Il presidente di Federvita Lombardia, Paolo Picco, e il direttore del Centro di aiuto alla vita “Mangiagalli” di Milano, Paola Bonzi, tornano a difendere l’utilità dei fondi Nasko, che la giunta regionale lombarda vorrebbe riservare solo a chi ha la residenza in Lombardia da almeno cinque anni. Questo è il mio articolo, scritto in collaborazione con il collega Lorenzo Rosoli, pubblicato sulle pagine milanesi di Avvenire dello scorso 17 aprile.
I fondi Nasko aiutano a prevenire una parte degli aborti. E non sono le straniere a “toglierli” alle italiane. Non solo: se ci sono menzogne forse sono «quelle delle istituzioni che si limitano ad analizzare freddamente dati statistici». Non si fa attendere la replica dei Centri di aiuto alla vita al nuovo attacco dell’assessore regionale al Welfare Cristina Cantù ai fondi Nasko, istituiti nel 2010 per scoraggiare il ricorso all’aborto per motivi economici. L’assessore leghista – che intende rivedere i criteri d’accesso ai fondi – vorrebbe inserire la residenza in Lombardia da almeno 5 anni, per ridurre la quota di straniere che vi hanno accesso. Un criterio contestato sia dai Centri di aiuto alla vita, sia dalla Caritas ambrosiana. Di fronte all’ultima uscita dell’assessore («I fondi Nasko non fanno calare gli aborti») sono tornati a far sentire la loro voce Paola Bonzi, direttore del Cav Mangiagalli, e Paolo Picco, presidente di Federvita Lombardia. Quella frase «mi è arrivata come un pesante pugno allo stomaco», confessa Paola Bonzi in una lettera aperta a Cantù. «I colloqui svolti dagli operatori del Cav Mangiagalli dicono chiaramente che molte donne hanno potuto cambiare idea grazie al tempo, allo spazio e agli aiuto loro dedicati, portando così avanti la loro gravidanza». Dall’apertura del Cav di via della Commenda «abbiamo ascoltato più di 19mila donne, e fino al 31 dicembre 2013 sono nati 16.663 bambini». «I nostri dati – prosegue la lettera – dicono che, se aiutate, le utenti decise a interrompere la gravidanza possono anche cambiare idea». Ma, ricorda Bonzi, un compagno di partito dell’assessore Cantù ha affermato «che le donne possono mentire per ottenere l’aiuto» anche presentando un certificato medico falso. Una affermazione che scatena la secca risposta della donna impegnata da oltre 30 anni a salvare vite umane. «Di bugie stiamo parlando, ma non di quelle delle donne povere, forse di quelle delle istituzioni che si limitano ad analizzare freddamente i dati statistici».
Picco allarga il discorso. «Dai dati emerge che sono circa 10mila l’anno gli aborti di donne lombarde. In tre anni quindi 30mila aborti. E solo 1.500 italiane hanno avuto accesso ai fondi Nasko. La domanda è: e le altre? Quante donne avrebbero avuto diritto (per condizioni economiche) ad accedere al Nasko e non sono state indirizzate correttamente? O non se ne sono interessate, pur conoscendolo, perché condizionate da un contesto che non valorizza la maternità e l’arrivo di un figlio?». Il problema, sottolinea Picco, «non sono le straniere. Del resto la stessa legge 194 (art. 5) dice che in presenza di problemi economici la donna deve essere aiutata “a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza”». Ancora più criticabile l’affermazione dell’assessore riguardo il “bruciare milioni di euro in battaglie solo ideologiche”: «In Lombardia – osserva Picco – si fanno 17mila aborti l’anno. Non sono un successo, sono un problema: umano, non cattolico. Per il danno e il dolore dei bambini non nati, dei loro genitori e della società, immersa nell’inverno demografico: i sei milioni di giovani non nati in Italia dal 1978 a oggi sarebbero un volano di futuro per il nostro Paese».