Oreste grazie a un giudice e un avvocato «che per la loro stessa natura divina determinano una disparità di giudizio al limite dell’iniquo», scrive nelle note di regia (in cui paragona la sorte di Ifigenia a quella di Mafalda di Savoia, “sacrificata” dal padre Vittorio Emanuele III). E questa “combine” viene accentuata dalla telefonata (!) che i due si scambiano prima del verdetto.

Viceversa viene trascurato un tema che stride con la mentalità moderna, oltre che con i dati della biologia: la riduzione della donna a contenitore del seme maschile, considerato vero tramite della discendenza; lo svilimento del ruolo della madre nelle parole di Atena, che si proclama figlia del solo Zeus. Scorrevole la traduzione di Walter Lapini, convincenti le prove degli attori, in particolare Oreste – preda di dubbi e poco “eroico” – e Clitemnestra, personalità “dominatrice” della scena. Invece i proiettili e le sparatorie (così come il veleno o l’automobile) appaiono fuori luogo, visto anche che il testo continua a essere recitato indicando le spade come strumenti di morte. Il costume delle tre Erinni (perché due uomini? drag queen?), scintillante da cabaret, non appare consono al loro ruolo di paurose persecutrici. Il rogo finale delle sagome dei giurati vuol forse indicare che vanno puniti? Infine la palla multimediale che campeggia sullo sfondo (una soluzione che Livermore aveva adottato anche nell’Elena rappresentata a Siracusa nel 2019): viene sfruttata opportunamente per evocare l’ombra di Agamennone (Sax Nicosia), ma anche per mostrare, alla fine dello spettacolo, famose immagini di tragedie italiane: dall’assassinio di Aldo Moro alla strage di Capaci, dalla Costa Concordia al ponte Morandi (rievocato anche dalla scenografia) che appaiono del tutto estranee al clima del testo eschileo, se non forse nel pensiero del regista che le mostra per indicare fatti che non hanno ricevuto giustizia. Lo spettacolo, grazie anche a un accompagnamento musicale sostenuto, è vivace e “piacevole”, Eschilo però è un’altra cosa.

Siracusa, l’Elena euripidea riscatta la “condanna” della sua bellezza

La 55ª stagione degli spettacoli classici organizzati dall’Istituto nazionale del dramma antico (Inda) al teatro greco di Siracusa quest’anno ha presentato due tragedie di Euripide, Elena e Le troiane (con la regia, rispettivamente di Davide Livermore e Muriel Mayette-Holtz) e una commedia di Aristofane, Lisistrata (regia di Tullio Solenghi). I tre testi hanno indubbiamente come filo rosso la contestazione della guerra, la follia di risolvere le contese con le armi, portando solo morte e sofferenze, lasciando discordie senza risolvere le ingiustizie. E poi il ruolo delle donne, spesso vittime ma di ulteriori violenze a guerra finita. Donne però che mostrano anche un carattere determinato: oltre alle figure di Elena ed Ecuba nelle due tragedie, nella commedia di Aristofane, Lisistrata si fa promotrice di un singolarissimo sciopero del sesso per costringere gli uomini a fare la pace.

Elena di Euripide è un dramma di cui abbiamo la data certa della prima rappresentazione: le Grandi Dionisie del 412, anno buio per Atene, che aveva appena perso uomini e navi nella sventurata impresa militare in Sicilia. Il tragediografo recupera una versione minoritaria del mito, che aveva un illustre predecessore nel poeta lirico Stesicoro di Imera: Elena non aveva seguito Paride, ma era stata trasportata in Egitto, mentre a Troia era andato solo un suo simulacro, forgiato da Era per vendicarsi. La prima evidente conseguenza era che la guerra era stata combattuta per nulla e che schiere di soldati erano morti inutilmente.

2019-06-18 18.58.52Euripide presenta Elena (Laura Marinoni) come una donna fedele e ancora innamorata del marito Menelao (Sax Nicosia), a cui ha potuto mantenersi fedele grazie alla protezione del re egiziano Proteo. All’inizio del dramma rivela le sue angosce: non solo non ha notizia se Menelao sia ancora vivo, ma sa di essere esecrata dai greci in quanto ritenuta fedifraga e origine della guerra e dei lutti conseguenti. La sua “fatale bellezza” è stata la sua condanna, lamenta. E viene presto a sapere che anche sua madre Leda si è uccisa in casa per la vergogna dello scandalo provocato dal suo adulterio, mentre la figlia non trova chi la voglia sposare. E anche dei suoi fratelli Dioscuri, Castore e Polluce, non sono certe le sorti. In più si trova in una situazione di pericolo: Teoclimeno, figlio del defunto Proteo, è determinato a sposarla, venendo meno alle promesse del padre. Elena quindi si rifugia sulla tomba-isola di Proteo, quasi fosse un’ancora di salvezza.

2019-06-18 20.21.11 - CopiaL’arrivo di Teucro (Viola Marietti) le conferma l’odio di cui la fanno oggetto i greci e l’incertezza sul destino di Menelao. Ci pensa la veggente Teonoe (Simonetta Cartia), sorella di Teoclimeno, a rassicurarla sul fatto che suo marito è salvo. Ma quando questi compare, naufrago con pochi compagni sulle coste dell’Egitto, questi stenta a credere alla storia del simulacro. Quando finalmente ottiene la prova che Elena dice la verità, i due si possono abbandonare agli abbracci e ai sogni d’amore attesi da 17 anni. Si pone però il problema di lasciare l’Egitto: Teoclimeno è determinato a sposare Elena e ucciderebbe qualunque greco si avvicinasse al palazzo. Implorato e ottenuto il silenzio di Teonoe, che preferisce onorare la giustizia e proteggere i due sposi che aiutare il fratello a infrangere le promesse di Proteo, Elena escogita lo stratagemma di far credere a Teoclimeno (Giancarlo Judica Cordiglia) che Menelao sia morto annegato, e che lei debba assolvere il dovere pietoso di una cerimonia funebre in mare aperto. Il re, pur tra qualche dubbio, si lascia convincere e fornisce una nave veloce e un equipaggio per svolgere al largo il rito. Un messaggero (Linda Gennari) viene a riferire a Teoclimeno come, realizzato l’inganno e sopraffatto l’equipaggio, i due sposi sono in navigazione verso Sparta. I Dioscuri (Marcello Gravina e Vladimir Randazzo) compaiono ex machina: si premurano di vietare a Teoclimeno di uccidere Teonoe e informano il pubblico della sorte dopo la morte di Elena (divinizzata) e Menelao (nelle isole dei Beati).

È una tragedia l’Elena? La domanda si pone solo per noi moderni, sottolinea Albin Lesky nella sua Storia della letteratura greca. E anche l’identificazione di Elena con Dioniso (argomentata da Anna Beltrametti nella sua edizione delle tragedie di Euripide pubblicata nei Millenni Einaudi, 2002) non fa che confermare che l’opera si inseriva nel contesto della tradizione tragica. Certo il moltiplicarsi di episodi (Teucro e la vecchia portinaia che maltratta Menelao), osserva Beltrametti, sono zeppe, utili solo a «ritardare il corso drammatico», e i meccanismi del riconoscimento progressivo dei due sposi e dell’inganno ordito una danni di Teoclimeno richiamano la commedia nuova (peraltro l’impianto della tragedia richiama da vicino l’Ifigenia in Tauride). Ma i messaggi che Euripide manda sono più legati alla denuncia antibellica («Se decideremo le dispute con scontri di sangue, mai la discordia lascerà le città degli uomini», denuncia il coro) e alla necessità di affidarsi, piuttosto che alle parole degli indovini, che suonano «false», al «buon senso» (e sono due servitori a ripetere questo concetto). Così come Euripide sottolinea la labilità della verità: non fu la vera Elena a recarsi a Troia, e per volere degli dei gli uomini si sono inflitti innumerevoli sofferenze.

2019-06-18 20.58.12L’allestimento di Davide Livermore (anche scenografo dello spettacolo) è sorprendente e affascinante al tempo stesso: lo spazio scenico è allagato per portarci con più evidenza sulle sponde del Nilo e del mare. Una dimensione – quella acquatica – ossessivamente ripetuta dal grande schermo tecnologico che per tutto lo spettacolo rimanda quasi sempre immagini di onde in mare aperto. Anche la musica (di Andrea Chenna) riesce a emergere dalla distesa d’acqua. Al centro compare la tomba di Proteo, che risulta quasi un’isola. Accanto, un relitto di nave a completare «uno spazio scenico – scrive Livermore nella sua presentazione – dove affiorano i tanti naufragi di un’esistenza». Un tema, il naufragio, che assume qui evidentemente una grande rilevanza: alla protezione invocata da Menelao nella scena – tragicomica – con la vecchia portinaia (Maria Grazia Solano) viene risposto che «da noi i porti sono chiusi», attualizzando il «rivolgiti a qualcun altro e lascia in pace noi» del testo greco (traduzione di Walter Lapini).

Se la scenografia risulta insolita e coinvolgente (anche il movimento del relitto risulta efficace), altre scelte registiche mi paiono meno convincenti. La più seria è forse il ruolo del coro: nel testo euripideo è composto di schiave greche, con un ruolo di supporto a Elena nelle sue sofferenze e dubbi. Qui sono uomini con un costume anonimo e un ruolo ancora più incomprensibile: risultano utili solo a mimare la battaglia che si svolge sulla nave dove i greci si liberano dell’equipaggio egiziano, ma in tutto il resto della tragedia non hanno giustificazione. Capovolgimento dei sessi anche con Teucro, e risulta francamente inutile, visto che si tratta di un personaggio in cui emerge soprattutto lo spirito guerriero del reduce, segnato dalla guerra sotto le mura di Ilio (così come una donna interpreta il compagno naufrago di Menelao, necessariamente un altro guerriero, che viene a informarlo che la sua moglie si è smaterializzata un aria). Bravi tutti gli attori: Laura Marinoni trasmette l’idea della donna vittima della sua bellezza e ancora innamorata del marito; e riscatta le accuse che ha subito con un accorto piano di fuga, che con il marito riesce a realizzare. Sax Nicosia rende un Menelao che – per una volta nel teatro tragico – appare pronto ad atti di eroismo: omicidio-suicidio sulla tomba di Proteo (contaminandola) se dovesse cadere prigioniero del re. Se il gioco degli specchi delle messaggere con Elena e nella scena finale può rimandare a molti significati (la bellezza che si guarda, realtà e apparenze), genera un po’ di confusione il miscuglio di riferimenti dei costumi (di Gianluca Falaschi): Livermore scrive di aver guardato al gioco di alterazione della verità del librettista Lorenzo Da Ponte nelle sue Memorie. Forse con questo si spiegano gli abiti settecenteschi di Teonoe e di Teoclimeno, ma sembrano in effetti stridere con il resto dell’ambientazione. Il finale con la rappresentazione sullo schermo di un’Elena invecchiata mentre sul palcoscenico muoiono tutti gli altri personaggi non aggiunge gran che alla profezia dei due Dioscuri (anch’essi con un costume piuttosto femminile).

Edipo trova la pace a Colono, ma la sua vita disgraziata resta un mistero

Inda

Il 54° ciclo di spettacoli classici al teatro greco di Siracusa curati dall’Istituto nazionale del dramma antico (Inda) comprende quest’anno due tragedie, Edipo a Colono di Sofocle ed Eracle di Euripide, e la commedia I cavalieri di Aristofane. La presentazione del direttore artistico dell’Inda Roberto Andò parla della «scena del potere», anche se Edipo ne è ormai estraneo, solo di fronte ai problemi esistenziali, ed Eracle, al culmine della gloria, viene stravolto dalla follia. Un tema su cui insiste anche il grecista Luciano Canfora sottolineando nel suo intervento («Tiranno, eroe, governo: ascesa e declino») il rischio che il governante saggio ed equilibrato si trasformi in sovrano assoluto, in tiranno, generando un tragico corto circuito. Delle due tragedie peraltro, mi pare opportuno sottolineare anche il tema della disgrazia in cui possono cadere i potenti, e della difficoltà nel sopportare il peso di sciagure irrimediabili. Un discorso che chiama in causa il destino dell’uomo rispetto a volontà che appaiono a lui superiori, si chiamino dei o fato.

Il dramma di Sofocle che racconta l’ultimo atto della vita di Edipo è una tragedia molto particolare. Non c’è infatti un vero e proprio evento di sangue: Edipo muore, ma senza soffrire, quasi “beato”, pacificato con gli dei che avevano oscuramente determinato la sua vita a un destino di parricida e incestuoso. La tensione tragica si proietta sulla guerra fratricida che incombe tra Eteocle e Polinice, destinati a uccidersi a vicenda, distruggendo la famiglia di Edipo. Ma il testo di Sofocle è anche molto altro: costituisce un omaggio del poeta novantenne alla sua patria, quel borgo di Colono, di cui il tragediografo era originario, e dove si trovava una “tomba di Edipo”, in un luogo caratterizzato dall’aura di soprannaturale per un bosco sacro, dove si percepiva la presenza delle dee “innominabili”, le Eumenidi (trasformazione benefica delle Erinni). E di Atene celebra la gloria non solo nella figura del mitico re Teseo, ma anche nei canti corali: dall’ambiente naturale rigoglioso di Colono e in generale dell’Attica al rispetto religioso che caratterizza l’intera città, consacrata ad Atena, ma che onora l’intero pantheon olimpico. A una meditazione sulla fragilità umana sono dedicati gli ultimi due canti corali, composti da un uomo che vedeva ormai vicino l’ultimo traguardo. La tragedia – che fu rappresentata postuma verosimilmente nel 405 a.C. – risente della mancanza di un’ultima revisione dell’autore, come nota Giulio Guidorizzi in diversi punti del suo commento (pubblicato nella collana “Scrittori greci e latini” della Fondazione Valla-Mondadori). E secondo Albin Leski (nella sua Storia della letteratura greca) «non si può ignorare che il legame fra le varie parti sia meno solido che nelle opere del periodo migliore; anche la continuità e la scioltezza dello sviluppo drammatico non sono le stesse». Peraltro «in virtù della sua generale intonazione lirica questa tarda tragedia contiene alcune perle della poesia corale sofoclea».

20180525_192747_001Edipo (Massimo De Francovich) giunge a Colono, sobborgo di Atene, presso un boschetto sacro, nella condizione di vecchio cieco e malandato, accompagnato dalla figlia Antigone (Roberta Caronia), che costituisce il sostegno indispensabile alla sua sopravvivenza. Capisce di essere arrivato al luogo della sua morte, secondo quanto gli avevano predetto gli oracoli. L’arrivo dell’altra figlia Ismene (Eleonora De Luca) ricompone un nucleo di pietà familiare contrapposto ai figli maschi che non hanno difeso il padre, preoccupandosi solo di prendere il potere su Tebe. Ma il percorso di Edipo verso una fine che ponga termine alle sue sofferenze è ancora irto di ostacoli: innanzi tutto deve farsi accettare dalla nuova comunità cittadina, e cerca di liberarsi dello stigma che lo marchia protestando vigorosamente la sua “innocenza”, perché inconsapevole che fosse Laio e che fosse suo padre l’uomo che egli anni prima aveva ucciso, e tanto meno che Giocasta fosse sua madre. Alla iniziale presa di distanza degli abitanti di Colono, preoccupati della contaminazione del supplice, fa da contraltare l’accoglienza che gli accorda il re Teseo (Sebastiano Lo Monaco), che porta in scena i valori dell’umanità ateniese. A cercare di riportare Edipo nella lotta per il potere a Tebe giungono prima Creonte (Stefano Santospago), poi il figlio Polinice (Fabrizio Falco): ancora un oracolo aveva predetto che la vittoria sarebbe toccata a chi avrebbe potuto contare sul sostegno di Edipo. In due scene successive il vecchio ma ancora iroso Edipo – reso anche più sicuro dall’essere stato integrato tra i cittadini stranieri di Atene – rifiuta ogni tentativo di essere sostegno di una delle parti in causa: Creonte è rappresentante della città governata da Eteocle, che rifiutando di rispettare il patto dell’alternanza ha provocato la reazione di Polinice, che si prepara a muovere guerra alla sua patria. Tuoni a cielo sereno avvisano Edipo che è giunta l’ora della fine: si allontana accompagnato da Teseo e dalle figlie e un messaggero (Danilo Nigrelli) riferirà della sua misteriosa scomparsa, senza dolore, in un luogo noto solo al re ateniese.

IMG_4944L’allestimento siracusano del regista greco Yannis Kokkos, da tempo attivo in Francia, si fa apprezzare innanzi tutto per la qualità degli interpreti. In scena per quasi tutto il dramma, De Francovich riesce efficace in tutto il registro drammatico: da quando compare mendico e sfinito a quando supplica il coro dei cittadini di Colono di accoglierlo, dall’invettiva contro Creonte e Polinice all’accettazione della chiamata finale degli dei verso la sua morte misteriosa. Anche Roberta Caronia (già Antigone nel 2009, la precedente rappresentazione dell’Edipo a Colono a Siracusa, una delle ultime presenze su un palcoscenico di Giorgio Albertazzi) difende appassionatamente il diritto del padre a trovare finalmente pace. Bravo Stefano Santospago a mostrare il volto odioso e ipocrita del potere, che usa le persone per i propri scopi: vestito in modo elegante, ma accompagnato da uomini armati, non esita a rapire le figlie di Edipo quando vede preclusa la via della persuasione. Sebastiano Lo Monaco troneggia calmo ma deciso nel proteggere il suo ospite e nel rendergli giustizia. Fabrizio Falco, roso dalla rabbia verso il fratello, spera invano che il padre abbia dimenticato il trattamento ricevuto dai figli. Meno convincenti mi sono parse invece altre scelte: se l’enorme busto di spalle che domina il palcoscenico allude efficacemente a Edipo che si appresta a lasciare la scena del mondo, non altrettanto comprensibile è lo svolgimento di tutta l’azione drammatica all’interno di quel perimetro “sacro” da cui all’inizio i coloniati fanno allontanare il supplice. La torretta militare e il filo spinato orientano precisamente l’attenzione sul tema del confine e della difesa armata, trascurando però la bellezza di un ambiente incantevole e fiorente (ben noto al pubblico ateniese perché si trovava a breve distanza dal teatro in cui si rappresentava la tragedia). Anche i costumi, con un prevalere complessivo di tonalità scure e neutre (a parte Creonte), trasmettono un senso di uniformità che mi pare contrastare con la vivacità del testo sofocleo: a parte l’ovvia modestia dell’abbigliamento degli esuli, quello del re Teseo, ma anche quello degli ateniesi e che lo accompagnano e dei coloniati che lo attendono, meritavano forse maggior risalto.

Una riflessione finale sul destino di Edipo è ineludibile. Il potente sovrano che era precipitato nell’orrore di due delitti esecrabili nella tragedia più nota (Edipo re) appare qui un reietto, e ormai prossimo alla fine. Tuttavia – in modo misterioso – gli dei gli hanno assicurato non solo una morte a suo modo “eroica”, ma anche che il suo corpo rappresenta un valore, un bene inestimabile per chi lo ospiterà (agli ateniesi non poteva sfuggire il ricordo della vittoria militare conseguita contro i tebani nel 407 a.C. anche grazie all’intervento – si diceva – del fantasma di Edipo). Tuttavia pare un “riscatto” che non ripaga lo sventurato figlio di Laio e la sua (e nostra) sete di giustizia. Il testo di Sofocle, peraltro spesso presentato in una anomala trilogia con Edipo re e Antigone (composte decenni prima), contiene inoltre una delle affermazioni più cupe del pessimismo umano (traduzione scenica di Federico Condello per l’Inda): «Non essere mai nati è la fortuna che supera ogni altra. Ma se l’uomo viene alla luce, ritornare presto là da dove è venuto è la migliore sorte che ti rimane» (vv. 1224-8). Per quanto si tratti di espressioni tipiche, come osserva Guidorizzi, di una tradizione della poesia lirica (per esempio Teognide), sembra di leggere una resa circa la possibilità di una comprensione del reale: siamo ben lontani da qualche consolatoria interpretatio christiana per la sorte di Edipo, opportunamente rifiutata dal traduttore Condello.

Carta, foto, pietre… Rane: mille motivi per visitare Siracusa

20170609_105031Oltre a poter assistere alle ultime rappresentazioni delle Rane di Aristofane al teatro greco (terminano domenica 9 luglio), una visita in questi giorni a Siracusa permette di scoprire alcune mostre interessanti, legate all’antichità classica ma non solo. Innanzi tutto la tradizionale «Inda Retrò», che l’Istituto nazionale del dramma antico dedica alle precedenti rappresentazioni delle opere in cartellone. Quest’anno la mostra è divisa in tre parti. La prima sono documenti, foto e testi, e abiti di scena appunto di Sette contro Tebe, Fenicie e Rane. L’opera di Eschilo è stata rappresentata tre volte (nel 1924, 1966, 2005), quella di Euripide solo nel 1968 e la commedia di Aristofane nel 1976 e nel 2002. Esaminando i documenti nelle vetrine si scoprono alcune curiosità, come il fatto che le stagioni negli anni Sessanta erano molto corte (19 giorni nel ’66 e nel ’68), o che nel 1976 la terza opera, la commedia plautina Rudens, fu rappresentata all’anfiteatro romano di Siracusa. E si trovano spartiti musicali, lettere, locandine e foto ancora in bianco e nero degli spettacoli. Completa la rievocazione, un filmato a cura di Franca Centaro, che permette di vedere dal vivo brani di alcune delle più recenti rappresentazioni.

In un’altra sezione («La città come scena, la città nella scena») si esamina lo sviluppo architettonico-urbanistico di Siracusa nel corso dei decenni dal particolare punto di osservazione rappresentato dal teatro greco con focus sugli anni 1970, ’84, ’96, 2000 e 2012. La ricostruzione è a cura della facoltà di Architettura dell’Università di Catania con sede a Siracusa. Infine «Il superbo spettacolo», a cura di Angela Gallaro Goracci, è un esame dell’evoluzione del pubblico nel corso del tempo con una foto per ogni decennio: dalla folla negli anni Venti (ma gli uomini erano in giacca e cravatta) ai giovani con gli smartphone degli anni Duemila.

20170611_204520Costituisce un ulteriore motivo di interesse il fatto che le tre mostre sono ospitate nell’atrio del Teatro Comunale di Siracusa, che è stato rimesso a disposizione solo da pochi mesi dopo un lungo lavoro di restauro. Il teatro, che risale alla fine dell’Ottocento, era infatti chiuso da più di cinquant’anni e la sua riapertura offre un nuovo motivo di interesse e un’occasione di arricchimento culturale per la città. Spiccano nell’atrio tre magnifici lampadari in vetro di Murano, dono di Dolce&Gabbana, ma tutta la struttura è stata rimessa a nuovo in modo esemplare. E nelle sere dei fine settimana è possibile usufruire di una visita guidata che illustra la storia e le particolarità dell’edificio.

20170706_121514Curiosità antiquaria e tanta passione sono invece presenti nella piccola ma interessante esposizione aperta nella Sala Caravaggio dell’ex museo archeologico in piazza Duomo. «Memorie su Carta» rievoca la figura del disegnatore Rosario Carta (1869-1962) che fu prezioso collaboratore degli archeologi che si sono succeduti dalla fine dell’Ottocento alla guida della Soprintendenza alle antichità (ora ai Beni culturali e ambientali), da Paolo Orsi a Giuseppe Cultrera a Luigi Bernabò Brea. La mostra, a cura di Rosalba Panvini e Marcella Accolla, documenta l’attività di questo figlio della terra siracusana (era nato a Melilli) affiancò le operazioni di scavo in diversi luoghi della Sicilia (oltre a Siracusa, anche Eloro, Gela, Camarina e altri), documentando con disegni accurati i reperti che venivano portati alla luce, prezioso complemento delle relazioni degli archeologi. Ed ebbe anche la capacità di mantenersi aggiornato, prendendo confidenza con la nuova arte della fotografia che stava affermandosi. Scrisse di lui Paolo Orsi nel 1919: «Le terrecotte architettoniche di via Minerva oltre che da me furono amorosamente e con le più grandi cure esaminate e scrutate dal mio valoroso collaboratore, il disegnatore Sig. R. Carta, che in questa materia è diventato un pratico di singolare perizia, nel riconoscere la ragione e la funzione di ogni singola parte, di ogni minuto particolare. Egli ha sempre diretto e vigilati i restauri abilmente eseguiti dal restauratore G. D’Amico; ed alla sua perspicacia, oltre che alla mano abilissima per i disegni e gli acquarelli, io devo una quantità di preziose osservazioni, di cui ho fatto tesoro nel presente studio».

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La stanza dell’ipogeo che fu dedicata a santa Lucia

Infine, ma non per importanza, la mostra «Siracusa. Immagine e immaginario. Verso un museo della città» (fino al 15 ottobre) ospitata nell’ipogeo di piazza Duomo, riaperto solo pochi anni fa. Realizzata in occasione dei 2750 anni di Siracusa a cura dell’Archeoclub Siracusa da un’idea di Fabio Granata e uno studio di Liliane Dufour, offre testimonianza interessanti dal Cinquecento a oggi: dalle cartografie cinquecentesche a plastici in legno settecenteschi fino alle fotografie noventesche. L’ipogeo, che si apre sotto il giardino dell’arcivescovado con il suo splendido limoneto, e finisce a livello del mare al Foro Vittorio Emanuele II, nasce in epoca arcaica come cava di pietra, che fu usata per molti edifici, compresa la cattedrale (già tempio di Atena), e tornò utile durante la seconda guerra mondiale quale rifugio antiaereo per la popolazione. Toccanti le foto esposte delle torme di bambini lì rifugiati, curioso il privilegio dei nobili di avere una stanza per sé (dove peraltro saranno stati piuttosto stretti…), emozionante la devozione che fece riservare un apposito vano – con porta serrata – al simulacro di santa Lucia, qui trasferito insieme con ex voto e tesoro, evidentemente ritenuti patrimonio spirituale importante per la popolazione e meritevoli di essere messi in salvo.

Sette guerrieri che fanno paura al popolo di Tebe

20170610_110521Un doppio confronto tra Eschilo ed Euripide caratterizza la stagione del 53° ciclo di spettacoli classici al teatro greco di Siracusa: le due tragedie della saga tebana, i Sette contro Tebe e le Fenicie, e poi la commedia di Aristofane, le Rane, centrata sulla gara fra i due tragediografi per il primato nell’Ade. Sullo sfondo le celebrazioni per i 2750 anni della città di Siracusa, che si intrecciano nella riflessione sulla gestione del potere, uno dei temi principali delle due tragedie in scena.

Nei Sette contro Tebe viene rappresentata la guerra dal punto di vista della popolazione di una città  assediata, che vive la paura di finire conquistata, uccisa o brutalizzata. Ma anche la lotta per il potere, sempiterna fonte di divisione all’interno delle comunità o addirittura delle famiglie. Come nella stirpe di Laio, le cui sciagure non si esauriscono nel figlio Edipo, ma portano alla completa rovina anche i suoi figli Eteocle e Polinice. Il testo di Eschilo è uno dei più arcaici (467 a.C.) tra quelli a noi pervenuti (secondo solo ai Persiani), e rappresentò la “rivincita” dell’anziano poeta su Sofocle, che aveva esordito con un successo al concorso ateniese l’anno precedente. La vicenda è quella della guerra che Polinice porta alla sua città, Tebe, accompagnato da un grande esercito di Argivi, arricchito dalla guida di alcuni fortissimi eroi. A contrapporlo alla sua patria è l’esilio comminatogli dal fratello Eteocle, che si è rifiutato di cedergli il comando della città alla fine del suo turno, come invece era stato stabilito. Se il «dramma pieno di Ares», come lo definì Gorgia (e poi Aristofane nelle Rane) terminerà con la salvezza di Tebe, lo scontro fratricida porterà ad avverarsi la maledizione che Edipo aveva lanciato verso i suoi figli, di dividersi l’eredità con la spada.

L’allestimento siracusano risulta efficace nel rappresentare l’angoscia che pervade la popolazione: la scena (di Carlo Sala), molto lineare, senza fondali, sabbiosa, presenta al centro un grande albero, sede degli altari degli dei. Questa area, che sembra grande, rappresenta l’interno della città assediata: la cavea del teatro funge da mura, oltre le quali si sentono i rumori di guerra, gli strepiti dei carri e dei soldati, gli assalti alle fortificazioni, i colpi delle armi (l’accompagnamento musicale è di Mirto Baliani). Il coro vaga per la città e trova riparo solo presso il grande albero. Eschilo mette nel coro solo donne, mentre il regista Marco Baliani inserisce anche uomini. Non è l’unico adattamento, più o meno riuscito, per cercare di dare spessore scenico a un testo breve (poco più di mille versi, una delle più corte tragedie pervenuteci) scritto per un teatro veramente lontano nel tempo. Ecco quindi l’introduzione della figura di un aedo (Gianni Salvo) che viene a illustrare la storia della famiglia e chiarire gli antefatti, di cui nella trilogia di cui i Sette erano la conclusione (le prime due tragedie erano Laio ed Edipo) il pubblico ateniese aveva avuto piena rappresentazione poco prima (anche se nulla sappiamo del modo in cui Eschilo trattava il mito reso poi “canonico” da Sofocle).

Versione 2Eteocle (Marco Foschi) inizia a recitare da lontano, da quella ex casetta dei mugnai che caratterizza il panorama del teatro greco di Siracusa, sul colle Temenite. Anche un semplice accenno a Tiresia nel testo eschileo viene sfruttato per far comparire in scena il vecchio indovino, anche se non pronuncia alcuna parola e il suo responso viene riferito dallo stesso Eteocle. Un’altra innovazione: Eschilo fa dialogare Eteocle con la capocoro, che Baliani trasforma nel personaggio di Antigone (Anna Dalla Rosa). È lei quindi a guidare la preghiera disperata delle giovani di Tebe (e qui anche degli uomini) che si rivolgono agli dei perché salvino la città sotto assedio, e impediscano che esse stesse siano rese schiave o uccise dai vincitori. Una preghiera che il re contesta vigorosamente, in quanto indizio di paura, con parole misogine e chiede piuttosto di domandare la vittoria per i soldati. Il messaggero (Aldo Ottobrino, che parla dall’alto di una quinta laterale in pietra, come fosse sulle mura) illustra le qualità belliche dei sette condottieri nemici (Tideo, Capaneo, Eteoclo, Ippomedonte, Partenopeo, Anfiarao e Polinice) pronti ad assalire le sette porte di Tebe, descrivendo minuziosamente gli emblemi dipinti sui loro scudi, accrescendo la tensione e la paura del coro. A ciascun nemico Eteocle contrappone i campioni della città riservando a sé la difesa della porta che sarà attaccata da Polinice. Pur scongiurato dal coro di evitare lo scontro fratricida, Eteocle ritiene inevitabile andare incontro al proprio destino.

Copia di 20170609_200139Apprezzabile lo sforzo di vivacizzare una narrazione che appare statica e lontana dal gusto moderno con evoluzioni dei guerrieri che prendono posto davanti a sette cippi a simboleggiare le sette porte. Così come la scena del combattimento (virtuale perché i nemici non compaiono) riempie efficacemente un tempo teatrale altrimenti povero. Infine, ancora la narrazione di un messo, mentre il crollo dell’albero al centro della scena indica la rovina della stirpe di Edipo, riferisce della salvezza della città, ma anche dell’esito funesto dello scontro fratricida. Antigone e Ismene compiangono i fratelli morti, ma subito si profila il nuovo conflitto (si tratta di versi probabilmente non autentici della tragedia): un altoparlante (trovata poco felice) emerge dal suolo e proclama la decisione dei capi della città di riservare onori funebri a Eteocle, che ha difeso la patria, e di abbandonare insepolto il cadavere di Polinice che le ha portato guerra. Un ordine che Antigone si propone subito di trasgredire. Ricompare l’aedo a preannunciare che nuove sciagure si attendono.

In definitiva, un dramma corale che trasmette bene il senso di paura prima e sollievo poi, di una popolazione alle prese con gli orrori della guerra: situazione, come osserva il regista Baliani, vissuta ancora ai nostri giorni, da Sarajevo ad Aleppo. Convincenti anche gli attori, in particolare Eteocle e Antigone, che tengono bene la scena, riuscendo a far “dimenticare” di essere gli unici personaggi chiamati a dialogare.