La rinascita del teatro greco a Siracusa in una mostra. E in un romanzo “dannunziano”

Ad accompagnare la stagione 2021 degli spettacoli classici al teatro greco di Siracusa (ma anche quella 2022), l’Istituto nazionale del dramma antico (Inda) ha dato vita a una mostra storica – che resterà aperta fino al 30 settembre prossimo – intitolata “Orestea: atto secondo”. Il tema è una rievocazione del secondo spettacolo realizzato a Siracusa: infatti nel 1921, sette anni dopo la prima rappresentazione assoluta (Agamennone), furono portate sul palcoscenico le Coefore, la seconda tragedia della trilogia Orestea di Eschilo. E analogamente a un secolo fa, quando gli spettacoli classici ripresero vita dopo l’interruzione causata dalla Prima guerra mondiale e dall’epidemia di Spagnola, nel 2021 l’Inda – dopo la forzata interruzione del 2020 decisa dal governo per la pandemia di Covid-19 – ha messo in scena CoeforEumenidi, che completano la trilogia eschilea.


La mostra si divide in due parti: la prima è una ricostruzione storica dei protagonisti di quegli anni, ricca di documenti: lettere, spartiti musicali, disegni e verbali di riunioni; la seconda, multimediale, permette di vedere foto originali e – grazie alla tecnologia – un filmato di quella storica rappresentazione. L’idea per la mostra – progetto di Carmelo Iocolano, coordinamento di Marina Valensise, consigliere delegato dell’Inda, e supervisione del regista Davide Livermore –, è partita dalle foto inedite che il giovane fotografo siracusano Angelo Maltese (1896-1978) realizzò nel 1921 documentando la rappresentazione di Coefore. Oltre a svolgere un ruolo di supporto per la realizzazione di locandine e manifesti che, insieme con le immagini degli attori, erano utili per far conoscere gli spettacoli e attirare pubblico a Siracusa. Una selezione di 44 foto di Maltese, che comprendono gli attori della compagnia di Emilia Varini (che interpretò Clitemnestra), Ettore Berti (Oreste) e Giuseppe Masi (Egisto), ma anche le giovani siracusane scelte per il coro, introducono alla sala in cui il progetto multimediale prende vita: grazie alla realtà aumentata, Alain Parroni colora e mette in movimento le immagini che si trasformano in un filmato, che riporta lo spettatore indietro di un secolo. Si assiste quindi a uno spezzone suggestivo dello spettacolo, tra le scenografie di Duilio Cambellotti, realizzate dalla Regia Scuola d’arte applicata all’industria diretta da Giovanni Fusero, mentre si ascoltano i cori eseguiti dagli allievi dell’Accademia d’arte del dramma antico (Adda) dell’Inda sulle musiche originali di Giuseppe Mulè. Il tutto viene accompagnato dalla recita, da parte di Stefano Santospago, di un brano del discorso pronunciato a Siracusa dall’ex presidente del Consiglio, il palermitano Vittorio Emanuele Orlando, che espresse il suo sostegno all’iniziativa siracusana.

Ma non minore interesse rivestono i documenti della prima parte dell’esposizione, che rendono conto della frenesia del lavoro del Comitato per le rappresentazioni classiche, della tenacia di Gargallo e della quantità di ostacoli da superare perché il successo del 1914 non rimanesse un isolato, per quanto splendido, ricordo. Leggiamo per esempio, nella lettera di Mario Tommaso Gargallo al cugino Ugo Bonanno dell’11 ottobre 1920, a proposito dei suoi concittadini: «Mi duole sapere che tutti si disinteressano di quel movimento da noi iniziato che dovrebbe tornare a far di Siracusa una città intellettuale». E, con notevole lungimiranza, aggiungeva: «Bisogna che si comprenda che noi facciamo qualcosa di grande, che il nostro tentativo tende in ultima analisi all’innalzamento morale di Siracusa e della Sicilia che ove si istituisca l’Istituto per la Tragedia Antica una corrente di studii affluirà a Siracusa». Non mancano i particolari curiosi, come la lamentela di Gargallo per il fatto che Romagnoli era «un uomo la cui venalità è enorme» (lettera del 9 giugno 1920 a Francesco Caffo, segretario del Comitato). O la raccomandazione del Sopraintendente agli scavi per la Sicilia orientale, Paolo Orsi, di non praticare alcun buco in nessuna parte del teatro, o la richiesta dello stesso, che era anche direttore del Museo archeologico, di una lettera di libero ingresso a un rappresentante della Sopraintendenza, e ai suoi collaboratori, dai custodi del museo al disegnatore Rosario Carta. Altrettanto significativa la lettera che il Comitato per le rappresentazioni classiche invia l’11 gennaio 1921 a Romagnoli, mentre Gargallo è a Palermo per prendere accordi con la stampa «onde svolgere nei futuri mesi una larga propaganda in Sicilia» mentre è «molto preoccupato della stampa del Settentrione, sulla quale non ha che scarsa influenza». Pertanto al grecista viene rivolta «viva preghiera perché voglia interporre i Suoi buoni uffici presso il Corriere della Sera, la rivista “La Lettura”, ed altri importanti giornali per una benevola propaganda e per la pubblicazione di buoni articoli, di tanto in tanto, cui Ella dovrebbe dare il Suo interessamento». Dopo gli spettacoli, tra le relazioni entusiaste per il successo e le lettere di ringraziamenti, mi piace segnalare quella del 13 maggio 1921 di Giovanni Fusero che, in risposta ai complimenti ricevuti da Gargallo, si schermisce per la sua “modesta opera”. Peraltro a riconoscimento della qualità della scenografia, di cui sono in mostra un bozzetto e un modello, il Comitato per le rappresentazioni classiche decise di fare un dono allo stesso Fusero e di gratificare 12 allievi della Scuola d’arte con premi in denaro, da 20 a 120 lire.

Gargallo, còrego sognatore del ventesimo secolo

La figura di Gargallo è protagonista anche di un romanzo storico pubblicato da Morellini editore: I fantasmi di Dioniso. Mario Tommaso Gargallo e il sogno del Teatro Classico a Siracusa. Ne è autrice Giovanna Strano, dirigente scolastico di un istituto superiore, che ricostruisce la figura di questo nobiluomo siciliano, che si fece promotore del recupero del teatro greco di Siracusa, quale sede della rappresentazione di spettacoli classici, e diede origine all’antenato dell’Istituto nazionale del dramma antico (Inda). La vita non mancherà di riservargli amarezze quando fu di fatto estromesso dalla gestione della sua “creatura”, ma i suoi meriti sono indubitabili e grandissimi.

Discendente di Tommaso Gargallo, letterato siracusano noto nell’Ottocento soprattutto quale traduttore di Orazio, Mario Tommaso – futuro marchese di Castel Lentini – rimase presto orfano di padre, ma fu educato dalla madre, assieme al fratello maggiore Filippo, all’amore per l’arte. Anche grazie al suo carattere «risoluto e diretto» – scrive l’autrice – divenne un perfetto imprenditore culturale, quando maturò l’idea di riportare Siracusa ai lustri del passato grazie al recupero della tradizione del teatro classico. Gli fu d’aiuto nell’impresa il grande lavoro dell’archeologo trentino Paolo Orsi, direttore del Museo archeologico di Siracusa dal 1888, artefice di un’enorme opera di valorizzazione dei beni archeologici del territorio della Sicilia orientale, nonché del recupero del patrimonio artistico medievale, come Palazzo Bellomo. In particolare, il teatro greco era diventato un’area che, per la presenza di sorgenti di acque sul colle Temenite, veniva utilizzata dalle lavandaie e dai mulini, fatti costruire dai possidenti siracusani. E diventava anche area di pascolo per il bestiame, e le grotte circostanti venivano usate come stalle.

Mario Tommaso Gargallo – racconta Giovanna Strano – fece studi privati e si dilettava di fare lo scultore. Ma soprattutto, ancora molto giovane, maturò un grande interesse per il teatro. Frequentò a Firenze il circolo di letterati che – intorno a Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli – diede vita alla rivista Il Marzocco, ed ebbe modo di assistere alle esibizioni di Eleonora Duse e alle prime rappresentazioni di drammi antichi, messi in scena al teatro romano di Fiesole. Altro incontro cruciale fu quello con il grecista Ettore Romagnoli, impegnato a far riemergere una lettura del teatro antico filologicamente corretta. Questi stimoli suscitarono e rafforzarono in lui l’idea di riportare a nuova vita il teatro greco di Siracusa, che vide le rappresentazioni di Eschilo e di Epicarmo.

In patria riuscì a vincere le resistenze e gli interessi diversi che ostacolavano la nascita di un progetto tanto innovativo, anche grazie al peso della sua famiglia nobile, e con il sostegno di Paolo Orsi. Nel romanzo c’è spazio anche per il disegnatore Rosario Carta (ma perché chiamarlo Mario?), fido assistente dell’archeologo, a cui è stata dedicata una mostra a Siracusa nel 2017. Il grande merito di Gargallo, osserva opportunamente Strano, fu di fungere da catalizzatore o, come diceva egli stesso ispirandosi all’antica Atene, da còrego, cioè da finanziatore degli spettacoli pubblici. Si inebriò del suo sogno (fino a vaneggiare di «messe a Dioniso» che scandalizzavano l’arcivescovo) ma seppe tradurlo in realtà, mantenendo la calma anche di fronte alle provocazioni dei futuristi, scesi a Siracusa con la volontà di rovinare una manifestazione che richiamava le tradizioni del passato remoto. Coinvolto ufficialmente Ettore Romagnoli per la traduzione e le musiche, reclutati gli attori e lo scenografo Duilio Cambellotti, messi al lavoro gli allievi della Regia Scuola d’Arte per l’Industria per la realizzazione dell’allestimento, spinta attraverso varie vie la pubblicità dell’evento, finalmente il 16 aprile 1914, il teatro greco di Siracusa ospitava nuovamente una tragedia: l’Agamennone di Eschilo, di fronte a un pubblico eterogeneo quanto caloroso.

Ma la storia riservava un’altra salita: la prima guerra mondiale e l’epidemia di Spagnola interruppero subito la neonata iniziativa. Fu ancora merito di Gargallo, con la compagnia di quanti l’avevano sostenuto nella prima impresa, se nel 1921 gli spettacoli poterono riprendere (come testimonia la mostra dell’Inda) e diventare una tradizione. Il successo tuttavia attirò l’attenzione del regime fascista, che pensò di centralizzare a Roma la regia delle manifestazioni, trasformando il Comitato nell’Istituto nazionale del dramma antico: da un lato garanzia di un ruolo di primaria importanza, dall’altro espropriazione dei siracusani – e di Gargallo in particolare – della gestione delle attività.

Alla storia “ufficiale” il romanzo affianca notizie e interpretazioni della vita privata di Mario Gargallo e della sua famiglia. Qui, accanto a notizie sul matrimonio poco felice, l’autrice sparge pagine “dannunziane” con avventure erotiche del protagonista (con una ballerina immaginaria) e divagazioni oniriche di non evidente interpretazione. È la parte caduca di un libro per il resto apprezzabile, che rievoca una stagione e un personaggio che ebbero un ruolo decisivo per lo sviluppo degli spettacoli all’aperto al teatro di Siracusa. Se dopo un secolo possiamo ancora assistere a rappresentazioni classiche nell’incanto della cavea del colle Temenite, lo dobbiamo certamente in massima parte a Mario Tommaso Gargallo.

A Siracusa un Eschilo trasfigurato (e pasticciato)

Dopo l’assenza forzata dell’anno scorso, conseguenza delle restrizioni decise dal governo per fronteggiare la pandemia di Covid-19, l’estate del 2021 ha visto la ripresa degli spettacoli classici al Teatro greco di Siracusa. Il 56° ciclo messo in scena dall’Istituto nazionale del dramma antico (Inda) ha leggermente modificato il programma annunciato nel 2020. Al posto dell’Ifigenia in Tauride di Euripide (rimandata al 2022) è stata realizzata la rappresentazione di CoeforEumenidi di Eschilo in coproduzione con il Teatro nazionale di Genova, diretto da Davide Livermore, che ne firma la regia a Siracusa. È una scelta che si ricollega al 1921, quando le Coefore furono messe in scena dopo l’interruzione dovuta alla prima guerra mondiale e all’epidemia di Spagnola (allo stesso modo l’Orestea monopolizzò il cartellone alla ripresa del 1948, dopo la pausa dovuta alla seconda guerra mondiale). Le Baccanti di Euripide, con la regia di Carlus Padrissa, e le Nuvole di Aristofane, con la regia di Antonio Calenda, sono gli altri due spettacoli andati in scena tra luglio e agosto, e che erano previsti già nel 2020. A sottolineare il richiamo al 1921 è stata allestita una mostra nella sede dell’Inda a Palazzo Greco, che rievoca con foto e materiali d’epoca quella storica rappresentazione e di cui scriverò a parte. Inutile cercare un filo rosso fra i tre spettacoli: Coefore ed Eumenidi fanno parte della grandiosa trilogia dell’Orestea, ultimo grande trionfo negli agoni tragici ad Atene di Eschilo nel 458 a.C., prima del suo trasferimento in Sicilia. Le Baccanti, pur essendo l’ultima tragedia rappresentata ad Atene (403) di cui abbiamo il testo si richiama all’origine stessa delle tragedie, a quel culto di Dioniso che caratterizzava le feste in cui si rappresentavano le opere teatrali. Nelle Nuvole (423) il giovane Aristofane prende di mira un Socrate “sofista” con accuse molto simili a quelle che 24 anni dopo ne determinarono la condanna a morte.

Coefore ed Eumenidi completano l’Orestea, dopo l’Agamennone, che racconta l’uccisione del comandante della spedizione greca a Troia, da cui torna vittorioso accompagnato dalla concubina Cassandra, la figlia del re Priamo. A differenza di quanto narra Omero nell’Odissea (XI, 405-426), che attribuisce il delitto a Egisto, amante di Clitemnestra, moglie di Agamennone, Eschilo attribuisce il delitto a Clitemnestra, spinta da due moventi: la relazione con Egisto e la vendetta per il sacrificio della figlia Ifigenia, fatta uccidere da Agamennone per favorire la partenza della flotta dei guerrieri greci diretti a Troia. Più in ombra, anche se in parte sottintesa, la volontà di regnare con l’amante.

Oltre alla trilogia dell’Orestea di Eschilo (l’unica giunta fino a noi) a teatro la vicenda del delitto di Oreste per vendicare il padre Agamennone fu rappresentata anche dagli altri due maggiori poeti tragici, Sofocle ed Euripide, autori entrambi di una Elettra.

Ed eccoci alle Coefore (le portatrici di offerte). Dieci anni dopo il delitto, Clitemnestra è sconvolta da un sogno premonitore e manda a offrire libagioni sulla tomba di Agamennone. Nel frattempo però il figlio Oreste, spinto da Apollo a vendicare il padre, è tornato in patria in incognito per sorprendere e uccidere i due amanti assassini. Dopo essersi fatto riconoscere dalla sorella Elettra, che accompagna le coefore, Oreste mette in atto il piano di morte e uccide prima Egisto e poi Clitemnestra. Per quest’ultimo delitto viene immediatamente perseguitato dalle Erinni, decise a punire il matricida.

Eumenidi (le benevole) concludono la trilogia: Oreste si rifugia al santuario di Apollo a Delfi. Pur protetto da Apollo, non cessa la persecuzione delle Erinni e deve sottoporsi al processo all’Areopago di Atene. Qui sarà assolto grazie al voto decisivo di Atena, che riesce a placare la furia vendicatrice che le Erinni volevano riversare sulla città per mantenere l’antica legge, e le convince a trasformarsi in dee benevole, omaggiate dalla città di Atene, a cui esse assicurano protezione.

Sul fondo della scena appaiono sulla destra il palazzo reale, mentre al centro campeggia un enorme palla “multimediale”, che pare essersi abbattuta come un meteorite su un ponte. Al centro del palcoscenico campeggia un rilievo circolare che rappresenta la tomba di Agamennone. Il tutto è coperto da un sottile strato di neve, «una neve dolorosa – spiega il regista Davide Livermore nelle note di regia – che congela il corpo della tragedia, lo sospende per dieci anni, dieci lunghissimi anni in cui un bambino, Oreste, diventerà un assassino matricida».

Oreste (Giuseppe Sartori) giunge ad Argo accompagnato dall’amico Pilade (Spyros Chamilos) – abbigliati come partigiani – e pone un proiettile di pistola sulla tomba del padre: ovviamente Eschilo parla di un ricciolo dei capelli, ma le sparatorie in scena si vedranno davvero. Poi Elettra (Anna Della Rosa) e le coefore (in abiti eleganti) riescono a superare l’ostilità delle guardie (vestite da soldati nazifascisti e armate di mitragliatori) e a portare le loro libagioni sulla tomba di Agamennone, dove il ritrovamento del proiettile mette Elettra in agitazione. Dopo il riconoscimento tra i fratelli e la predisposizione del piano uccidere gli assassini del padre, viene fatto chiamare Egisto (Stefano Santospago). Arriva a bordo di un’auto, da cui scarica violentemente una ragazza, che subito uccide con un colpo di pistola. L’odiosità del personaggio viene accentuata dalle molestie che riversa sulle coefore presenti, che poi uccide. Ma, essendo privo di guardie, viene facilmente eliminato da Oreste e Pilade, addirittura con un proiettile nella schiena. Più problematica – ovviamente – si rivela l’eliminazione di Clitemnestra (Laura Marinoni). Arriva anche lei a bordo di un’auto, con abiti sontuosi, e capita la sorte che sta per toccarle, si difende con il figlio, rivendicando i torti subiti dal marito (in particolare l’uccisione della figlia Ifigenia), ma commette l’errore di rivelarsi innamorata di Egisto. A nulla poi le vale scoprirsi il seno materno per indurre pietà in Oreste: la sua sorte è segnata. E viene fatta morire come Socrate, bevendo una coppa di veleno. Le Erinni (Maria Layla Fernandez, Marcello Gravina e Turi Moricca), subito cominciano a perseguitare il matricida.

E siamo alle Eumenidi. Per purificarsi nel tempio di Apollo, che gli aveva ordinato di vendicare il padre, Oreste corre disperato su un tapis roulant (unica trovata “moderna” che appare utile). Anche la Pizia (Maria Grazia Solano) si allontana dal tempio, occupato dal matricida di cui si citano le mani insanguinate, e dalle Erinni che non gli danno pace, anche se poi si addormentano. Apollo (Giancarlo Judica Cordiglia) ne approfitta per invitare Oreste a recarsi ad Atene per essere giudicato, e poi scaccia le Erinni dal proprio tempio.

La scena si trasferisce ad Atene, dove la dea Atena (Olivia Manescalchi) presiede il processo i cui giurati sono sagome dei cittadini migliori della città riuniti nell’Areopago, che viene pertanto istituito per giudicare i fatti di sangue. Dopo le ragioni contrapposte di Oreste, spalleggiato da Apollo, e delle Erinni, Atena fa votare i cittadini, ma il verdetto è in parità (che significa assoluzione) solo grazie al voto decisivo della dea, che esprime valutazioni “arcaiche” sulla prevalenza dell’uomo sulla donna. Le Erinni, furiose, minacciano vendette sulla città, ma poi accettano l’invito di Atena a essere onorate dagli ateniesi e a restare a proteggere quindi la fecondità della terra e dei cittadini. Oreste, diretto ad Argo, proclama che mai la sua città dovrà dimenticare l’alleanza con Atene.

La messa in scena richiama gli anni Trenta-Quaranta, ma alcuni anacronismi rispetto a Eschilo appaiono assurdi e fastidiosi. A Livermore, si capisce, non piace l’assoluzione di Oreste grazie a un giudice e un avvocato «che per la loro stessa natura divina determinano una disparità di giudizio al limite dell’iniquo», scrive nelle note di regia (in cui paragona la sorte di Ifigenia a quella di Mafalda di Savoia, “sacrificata” dal padre Vittorio Emanuele III). E questa “combine” viene accentuata dalla telefonata (!) che i due si scambiano prima del verdetto.

Viceversa viene trascurato un tema che stride con la mentalità moderna, oltre che con i dati della biologia: la riduzione della donna a contenitore del seme maschile, considerato vero tramite della discendenza; lo svilimento del ruolo della madre nelle parole di Atena, che si proclama figlia del solo Zeus. Scorrevole la traduzione di Walter Lapini, convincenti le prove degli attori, in particolare Oreste – preda di dubbi e poco “eroico” – e Clitemnestra, personalità “dominatrice” della scena. Invece i proiettili e le sparatorie (così come il veleno o l’automobile) appaiono fuori luogo, visto anche che il testo continua a essere recitato indicando le spade come strumenti di morte. Il costume delle tre Erinni (perché due uomini? drag queen?), scintillante da cabaret, non appare consono al loro ruolo di paurose persecutrici. Il rogo finale delle sagome dei giurati vuol forse indicare che vanno puniti? Infine la palla multimediale che campeggia sullo sfondo (una soluzione che Livermore aveva adottato anche nell’Elena rappresentata a Siracusa nel 2019): viene sfruttata opportunamente per evocare l’ombra di Agamennone (Sax Nicosia), ma anche per mostrare, alla fine dello spettacolo, famose immagini di tragedie italiane: dall’assassinio di Aldo Moro alla strage di Capaci, dalla Costa Concordia al ponte Morandi (rievocato anche dalla scenografia) che appaiono del tutto estranee al clima del testo eschileo, se non forse nel pensiero del regista che le mostra per indicare fatti che non hanno ricevuto giustizia. Lo spettacolo, grazie anche a un accompagnamento musicale sostenuto, è vivace e “piacevole”, Eschilo però è un’altra cosa.

Siracusa, l’Elena euripidea riscatta la “condanna” della sua bellezza

La 55ª stagione degli spettacoli classici organizzati dall’Istituto nazionale del dramma antico (Inda) al teatro greco di Siracusa quest’anno ha presentato due tragedie di Euripide, Elena e Le troiane (con la regia, rispettivamente di Davide Livermore e Muriel Mayette-Holtz) e una commedia di Aristofane, Lisistrata (regia di Tullio Solenghi). I tre testi hanno indubbiamente come filo rosso la contestazione della guerra, la follia di risolvere le contese con le armi, portando solo morte e sofferenze, lasciando discordie senza risolvere le ingiustizie. E poi il ruolo delle donne, spesso vittime ma di ulteriori violenze a guerra finita. Donne però che mostrano anche un carattere determinato: oltre alle figure di Elena ed Ecuba nelle due tragedie, nella commedia di Aristofane, Lisistrata si fa promotrice di un singolarissimo sciopero del sesso per costringere gli uomini a fare la pace.

Elena di Euripide è un dramma di cui abbiamo la data certa della prima rappresentazione: le Grandi Dionisie del 412, anno buio per Atene, che aveva appena perso uomini e navi nella sventurata impresa militare in Sicilia. Il tragediografo recupera una versione minoritaria del mito, che aveva un illustre predecessore nel poeta lirico Stesicoro di Imera: Elena non aveva seguito Paride, ma era stata trasportata in Egitto, mentre a Troia era andato solo un suo simulacro, forgiato da Era per vendicarsi. La prima evidente conseguenza era che la guerra era stata combattuta per nulla e che schiere di soldati erano morti inutilmente.

2019-06-18 18.58.52Euripide presenta Elena (Laura Marinoni) come una donna fedele e ancora innamorata del marito Menelao (Sax Nicosia), a cui ha potuto mantenersi fedele grazie alla protezione del re egiziano Proteo. All’inizio del dramma rivela le sue angosce: non solo non ha notizia se Menelao sia ancora vivo, ma sa di essere esecrata dai greci in quanto ritenuta fedifraga e origine della guerra e dei lutti conseguenti. La sua “fatale bellezza” è stata la sua condanna, lamenta. E viene presto a sapere che anche sua madre Leda si è uccisa in casa per la vergogna dello scandalo provocato dal suo adulterio, mentre la figlia non trova chi la voglia sposare. E anche dei suoi fratelli Dioscuri, Castore e Polluce, non sono certe le sorti. In più si trova in una situazione di pericolo: Teoclimeno, figlio del defunto Proteo, è determinato a sposarla, venendo meno alle promesse del padre. Elena quindi si rifugia sulla tomba-isola di Proteo, quasi fosse un’ancora di salvezza.

2019-06-18 20.21.11 - CopiaL’arrivo di Teucro (Viola Marietti) le conferma l’odio di cui la fanno oggetto i greci e l’incertezza sul destino di Menelao. Ci pensa la veggente Teonoe (Simonetta Cartia), sorella di Teoclimeno, a rassicurarla sul fatto che suo marito è salvo. Ma quando questi compare, naufrago con pochi compagni sulle coste dell’Egitto, questi stenta a credere alla storia del simulacro. Quando finalmente ottiene la prova che Elena dice la verità, i due si possono abbandonare agli abbracci e ai sogni d’amore attesi da 17 anni. Si pone però il problema di lasciare l’Egitto: Teoclimeno è determinato a sposare Elena e ucciderebbe qualunque greco si avvicinasse al palazzo. Implorato e ottenuto il silenzio di Teonoe, che preferisce onorare la giustizia e proteggere i due sposi che aiutare il fratello a infrangere le promesse di Proteo, Elena escogita lo stratagemma di far credere a Teoclimeno (Giancarlo Judica Cordiglia) che Menelao sia morto annegato, e che lei debba assolvere il dovere pietoso di una cerimonia funebre in mare aperto. Il re, pur tra qualche dubbio, si lascia convincere e fornisce una nave veloce e un equipaggio per svolgere al largo il rito. Un messaggero (Linda Gennari) viene a riferire a Teoclimeno come, realizzato l’inganno e sopraffatto l’equipaggio, i due sposi sono in navigazione verso Sparta. I Dioscuri (Marcello Gravina e Vladimir Randazzo) compaiono ex machina: si premurano di vietare a Teoclimeno di uccidere Teonoe e informano il pubblico della sorte dopo la morte di Elena (divinizzata) e Menelao (nelle isole dei Beati).

È una tragedia l’Elena? La domanda si pone solo per noi moderni, sottolinea Albin Lesky nella sua Storia della letteratura greca. E anche l’identificazione di Elena con Dioniso (argomentata da Anna Beltrametti nella sua edizione delle tragedie di Euripide pubblicata nei Millenni Einaudi, 2002) non fa che confermare che l’opera si inseriva nel contesto della tradizione tragica. Certo il moltiplicarsi di episodi (Teucro e la vecchia portinaia che maltratta Menelao), osserva Beltrametti, sono zeppe, utili solo a «ritardare il corso drammatico», e i meccanismi del riconoscimento progressivo dei due sposi e dell’inganno ordito una danni di Teoclimeno richiamano la commedia nuova (peraltro l’impianto della tragedia richiama da vicino l’Ifigenia in Tauride). Ma i messaggi che Euripide manda sono più legati alla denuncia antibellica («Se decideremo le dispute con scontri di sangue, mai la discordia lascerà le città degli uomini», denuncia il coro) e alla necessità di affidarsi, piuttosto che alle parole degli indovini, che suonano «false», al «buon senso» (e sono due servitori a ripetere questo concetto). Così come Euripide sottolinea la labilità della verità: non fu la vera Elena a recarsi a Troia, e per volere degli dei gli uomini si sono inflitti innumerevoli sofferenze.

2019-06-18 20.58.12L’allestimento di Davide Livermore (anche scenografo dello spettacolo) è sorprendente e affascinante al tempo stesso: lo spazio scenico è allagato per portarci con più evidenza sulle sponde del Nilo e del mare. Una dimensione – quella acquatica – ossessivamente ripetuta dal grande schermo tecnologico che per tutto lo spettacolo rimanda quasi sempre immagini di onde in mare aperto. Anche la musica (di Andrea Chenna) riesce a emergere dalla distesa d’acqua. Al centro compare la tomba di Proteo, che risulta quasi un’isola. Accanto, un relitto di nave a completare «uno spazio scenico – scrive Livermore nella sua presentazione – dove affiorano i tanti naufragi di un’esistenza». Un tema, il naufragio, che assume qui evidentemente una grande rilevanza: alla protezione invocata da Menelao nella scena – tragicomica – con la vecchia portinaia (Maria Grazia Solano) viene risposto che «da noi i porti sono chiusi», attualizzando il «rivolgiti a qualcun altro e lascia in pace noi» del testo greco (traduzione di Walter Lapini).

Se la scenografia risulta insolita e coinvolgente (anche il movimento del relitto risulta efficace), altre scelte registiche mi paiono meno convincenti. La più seria è forse il ruolo del coro: nel testo euripideo è composto di schiave greche, con un ruolo di supporto a Elena nelle sue sofferenze e dubbi. Qui sono uomini con un costume anonimo e un ruolo ancora più incomprensibile: risultano utili solo a mimare la battaglia che si svolge sulla nave dove i greci si liberano dell’equipaggio egiziano, ma in tutto il resto della tragedia non hanno giustificazione. Capovolgimento dei sessi anche con Teucro, e risulta francamente inutile, visto che si tratta di un personaggio in cui emerge soprattutto lo spirito guerriero del reduce, segnato dalla guerra sotto le mura di Ilio (così come una donna interpreta il compagno naufrago di Menelao, necessariamente un altro guerriero, che viene a informarlo che la sua moglie si è smaterializzata un aria). Bravi tutti gli attori: Laura Marinoni trasmette l’idea della donna vittima della sua bellezza e ancora innamorata del marito; e riscatta le accuse che ha subito con un accorto piano di fuga, che con il marito riesce a realizzare. Sax Nicosia rende un Menelao che – per una volta nel teatro tragico – appare pronto ad atti di eroismo: omicidio-suicidio sulla tomba di Proteo (contaminandola) se dovesse cadere prigioniero del re. Se il gioco degli specchi delle messaggere con Elena e nella scena finale può rimandare a molti significati (la bellezza che si guarda, realtà e apparenze), genera un po’ di confusione il miscuglio di riferimenti dei costumi (di Gianluca Falaschi): Livermore scrive di aver guardato al gioco di alterazione della verità del librettista Lorenzo Da Ponte nelle sue Memorie. Forse con questo si spiegano gli abiti settecenteschi di Teonoe e di Teoclimeno, ma sembrano in effetti stridere con il resto dell’ambientazione. Il finale con la rappresentazione sullo schermo di un’Elena invecchiata mentre sul palcoscenico muoiono tutti gli altri personaggi non aggiunge gran che alla profezia dei due Dioscuri (anch’essi con un costume piuttosto femminile).