Domani si apre a Caserta il convegno di pastorale sanitaria della Conferenza episcopale italiana (Cei). In quella sede Barbara Mangiacavalli, presidente Federazionale nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi), illustrerà il nuovo Codice deontologico degli infermieri. Qualche anticipazione nella mia intervista pubblicata giovedì scorso su Avvenire, accanto alla presentazione dell’evento Cei
«È un Codice deontologico che ha recepito l’aggiornamento della professione infermieristica e alcune novità legislative, mantenendo e sottolineando la qualità del nostro rapporto di relazione e di cura con il paziente». La presidente Fnopi (Federazionale nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche) Barbara Mangiacavalli illustrerà il nuovo Codice al convegno di Pastorale sanitaria della Cei a Caserta: «Il tema del convegno dedicato al “tocco terapeutico” – osserva Mangiacavalli (direttore sociosanitario alla Azienda sociosanitaria territoriale Nord Milano) –, è proprio vicino al nostro lavoro».
Perché un nuovo Codice deontologico?
Il vecchio Codice era del 2009, il percorso per aggiornarlo è partito nel 2016. In più nel frattempo sono state approvate alcune misure significative: dalla legge 24/2017 sulla responsabilità delle professioni sanitarie alla legge 219/2017 sulle Dat fino alla legge 3/2018 che ha riformato gli Ordini e ha portato alla nascita della Fnopi, con il ruolo di enti sussidiari dello Stato. Era necessario definire la carta valoriale, su cui si esercita la magistratura interna.
Quali sono le principali novità?
Oltre all’adeguamento alle nuove norme (per esempio la funzione peritale), abbiamo rinforzato il concetto di libertà di coscienza. Abbiamo posto un focus sull’organizzazione del mondo del lavoro, molto cambiata, e sull’esercizio della libera professione, che ha portato con sé anche aspetti negativi.
L’art. 4 recita che il tempo di relazione è tempo di cura: è difficile applicarlo nella sanità?
È un concetto a cui crediamo molto: l’abbiamo reso così esplicito perché riteniamo che siano sbagliati calcoli eccessivamente minuziosi su minutaggi e tempi contingentati, perché si perde l’elemento valoriale della relazione privilegiata della cura con la persona. L’infermiere diventa punto di riferimento dei bisogni del malato, interviene nella concertazione delle cure e dell’assistenza: noi vogliamo mantenere questo tipo di rapporto.
Alcuni articoli si riferiscono al percorso di cura, alla gestione del dolore, al fine vita e al rifiuto di prestazioni infermieristiche. Quali sono i problemi?
Il consenso alle cure infermieristiche non è previsto per legge, che parla solo di prestazioni sanitarie. Ma in alcuni momenti particolari può capitare che un problema assistenziale abbia due o tre possibili trattamenti diversi: il paziente va informato e diventa importante tener conto della sua volontà nel preferirne uno e rifiutarne un altro. Così come nella legge sul fine vita, anche se l’infermiere non è espressamente nominato.
Quanto vale per l’infermiere il «tocco terapeutico», di cui parla il convegno di Caserta?
Ci fa piacere questo riferimento perché è vicino al sentire degli infermieri. Con la Cei abbiamo collaborato nel lungo percorso di elaborazione del Codice, che ha coinvolto società civile, associazioni di pazienti e rappresentanti delle religioni. La presentazione ufficiale del Codice sarà a Roma il 21 giugno.
La mia intervista al primario dell’hospice della Asl di Livorno, suor Costanza Galli, uscita su Avvenire di giovedì scorso. A seguire, don Massimo Angelelli anticipa qualche aspetto del documento sulla fine della vita terrena, che la Cei diffonderà il mese prossimo. Anche questo articolo è stato pubblicato sulle pagine della sezione è vita di Avvenire, l’11 aprile.
Costanza Galli
«Occorre combattere una battaglia culturale per favorire cure e assistenza alle persone in ogni condizione e in ogni momento della vita. Anche per i miei pazienti in hospice c’è sempre qualcosa da fare in positivo: le cure palliative sono un dovere per offrire una morte degna a ogni persona, la cui vita è sempre degna». Suor Costanza Galli, primario dell’hospice dell’ospedale di Livorno (Usl Toscana Nord Ovest), offre un duplice sguardo sulle terapie nel fine vita, sulle disposizioni anticipate di trattamento (Dat) e nel dibattito sull’eutanasia: ha la sensibilità delle Figlie della Carità di san Vincenzo de’ Paoli, e la competenza del medico in un ospedale pubblico.
Come è nata questa sua duplice vocazione, di medico e di suora?
Si tratta di due chiamate a cui ho risposto. Prima a quella di medico: lo sognavo sin da bambina, alle elementari giocavo con le valigette del dottore. La vocazione religiosa è sorta durante l’università, ma mi sono laureata e specializzata prima di diventare suora. E come ha insegnato san Vincenzo, nel malato vedo il povero e la presenza stessa di Cristo. Come medico ho il mio curriculum, nell’ospedale pubblico sono giunta vincendo concorsi, condivido i turni, le notti, il lavoro festivo, il cartellino da timbrare…
Nel fine vita come si preserva la dignità dei malati?
Oggi siamo di fronte a forti contraddizioni. Sui media si sventola la bandiera dell’autodeterminazione e sembra che ci sia un esercito di persone che vuole “autodeterminarsi”, o chiede l’eutanasia. In hospice rileviamo che è molto più ampia la quantità di persone che non sa nemmeno da quale ma-lattia è affetto, perché i familiari non vogliono. Il concetto della dignità è il problema culturale di oggi, e lo rilevo anche fuori dall’ospedale. Sembra che non sia più considerata una caratteristica propria dell’essere umano, da quando nasce a quando muore. Viceversa è diffusa l’idea che la dignità sia un bene accessorio, che dipende dalle situazioni, dalle capacità e dalle prestazioni. Per noi cristiani la persona, creata a immagine e somiglianza di Dio, ha sempre un’altissima dignità. Ma anche prescindendo dalla visione religiosa, la dignità è un concetto antropologico fondamentale, riguarda tutti indipendentemente dalle condizioni: non la cambiano né malattia né colore della pelle, né colpa.
Che conseguenze ha nella pratica clinica questa idea di dignità?
Se si pensa che la vita sia degna “solo se” ha determinate caratteristiche o funzionalità è facile poi ritenere che a un certo momento, in loro assenza, la vita “non sia più degna” e si favoriscano soluzioni eutanasiche. Un’idea che si riscontra non solo tra i cittadini ma talvolta anche tra gli operatori sanitari. E un concetto “funzionalistico” di dignità fa sì che anche le relazioni con gli altri finiscano con avere importanza “solo se” e fino a quando mantengono certe caratteristiche, se mi portano vantaggi.
La legge sulle Dat ha cambiato la vostra attività?
Ho viste ben poche novità, finora. Il problema di solito è quello del corretto consenso informato. Quando si offrono cure anche i malati in hospice guardano alla vita in modo diverso. Ricordo una giovane donna che siamo riusciti a mettere in carrozzina: ci ha ringraziati, e già guardava all’obiettivo successivo di mettersi in piedi. Faccio coordinamento su un territorio ampio: le sofferenze maggiori dei malati, e le rare richieste di farla finita, mi sono giunte non da chi soffriva troppo ma da chi si sentiva un peso per gli altri, per i familiari, o si vedeva inadeguato al modello “funzionalistico”.
Una legge sull’eutanasia cosa comporterebbe per il lavoro in hospice?
Sarebbe una contraddizione. Come cittadina mi domando perché lo Stato dovrebbe dare la possibilità di togliersi la vita a un paziente al quale non sa invece garantire, con le cure palliative, tutte le opportunità di cui ha bisogno e diritto. Ci sono ricerche scientifiche che confermano che le richieste di eutanasia calano dove sono disponibili cure palliative adeguate. In Italia c’è un’ottima legge (la 38 del 2010) sulle cure palliative, naturale antidoto all’accanimento e all’eutanasia: ma nonostante facciano parte dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) le cure palliative non sono ancora adeguate né distribuite equamente sul territorio. E su di esse non rilevo nemmeno grande pressione della società civile, che protesta spesso per le mancanze della sanità. Il progetto di legge in discussione ora mi pare ambiguo: non distingue il malato terminale da chi non lo è. La rinuncia a interventi come nutrizione e idratazione, che può avere senso in un paziente terminale, assume un significato diverso se il soggetto è in stato vegetativo: in questo caso la morte avviene perché ho interrotto la nutrizione, non per una malattia.
Su fine vita e «morte degna» in arrivo la riflessione della Chiesa italiana
Un documento sulla fase terminale della vita terrena e un convegno nazionale che dal 13 al 16 maggio riunirà a Caserta il mondo della sanità cattolica in Italia, ma anche medici e infermieri: quattro giorni fitti di incontri – scientifici e pastorali – intorno al tema «Feriti dal dolore, toccati dalla grazia. La pastorale della salute che genera il bene». Annunciato nel comunicato finale dell’ultimo Consiglio permanente della Cei «il documento – spiega don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la Pastorale della salute – nasce dalla necessità di mettere ordine sulle questioni del fine vita, con un punto di vista diverso dalla lettura attuale. I vescovi parleranno di fine della vita terrena, per recuperare l’apertura della dimensione escatologica. Si parlerà, in positivo, di difesa della vita, di difesa della libertà e della dignità della persona, di apertura alla vita dopo la vita terrena. E riaffermando le verità della fede: autodeterminazione del paziente, diritto a una morte degna e tutela della libertà di coscienza ». Su questo tema, ricorda don Angelelli, il Papa ha pronunciato parole importanti, di ritorno dal Marocco: «Oggi noi cristiani abbiamo il pericolo che alcuni governi ci tolgano la libertà di coscienza, che è il primo passo per la libertà di culto». E mentre c’è chi sostiene il «diritto a morire», «la nota affermerà che non esiste – sottolinea don Angelelli –. Se si proclama un diritto, devono esserci le condizioni per esercitarlo: e per legge ne scaturisce un dovere. Se c’è il diritto a morire, e non sono in grado di esercitarlo da solo, qualcuno deve aiutarmi: ne deriva il dovere di qualcuno a uccidermi. Si cancella l’idea stessa di società civile».
Nessun equivoco sulla “morte degna”: «Significa accompagnamento, cure palliative, un luogo degno: non significa abbreviare il tempo. Per noi tutte le vite sono degne: per una morte degna occorre favorire le cure palliative (con piena attuazione alla legge 38) e l’apertura di hospice, la risposta scientifica più adeguata». Un ambito ben noto alla sanità cattolica: «Da mesi si riunisce in Cei un tavolo per redigere una “carta identitaria” dei 21 hospice cattolici per garantire una morte degna».
Oltre al rilievo pastorale, il convegno di Caserta (iscrizioni su http://www.convegnosalute.it) ha un alto profilo scientifico: «Ci sono molte sessioni accreditate Ecm – chiarisce don Angelelli – che si rivolgono a tutto il mondo dei sanitari, medici e infermieri: malattie neurodegenerative, autismo, asma pediatrico. Presenti anche il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo), Filippo Anelli, e la presidente della Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi), Barbara Mangiacavalli. Proprio la Fnopi presenterà il nuovo Codice deontologico degli infermieri: un bel gesto di collaborazione che dà prestigio al nostro convegno».
Dopo il senso della vista, quest’anno si affronta il tatto: «Parleremo del tocco di Dio, dal punto di vista biblico, poi del tocco che ferisce: violenza di genere, bullismo, errore medico, violenze spirituali. Infine del tocco che guarisce». Conclude don Angelelli: «La pastorale della salute non può viaggiare in parallelo, ma deve collaborare con la sanità. E il mondo medico-scientifico riconosce ormai che la dimensione spirituale appartiene all’identità della persona: non basta la cura della malattia, occorre una presa in carico globale».
Concluso ieri a Roma il congresso della neonata Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche, ecco un’intervista alla presidente Barbara Mangiacavalli che parla anche dell’udienza con papa Francesco di sabato 3 marzo. Il mio articolo oggi su Avvenire nelle pagine della sezione è vita
Gli infermieri sono «il volto umano della sanità», ma l’appropriatezza e la competenza necessarie al letto del paziente richiedono alta professionalità. Servono maggiori investimenti nelle cure sul territorio, più adatte ad affrontare la cronicità di una popolazione che invecchia, magari attraverso la figura dell’infermiere di famiglia. Temi emersi al primo congresso nazionale della neonata Fnopi (Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche) che si è chiuso ieri a Roma, e che era stato anticipato da un’udienza con papa Francesco: «L’avevamo chiesta fin da novembre. È stato un momento molto sentito, ha colto nel profondo le caratteristiche della nostra professione e si è fatto quasi nostro “sindacalista”» commenta Barbara Mangiacavalli, presidente Fnopi, che lavora quale direttore sociosanitario alla Azienda sociosanitaria territoriale (Asst) Bergamo Ovest.
Perché la Federazione dei Collegi Ipasvi (infermieri professionali, assistenti sanitari, vigilatrici d’infanzia) è diventata Fnopi?
Ordini e Collegi sono nati a metà degli anni Quaranta, e la distinzione dipendeva dal titolo di studio: Ordini per i laureati, Collegi per i diplomati. Ma dagli anni Novanta, prima con un doppio canale, poi dal ’94-’95 in modo esclusivo, la formazione infermieristica avviene in università. La modifica era quindi necessaria da tempo. Ora la “legge Lorenzin” (3/2018) ha rinforzato il compito degli Ordini professionali di tutelare del cittadino, certificando le competenze dell’infermiere. Gli Ordini inoltre sono passati da enti ausiliari a enti sussidiari dello Stato, ampliando le competenze soprattutto sulla vigilanza contro l’abusivismo e sui procedimenti disciplinari per le violazioni al Codice deontologico.
Perché avete chiesto l’udienza con il Papa?
Abbiamo sempre avuto il desiderio di incontrare papa Francesco perché negli anni ha fatto molti accenni alla nostra professione. Avevamo già partecipato a un’udienza del mercoledì in piazza San Pietro, ma abbiamo osato chiedere un’udienza privata. Quando ci è stata offerta la data del 3 marzo, è parso una specie di prologo, in continuità ideale e simbolica, al nostro congresso, che era già fissato dal 5 al 7 marzo.
Il Papa vi ha definiti “esperti in umanità”: che effetto vi hanno fatto le sue parole?
Il Papa è riuscito a muovere le corde più profonde dei 6.500 infermieri presenti. Ha parlato quasi da infermiere, si è dimostrato un profondo conoscitore della nostra professione, dei nostri punti di forza e delle nostre debolezza. Ci ha esortato a custodire i primi e a lavorare sulle seconde. Idealmente è diventato un po’ anche il nostro “sindacalista”, ha rappresentato le nostre istanze in maniera chiara e puntuale.
Francesco ha sottolineato la vostra “tenerezza” nel “toccare” i malati. Si può dire che l’ infermiere rappresenta il volto umano della medicina?
Gli infermieri sono il volto umano della sanità, anche perché hanno questo privilegio di toccare le persone. Il tocco assistenziale è un gesto professionale, accompagnato da competenze e appropriatezza clinica, lavoriamo con le persone e con il loro corpo, abbiamo questo privilegio più di altri professionisti della sanità perché siamo presenti sulle 24 ore.
Che cosa è l’infermiere di famiglia?
Una figura su cui stiamo pensando da tempo. Al congresso abbiamo avuto modo di confrontarci con il ministero della Salute, con l’ Agenzia nazionale per i servizi sanitari, con l’ Università: la necessità è riconosciuta da tutti. Stiamo lavorando sulla creazione di reti territoriali, ma la strada è ancora lunga. I dati epidemiologici dicono che il nostro Paese invecchia, le malattie croniche toccano un terzo della popolazione: alcune sono ben controllate, altre si sommano a produrre fragilità e non autosufficienza. Abbiamo bisogno di disegnare un modello di sanità e di assistenza che superi la gestione solo ospedaliera, e punti sul territorio: e il ruolo degli infermieri può essere solo rinforzato e valorizzato.
È solo una questione di risparmio?
Il Servizio sanitario non è solo un costo, ma anche una risorsa. Deospedalizzare e garantire un’assistenza territoriale efficace risponde a criteri di appropriatezza economica, oltre che organizzativa e clinico-assistenziale. L’ospedale deve essere reso più efficace ed efficiente sulle patologie acute. Ma sulla cronicità occorrono modelli organizzativi diversi, più economici ma anche più appropriati, come i cosiddetti reparti di cure intermedie.
Il direttore generale di Aifa, Mario Melazzini, ieri ha “aperto” alla prescrizione da parte degli infermieri, ma i medici hanno subito contestato l’idea. Che cosa ne pensa?
Forse è stato un po’ frainteso. Melazzini si è dimostrato disponibile a iniziare una riflessione e ha ben specificato che bisogna ridisegnare il quadro normativo, non è un percorso che si realizza domani. Si tratterebbe di presidi, ausili, alimentazioni speciali, medicazioni. È importante ragionarne, conciliando esigenze e aspettative di tutti.