Le acquisizioni scientifiche e assistenziali e le richieste delle famiglie di pazienti usciti dal coma presentati al convegno del Centro ricerche sul coma, attivo da dieci anni all’Istituto neurologico Besta di Milano. Il mio articolo uscito oggi sulle pagine di Avvenire

La ricerca della cura e dell’assistenza migliore alle persone con gravi disturbi della coscienza, l’ascolto e il sostegno a famiglie catapultate in situazioni inedite e misteriose, e oggettivamente difficilissime. Ma anche la richiesta di percorsi meno condizionati da prescrizioni burocratiche che non rispettano la varietà e l’evolversi delle condizioni cliniche, spesso imprevedibili in chi è vittima di traumi cranici o ischemie cerebrali. Sono i temi affrontati ieri al convegno «Il percorso Coma to community» all’Irccs neurologico “Carlo Besta” di Milano da medici, rappresentanti delle istituzioni e delle associazioni dei familiari riunite nella Rete (presieduta da Gian Pietro Salvi) e nella Fnatc, Federazione nazionale associazioni trauma cranico (guidata da Paolo Fogar).
L’attenzione suscitata dalla tragedia di Eluana Englaro ha permesso dieci anni fa la nascita al Besta del Centro di ricerca sul coma (Crc) – ricorda la direttrice Matilde Leonardi – che ha ha dato avvio a significativi approfondimenti di quella “scienza della coscienza” che sembrava appartenere solo alla filosofia. «Abbiamo strumenti molto più raffinati – puntualizza Leonardi – che permettono ora di standardizzare le diagnosi evitando quel 40 per cento di errate indicazioni di stato vegetativo invece che di minima coscienza». Ma anche sul fronte dell’assistenza «abbiamo imparato a curare meglio i pazienti che nelle lungodegenze vivono meglio, di più e con meno complicanze. Ci sono voluti anni, e la denuncia disperata di una madre, per far cambiare l’abitudine di togliere tutti i denti ai pazienti in stato vegetativo, un segnale di resa». E oggi il Besta – il cui direttore scientifico Fabrizio Tagliavini è presidente della rete degli Irccs di neuroscienze in Italia – è impegnato a fare rete per il progresso delle neuroscienze e della riabilitazione. Una “rete” è quanto chiedono sia le associazioni sia le istituzioni – ieri rappresentate da Maurizio Bersani, della Direzione generale Welfare di Regione Lombardia – per garantire continuità nell’assistenza. Fulvio de Nigris (direttore del Centro studi Ricerche sul coma «Amici di Luca») sottolinea l’importanza del percorso ripreso tre giorni fa al ministero della Salute con la seconda Consensus conference delle associazioni dei familiari: «Dal ministro Giulia Grillo abbiamo avuto un’ipotesi di riapertura dei tavoli di lavoro».
Il percorso del paziente parte spesso in un reparto di Neurorianimazione. Come quello che dirige Arturo Chieregato all’ospedale Niguarda di Milano: «Abbiamo una naturale indole a salvare gli altri – osserva – ma occorre ricordare che i pazienti tolti alla morte spesso diventano disabili. Ma qui facciamo vera medicina personalizzata, ci sforziamo di capire quale evoluzione potrà avere il danno biologico». E per ovviare ai punti deboli delle Rianimazioni, suggerisce di migliorare la transizione dal reparto per acuti a quelli di riabilitazione, evitando ritardi: «Rianimatori e riabilitatori di scambino i punti di osservazione: la riabilitazione inizia già nella fase acuta, e il rianimatore non sa che cosa accade poi».
Sandro Feller, presidente della Associazione gravi cerebrolesioni acquisite Milano, conferma: «Il vero nodo è il passaggio al territorio, e la riabilitazione va instaurata presto; il ritorno a domicilio deve essere preparato da “uscite di prova” ». Le testimonianze di ex pazienti e parenti è quanto mai significativa: c’è chi è riuscito a recuperare dopo il coma un buon grado di autonomia, e chi continua a vedere il proprio congiunto – dopo un incidente stradale – trasferito da un reparto all’altro, avanti e indietro nel percorso riabilitativo, senza riuscire a farsi sentire: «Avevamo la sensazione di essere sempre nel reparto sbagliato».
Per ricerca e assistenza servono anche fondi: «Non devono essere trovati – osserva Matilde Leonardi – solo grazie alla morte di una sola persona che viene sbandierata in tv, mentre altre 999 famiglie che decidono di far accudire i loro congiunti vengono ignorate».