Laras: «Penso che Dio voglia vederci uniti»

In occasione del conferimento del titolo di dottore honoris causa della Veneranda Biblioteca Ambrosiana al rabbino Giuseppe Laras, la mia intervista pubblicata mercoledì 29 aprile nelle pagine culturali di Avvenire.

rabbino_laras«La libertà deve sempre essere accompagnata dalla libertà di fare il bene. Cioè non basta fare scelte libere, occorre fare scelte buone». Sono concetti centrali della lectio che svolgerà stasera rav Giuseppe Laras durante la cerimonia in cui l’arcivescovo Angelo Scola, gli conferirà il titolo di dottore honoris causa della Biblioteca Ambrosiana. Laras sarà il primo studioso non cattolico a far parte del Collegio dei dottori dell’Ambrosiana, istituzione con cui collabora sin dai primi anni Ottanta, all’epoca del suo arrivo a Milano quale rabbino capo della comunità ebraica. «Lo considero un po’ un suggello alla mia attività accademica di tutti questi anni».
Il suo essere inserito ad honorem tra i dottori di un’istituzione cattolica richiama il tema del dialogo ebraico-cristiano. Come lo vede oggi?
«Bisogna continuare a trovare le ragioni per stare insieme e andare avanti. La divaricazione tra ebraismo e cristianesimo sta sempre più restringendosi, si stanno formando quasi due linee parallele. Alle fine dei tempi queste linee dovranno ricongiungersi, ritrovare l’unità se, come io penso, così sarà la volontà divina. Ma è un discorso non agevole, implica rivedere tante posizioni. Il mio impegno in questo ambito si è acceso grazie all’incontro con il cardinale Carlo Maria Martini, che nonostante il suo carattere timido e riservato, era un appassionato, trasmetteva entusiasmo. Con lui ho trovato stimolo e maggiore volontà di impegnarmi».
In che modo?
«Agli inizi degli anni Ottanta il dialogo era avviato da tempo, almeno da dopo il Concilio Vaticano II, ma non molto uniforme nel suo svilupparsi. Martini ci credeva molto e ricordo che passavamo giornate, incontri a parlare delle prospettive. Lui voleva parlare con tutti, aveva creato la Cattedra dei non credenti, aveva coinvolto gli intellettuali atei o più o meno atei, era una figura moderna. Ricordo che quando io manifestavo dei dubbi sul futuro e sulle difficoltà che avrebbe avuto questo dialogo, lui rispondeva sempre: “Bisogna avere pazienza”. Ma pazienza non nel senso di rimettersi agli eventi, ma di lavorare con insistenza e determinazione. Il dialogo infatti non è un fiume che scorre sempre allo stesso modo, ha momenti di secca, momenti di piena, quindi alti e bassi. L’importante è cercare di non lasciare che si fermi, conosco bene tutti i meandri del dialogo, so quanto sia difficile. E apprezzo ancora più di un tempo Martini, che conosceva meglio di me questi problemi, e nonostante l’atmosfera in certi settori della Chiesa andava avanti. Oggi credo che giustamente lui possa essere definito forse addirittura il “salvatore” del dialogo. Un dialogo che peraltro è continuato con i due successori di Martini: in modo diverso, Tettamanzi e Scola sono due anime grandi».
Papa Francesco insiste molto sulla necessità del confronto, non solo con l’ebraismo ma anche con le altre religioni…
«L’attuale pontefice insiste in maniera importante, utile e benefica nei confronti del dialogo tra le religioni e sulla necessità di incontrarsi e ritrovarsi. E ciò è tanto più significativo oggi in un tempo così drammatico, di tagliatori di teste. Papa Francesco insiste nell’andare oltre l’aspetto triste e negativo per cogliere gli elementi di speranza. Credo che il dialogo trarrà giovamento dal pontificato di Francesco».
Come sono nati i suoi insegnamenti alle università di Pavia e di Milano?
«A Pavia nei primi anni Ottanta ero lettore di lingua ebraica. Ma grazie all’incoraggiamento del professor Luigi Moraldi (titolare della cattedra di Ebraico) facevo anche lezioni sui contenuti del pensiero ebraico: credeva a questo ritrovarsi con il mondo ebraico, e aveva molta sapienza e bontà. Io avevo entusiasmo e voglia di insegnare e trasmettere questo patrimonio di idee, e della lingua ebraica mi vantavo di mettere gli studenti in condizione di leggere un testo in una lezione. Per capire ci vuole altro, ma leggere è il primo passo».
E a Milano?
«Fui coinvolto dal professor Enrico Rambaldi, docente di filosofia morale. Dopo alcune lezioni e conferenze, mi chiamò a insegnare Storia del pensiero ebraico quando fu costituito il Centro Goren-Goldstein (dal mecenate che mise i fondi). Prima c’era solo l’insegnamento della lingua ebraica e delle lingue semitiche comparate. A Milano c’era un tono più accademico, ma cercavo di spiegare quanto servisse per togliere equivoci su mondo e religione ebraica. Non mancarono episodi di affetto degli studenti, come quella psicoterapeuta che veniva da Roma e che, a fine corso, mi regalò un libro dedicato all’acqua, ritenendo che le mie lezioni le fossero indispensabili come l’acqua».
Che rapporto ha con l’Ambrosiana?
«Poco dopo il mio arrivo a Milano avevo fatto conoscenza col rettore, con i dottori e avevo fatto anche conferenze. Poi sia con Gianfranco Ravasi (non ancora cardinale), sia con Franco Buzzi, ho sempre mantenuto rapporti di intensa collaborazione. L’Ambrosiana è un’istituzione culturale non solo milanese, ma conosciuta a livello internazionale. E già Achille Ratti, prefetto dell’Ambrosiana e poi arcivescovo di Milano che divenne papa Pio XI, ebbe grandi rapporti col rabbino di Milano, Alessandro da Fano».
La spinta a tornare in Israele per gli ebrei europei è la sconfitta del dialogo?
«Se non ci fossero segnali di intolleranza e persecuzione che oggi esistono, anche in Italia, non ci sarebbe spinta verso la aliyah (la salita) in Israele in termini massicci. La terra di Israele, anche prima che esistesse come uno Stato, è sempre stata una componente dell’anima del popolo ebraico, ma questa istanza al ritorno cresce in termini concreti quando l’antisemitismo aumenta e c’è paura di persecuzione e di morte. E gli episodi purtroppo non mancano, basta pensare a quanto accaduto a Parigi a gennaio».
Quale sarà l’argomento della sua lectio?
«Commenterò un passo del Trattato dei padri, testo antichissimo di etica che fa parte della Mishnah in cui si affronta un tema tipicamente religioso e filosofico: la relazione tra l’onniscienza di Dio e la libertà dell’uomo. Se Dio sa tutto quello che tu farai, non sei più libero: quel passo demolisce questa certezza in termini religiosi. Terminerò con il concetto che la libertà deve essere sempre accompagnata dalla libertà di fare il bene, perché la libertà come licenza non serve a niente e a nessuno. E citerò il Deuteronomio dove si dice: “Ecco io pongo di fronte a te il bene e il male, la vita e la morte, ma tu sceglierai la vita” (Dt 30,15 ss). Quando si fanno scelte, non basta fare scelte libere, ma occorre fare scelte buone».