Eugenio Corti, un figlio della Brianza “paolotta”

In occasione dell’anniversario della morte, recupero un’intervista un po’ più “privata” che feci a Eugenio Corti nel dicembre 2010 per il primo numero di Rintocchi, l’informatore trimestrale della Comunità pastorale Santa Caterina di Besana in Brianza (Monza). Dossier monografico della pubblicazione era la famiglia, e su questo tema è centrata anche l’intervista.

Dall’alto dei suoi 90 anni (che compirà il prossimo 21 gennaio), lo scrittore Eugenio Corti è un besanese un po’ speciale. Ha vissuto le trasformazioni che il nostro Paese ha subito nel corso del Novecento, passando da una civiltà contadina e di moderata industrializzazione, al mondo attuale caratterizzato dalla preponderanza delle tecnologie e dalla progressiva distacco dalle tradizioni degli avi in una società resa “omogenea” dai processi di globalizzazione. Con il rischio – concreto – di perdere di vista le proprie radici, che per l’Europa fanno riferimento senz’altro anche al cristianesimo. Ma Eugenio Corti non ha mai dimenticato i valori della società briantea, tipicamente cristiana, come documentano molte pagine del suo capolavoro, Il Cavallo rosso, così come ha vissuto attivamente le battaglie culturali del nostro tempo (basta pensare all’impegno all’epoca del referendum sul divorzio, nel 1974). E da primogenito di 10 fratelli ben conosce il modello di famiglia che caratterizzava la Brianza «paolotta», che ha subito – qui come dappertutto in Occidente – forti trasformazioni, oltre al tentativo di metterlo del tutto in discussione. Con lui ripercorriamo alcune tappe dell’evoluzione della famiglia besanese.

Il Cavallo rosso si apre con un quadro laborioso ma sereno nelle campagne alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Come vivevano le famiglie besanesi dell’epoca?

Formavano una comunità in cui la direzione del popolo era presa dalle donne, le quali erano credenti, e in funzione della loro fede cercavano di indirizzare la presenza dei figli e dei mariti in questo mondo. Posso citare l’esempio di mia madre, moglie dell’imprenditore principale del paese, ma anche di tutte le donne del paese: erano loro che indirizzavano alla religiosità la gente della Brianza. Un altro esempio tipico è stata la mamma di don Luigi Giussani, che l’ha determinato grandemente nella sua vita. In questa comunità tranquilla, operosa e poco fascista, la guerra crea uno sfacelo. Ma la religiosità della gente si percepisce anche dal senso di protezione che un personaggio del mio romanzo, Stefano, sente provenire dall’immaginetta del crocifisso di Besana nella trincea in riva al Don.

E dopo la guerra? Com’è stata la ripresa della vita civile?

Io facevo parte di una comunità di persone che si incontravano in vista della battaglia elettorale che si è svolta dopo la guerra. Era una difesa di civiltà: avvertivamo tutti, anche quelli che erano a livello di istruzione più elementare, che era in corso una battaglia in cui era coinvolta tutta la realtà del Paese. e che riguardava anche la nostra comunità locale. Se avessero vinto i “rossi” (comunisti e socialisti) il mondo di Besana avrebbe subito un tentativo di capovolgimento. Noi resistevamo a questo tentativo. Nello stesso tempo avvertivamo che eravamo parte di una comunità che poteva raccogliere voti, con effetti non solo locali ma nazionali: dovevamo raccogliere voti anche per le zone dove i cristiani non potevano farsi sentire. A guidarci erano i discorsi del Papa (Pio XII) e ciò che dicevano i nostri preti. In particolare, a Besana, esemplare era don Mario Cazzaniga, tuttora molto attivo come cappellano dell’ospedale San Gerardo di Monza.

Come è stata vissuta dalla comunità besanese la crescita del dopoguerra, il cosiddetto boom economico?

La voglia di darsi da fare c’è sempre stata tra la nostra gente. Variazioni certo sono intervenute nelle possibilità economiche, ma non avvertite come qualcosa di importante e nelle elezioni comunali gli indirizzi sono sempre stati gli stessi. Di fatto però, quel che interveniva nel resto del Paese avveniva anche qui: in particolare la perdita dell’indirizzo cristiano nella vita della gente, un cambiamento che è stato molto lento, senza che venisse avvertito. Ma se si fa un confronto tra il modo di essere oggi e quello di cinquant’anni fa, si deve constatare una grande differenza. Anche se le cerimonie religiose sono molto seguite, c’è minore disponibilità al credo della Chiesa.

Nel Cavallo rosso, è il figlio di Pierello a subire l’influenza del ’68 e della contestazione. Come sono stati vissuti quegli anni a Besana?

A determinare i cambiamenti sono stati due elementi: la televisione, soprattutto, e la scuola media, nella quale in quegli anni sono arrivati insegnanti che non erano dello stesso indirizzo dell’ambiente di qui. Fino a un po’ di anni fa, i ragazzi crescendo spesso perdevano l’indirizzo cristiano della famiglia, ma al momento del matrimonio c’era un recupero delle proprie tradizioni. Con il matrimonio, i giovani facevano inevitabilmente un confronto tra i maestri della televisione e i loro genitori. Questi ultimi, anche se culturalmente inferiori, erano molto più ricchi come figure umane. Adesso forse questo recupero si va un po’ perdendo, prevale l’interesse per i modelli e i personaggi offerti dalla televisione. È avvenuto anche a Besana quanto ha ripetutamente sottolineato papa Giovanni Paolo II: uno scollamento nella gioventù cristiana rispetto agli indirizzi ricevuti dalle loro madri e dai loro padri.

Cent’anni di Corti. Eugenio, scrittore cristiano emarginato ma di successo

Per il centenario della nascita dello scrittore besanese, il 21 gennaio è uscito questo mio articolo su Avvenire, tra le pagine della sezione Agorà, sulle iniziative avviate dalle Edizioni Ares e dal Comune di Besana in Brianza. Su Eugenio Corti ho avuto modo di scrivere anche in passato su Avvenire: una intervista quando lo scrittore compì 90 anni e un articolo per i 100 anni di don Mario Cazzaniga, personaggio tra gli ispiratori del Cavallo rosso. Altri miei articoli sono usciti in occasione della morte e del funerale dello scrittore nel 2014. Infine ripropongo il primo articolo che ho dedicato a Eugenio Corti, sempre su Avvenire nelle pagine di Agorà («Corti, 25 anni da longseller») pubblicato il 28 giugno 2008 in occasione del 25° della prima edizione del Cavallo rosso e della ristampa in tre tomi che veniva venduta allegata a Famiglia cristiana. Accennavo all’emarginazione che la critica “ufficiale” ha riservato allo scrittore cristiano e anticipavo qualche notizia su Medioevo e altri racconti che lo scrittore stava completando.

Riscoperta delle proprie radici, apertura al mondo. Oscillano tra microcosmo e macrocosmo le celebrazioni del centenario di Eugenio Corti, nato nella casa paterna di Besana in Brianza (Monza) al mattino del 21 gennaio 1921 (e dove è morto la sera del 4 febbraio 2014). Se infatti la sua città natale si appresta a valorizzarne l’opera – grazie alla collaborazione della moglie Vanda – con la creazione di un centro studi a lui dedicato, le Edizioni Ares, che hanno in catalogo l’intera produzione letteraria di Corti, hanno progettato iniziative non solo editoriali per l’intero anno del centenario per favorire la conoscenza di uno dei maggiori scrittori cattolici del Novecento italiano.

A partire da stasera, il giorno 21 di ogni mese, una diretta sui canali social delle Edizioni Ares presenterà una diversa opera dello scrittore: Il cavallo rosso, il romanzo più importante (34 edizioni, oltre 400mila copie vendute), che facendo centro sulla famiglia Riva di Nomana (trasparente trasposizione dei Corti di Besana) dipinge un grandioso affresco di storia italiana tra il 1940 e il 1974; I più non ritornano, l’esordio letterario del 1947, uno dei primi resoconti della ritirata di Russia, seguito da Gli ultimi soldati del re, l’esercito italiano che affiancò gli Alleati tra il ’43 e il ’45; la tragedia Processo e morte di Stalin, i romanzi per immagini La terra dell’indio, L’isola del paradiso, Catone l’antico; Medioevo e altri racconti; i saggi raccolti in Il fumo nel tempio e infine la memorialistica: le lettere alla famiglia dalla Russia di Io ritornerò e quelle alla fidanzata Vanda di Voglio il tuo amore. Inoltre entro la fine del 2021 Ares renderà disponibili in ebook tutte le opere di Corti.

Ma la novità editoriale più rilevante di questo “anno cortiano” di Ares è la prossima pubblicazione dei corposi Diari di guerra e di pace (1940-1949), documento notevole sia dal punto di vista storico, sia letterario, perché svelano le origini di molti episodi rielaborati nel romanzo maggiore: «I primi diari che Eugenio scrisse al fronte – spiega la moglie Vanda, che ne sta curando l’edizione – furono distrutti da lui stesso al momento di iniziare la ritirata dalla Russia, perché temeva che essendo pieni di valutazioni negative sui tedeschi avrebbero potuto essere usati dalla propaganda russa. Quando – nel 1943 – ricominciò la vita militare nel Sud Italia tra i soldati del re, riscrisse tutta la prima parte sulla base del ricordo (che addolcisce un po’ le vicende) e continuò poi a compilarli negli anni successivi, dalla ripresa degli studi in università all’elaborazione del suo primo libro I più non ritornano, uscito da Garzanti nel 1947». I diari terminano nel novembre 1949: «L’ultimo episodio è la mia visita, qui a Besana, a casa Corti. Avevo terminato gli studi all’Università Cattolica e stavo per rientrare in Umbria, in famiglia. Ed Eugenio volle che conoscessi i suoi genitori. Ci siamo sposati due anni dopo ad Assisi, celebrò don Carlo Gnocchi».

Altrettanto significativo il progetto del Comune di Besana in Brianza di trasferire nella Villa Filippini, sede anche della biblioteca civica “Peppino Pressi”, gli arredi dello studio dello scrittore, tra cui la scrivania, la poltrona, gli scaffali e alcuni oggetti: le divise militari, la medaglia d’argento al valor militare, le targhe di alcuni premi ricevuti. «Vorremmo che la città – spiega il sindaco Emanuele Pozzoli, che è anche assessore alla Cultura – assumesse maggiore consapevolezza della figura dello scrittore. Non vogliamo però che si tratti di un museo, bensì di un luogo vivo, un “Centro studi Eugenio Corti”, come ha suggerito la signora Vanda che generosamente mette a disposizione tutti questi cimeli. Un luogo dove speriamo che in futuro si possa svolgere anche la cerimonia del premio internazionale a lui dedicato (destinato a studi e tesi di laurea sulle sue opere, ndr). E la biblioteca civica, oltre a realizzare un’area cortiana al suo interno, ospiterà gran parte dei libri di proprietà di Corti, che sarà possibile consultare». Mentre la corrispondenza e i testi più importanti che gli sono serviti per scrivere i suoi libri sono già custoditi alla Biblioteca Ambrosiana, come Corti stesso desiderava.

Non si ferma qui la spinta a valorizzare l’illustre concittadino: «Nel Cavallo rosso troviamo una splendida rappresentazione della nostra storia, del nostro territorio e della nostra gente di Brianza – continua il sindaco – . Ho già parlato con la dirigente scolastica del nostro istituto comprensivo auspicando che nella scuola secondaria di primo grado possa esserci spazio per la conoscenza dell’opera di Corti. E stiamo pubblicando un numero speciale dell’informatore comunale, interamente dedicato all’autore».

Il cavallo rosso galoppa da tempo per il mondo (è tradotto in otto lingue): ora in Francia – dove Corti gode di ottima fama grazie all’editore Vladimir Dimitrjievic e al professor François Livi – la casa editrice Noir sur blanc ha cominciato dal romanzo maggiore la pubblicazione dell’intero corpus dello scrittore besanese.

Corti, 25 anni da longseller

Venticinque anni dopo la prima edizione, Il cavallo rosso di Eugenio Corti continua la sua corsa per le librerie, e (ora) le edicole: un vero e proprio “longseller” che è giunto ormai alla ventitreesima ristampa. Quasi un prodigio editoriale per un romanzo di 1270 pagine e privo del sostegno promozionale degli editori che contano (è pubblicato dalle Edizioni Ares di Milano). Eppure, anno dopo anno, edizione dopo edizione, questo scrittore cristiano, estraneo ai “salotti culturali”, ha venduto in Italia oltre trecentomila copie del suo maggior romanzo, che vanta anche un bel numero di traduzioni: in spagnolo, francese, inglese, romeno, lituano, persino giapponese; mentre sono in preparazione quelle in olandese, polacco e serbocroato. «Non dimentico la febbrile attesa della prima edizione, nel maggio 1983 – rievoca Corti -. La stampa era finita, la copertina no: così quindici libri furono lucidati a mano perché potessi consegnare la prima copia a papa Giovanni Paolo II in visita a Desio». E ora, quasi a suggello del venticinquesimo anniversario, la prossima settimana uscirà con Famiglia Cristiana un’edizione (altre cinquantamila copie) in tre tomi, corrispondenti ai tre volumi di cui il romanzo si compone.

Eugenio Corti, nato nel 1921 a Besana in Brianza (Milano), ha fatto parte di quella gioventù che nel 1940 si trovò catapultata sui diversi scenari di guerra, proprio come molti dei personaggi del romanzo. Scampato alla morte nella ritirata dal fronte russo (raccontata nell’opera I più non ritornano del 1947, ora reperibile nella Bur), ha combattuto ancora tra i reparti dell’esercito regolare che hanno accompagnato gli Alleati nella liberazione dell’Italia (materia del suo Gli ultimi soldati del re). Dal dopoguerra in poi ha visto le trasformazioni di una società che, modernizzandosi, ha via via perso quell’impronta cristiana che caratterizzava gran parte dell’Italia, certamente la Brianza dei “paolotti”. Corti sente di dover contribuire alla battaglia per il Regno (di Dio), come aveva promesso in un momento tragico della ritirata di Russia. «L’idea del Cavallo rosso – spiega Corti – era di rendere la realtà dell’uomo del mio tempo con un romanzo storico contemporaneo. Credo nel valore del romanzo: il completamento della fantasia serve a rendere la realtà storica in modo più compiuto. Se vogliamo ricordare la peste del Seicento a Milano, infatti, pensiamo ai Promessi Sposi e non alla Storia della colonna infame». Assoluto però resta il rispetto della verità: «Anche se non volevo entrare nel romanzo come voce narrante, gran parte delle vicende che racconto le ho vissute in prima persona, ma le ho distribuite tra i vari personaggi. Che hanno tutti tratto spunto da persone reali».

Facendo centro sul microcosmo cristiano di Nomana, Corti accompagna Ambrogio, Stefano, Manno, Michele, Alma, Giustina, Colomba, Fanny nei risvolti lieti e dolorosi della vita e compone un grandioso affresco delle vicende del nostro Paese dal 1940 al 1974. Ciò che non è autobiografico è stato scrupolosamente verificato: Corti ha perlustrato le coste della Tunisia per riferire della traversata di uno dei protagonisti dall’Africa così come ha percorso migliaia di chilometri in Paraguay per documentarsi sulle Riduzioni dei gesuiti (ambiente del romanzo La terra dell’indio, il primo dei “racconti per immagini”, seguito da L’isola del paradiso e Catone l’antico). «I tre volumi del Cavallo rosso sono intitolati con espressioni tratte dall’Apocalisse: il cavallo rosso simboleggia la guerra, il cavallo livido (verdastro dice il testo biblico) raffigura la guerra civile, mentre l’albero della vita indica il ritorno della pace che sempre segue anche le vicende più tragiche». E la conclusione del romanzo, con la salvezza ultraterrena anche dei malvagi, ci ricorda che «la Provvidenza sa far nascere il bene anche dal male».

Nella tragedia Processo e morte di Stalin (con la geniale intuizione del dittatore sovietico eliminato dal una congiura dei suoi fedelissimi) e in altri testi di saggistica Corti ha messo a frutto la conoscenza del comunismo acquisita in Russia per cercare di illuminare sugli orrori di un mondo che voleva fare a meno del cristianesimo. Sono opere che hanno decretato l’emarginazione di Corti, ma se la critica “ufficiale” lo ignora, il sostegno dei lettori non è mai venuto meno a questo cantastorie, come gli piace definirsi: i raccoglitori nel suo studio conservano migliaia di lettere di ammirazione giunte da tutto il mondo. All’estero le opere di Corti hanno trovato ottima accoglienza, soprattutto in Francia: numerose sono le ristampe e tra i lettori entusiasti del Cavallo rosso si può annoverare anche il cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione. Con 87 primavere sulle spalle, Eugenio Corti continua il suo lavoro di narratore: «Scrivo sempre prima a matita (ne ha una schiera sulla scrivania, ndr) e poi batto il testo, un tempo a macchina ora al computer. Ora sono alla seconda stesura di una storia ambientata nel mio amato Medioevo, l’epoca delle cattedrali gotiche, che ha come protagonista una monaca, antenata della famiglia di mia moglie, che fondò un ordine francescano femminile dedito alla vita attiva e non solo a quella contemplativa». Il soldato del Regno è ancora in servizio.

Editoria cattolica, la sfida del cooperare

20180401_000828Ancora reazioni, analisi e proposte alle sollecitazioni di Roberto Righetto, coordinatore della rivista Vita&Pensiero, sullo stato di crisi dell’editoria cattolica in Italia. Dopo una prima serie di osservazioni, intervengono ora nel dibattito altri protagonisti del settore, i cui ruoli piuttosto differenziati consentono un ampio spettro di punti di vista, che sono riportati sul nuovo numero della newsletter di Vita&Pensiero, diffusa alla vigilia di Pasqua, a cura di Simone Biundo.

Il giornalista e scrittore Armando Torno parte da un assunto: «Il mondo cattolico ha smesso di credere in un certo modo di fare cultura». Pur mostrando di apprezzare le edizioni di testi di santi e di classici del pensiero, lamenta «emorragia di idee che ha colpito buona parte dell’editoria cattolica». A riprova invita a entrare nella libreria dietro il Duomo di Milano: «Ditemi che differenza c’è tra quello che oggi trovate e quanto era in mostra vent’anni fa». Il suo pronostico è che «andrà sempre peggio», perché i successi di Vittorio Messori, Georges Bernanos o François Mauriac sono stati resi possibili «grazie all’humus culturale che la Chiesa manteneva vivo e che ora sembra scomparso grazie ai diserbanti che sono sparsi da quei libri di intrattenimento più o meno cattolici, più o meno scritti da alcune personalità, più o meno di successo, ma sicuramente inutili. Alla fede e agli uomini».

Anche Ilario Bartoletti, direttore di Morcelliana e Scuola editrice, come già Guido Dotti, fa riferimento al «progressivo assottigliamento» della base dei lettori per l’editoria cattolica di cultura, che è alla ricerca di un compromesso «tra plusvalore simbolico dei libri e bassa redditività economica di certi titoli che non puoi non pubblicare se vuoi fare quel tipo di editoria». Un’attività che è sempre stata «un fragilissimo equilibrio di bilancio economico e catalogo di qualità». E sempre «spes contra spem. Forse, non restano che le virtù della fortezza e della speranza come abiti dell’editore».

Giuseppe Caffulli, direttore di Terra Santa, una delle editrici più giovani (nata nel 2005),  riferisce che il grosso scoglio iniziale è stato «la crisi della distribuzione libraria in ambito cattolico», che li ha costretti ad affrontare il mare magnum delle librerie laiche di catena. Convinti che in un «mercato sempre più spietato» e con «lettori sempre più esigenti», «la sfida vera sia proprio quella della qualità», grazie alla quale «la nostra presenza in libreria è aumentata». Per «scovare lettori», spazio a fiere, eventi, iniziative culturali, convegni, conferenze, serate in parrocchia e nei circoli culturali, o anche il Festival francescano che permette di “sfruttare” il carisma dell’editore, che è espressione dei Frati minori della Custodia francescana di Terra Santa.

Secondo il consigliere delegato del Consorzio editoria cattolica, Giorgio Raccis, la crisi del libro come consumo culturale ha radici lontane nel tempo, ma per l’editoria cattolica «il punto di svolta è la caduta del Muro e il trionfo dell’ideologia della Fine della storia». «Se c’è stata un’età dell’oro per l’editoria cattolica – aggiunge -, questa è stata quella del fecondo dibattito ecclesiale che ha preceduto e accompagnato il concilio Vaticano II e la sua ricezione».  Anche la recente «stagione primaverile» rappresentata da Francesco, «stenta a produrre frutti editoriali che vadano al di là dell’inflazione produttiva, ma ripetitiva ed esegetica, delle parole del Papa; si rompono gli steccati, ma nei nuovi spazi si cammina in modo incerto e prudente». Ma il difficile sono le terapie. Riconosciuto – con Righetto – che non ci salveranno solo i manager, Raccis sottolinea il ruolo delle redazioni: «Oggi non sono più il luogo dove si forma, ragiona, ricerca e progetta un intellettuale collettivo; sempre più spesso i singoli hanno l’autonomia delle decisioni solitarie a cui manca la ricchezza del confronto intellettuale/culturale con l’altro».

Marco Beck, scrittore e consulente editoriale, alle cause di crisi già additate ne aggiunge un’altra: «La rigida, dogmatica attribuzione di quasi ogni compito dirigenziale a esponenti del clero e, di conseguenza, l’inesistente o insufficiente delega di responsabilità  affidata a specialisti laici». Rievocando la sua esperienza alla San Paolo «come responsabile di un ristrutturato settore letterario», Beck ricorda di aver varato – con la consulenza di Giuliano Vigini e Ferruccio Parazzoli – alcune collane (“Pinnacoli”, “Vele”) che «aprivano il mondo angusto del cattolicesimo alle nuove correnti, ai nuovi venti, ai nuovi gusti di un pubblico non più soltanto di stretta osservanza ecclesiale», di aver rilanciato “Dimensioni dello spirito”, oltre ad aver proposto strenne di racconti natalizi scritti da scrittori di alto profilo. Un lavoro che ebbe un «epilogo amaro»: la chiusura del settore letterario dell’editrice per la grave crisi aziendale del 2003-2004. Un’esperienza che però, suggerisce Beck, «potrebbe essere riesumata come punto di riferimento, certo da aggiornare e ridefinire, per una ripartenza – con nuove energie e con un ricambio di risorse umane che dia spazio a giovani talenti – di quella macchina che troppi editori cattolici hanno lasciato arrugginire». Provare a riportarla alla luce «per restituire fiducia a un mondo frastornato, impaurito, regressivo».

Infine giunge l’opinione di Giuliano Vigini, esperto di editoria e in parte causa – con il suo recente Storia dell’editoria cattolica in Italia – dell’articolo di Righetto e del successivo dibattito. Oltre a indicare i problemi imprenditoriali, peraltro importanti (difficoltà finanziarie degli istituti religiosi proprietari delle case editrici, direzione delle stesse affidata in gran parte a religiosi e religiose, limitatezza del canale di vendita), Vigini tenta una risposta sui problemi ecclesiali e pastorali: non si fa quasi nulla per formare alla lettura e incentivarla con opportune iniziative nelle singole diocesi e parrocchie. E la lettura, già bassa, rimane confinata a un ambito devozionale.

Un dibattito che si è avviato – non certo concluso – e che offre riflessioni stimolanti. Di positivo mi pare di poter cogliere soprattutto una certa disponibilità ad aiutarsi, a cercare di “fare sistema”, a non cercare solo la personale sopravvivenza. Ma credo anche che, a parte le difficoltà imprenditoriali innegabili, figlie della crisi economica e della società secolarizzata, Righetto chiedesse all’editoria cattolica – con un auspicio rivolto anche alla Chiesa – soprattutto uno scatto di fantasia e di coraggio nelle scelte dei testi da pubblicare, o anche da ripubblicare: testi ormai introvabili perché fuori catalogo o autori già di successo all’estero ma di cui non si è colta l’occasione di tradurli. Anche se – ovviamente – nessuna strategia da sola può produrre i grandi libri: per quelli ci vogliono i Vittorio Messori o gli Eugenio Corti, per restare agli esempi di best seller citati da Righetto.

 

Tempo di Libri, «l’editoria cattolica si rinnovi con coraggio»

20180308_095901Ieri sera, con una inaugurazione dedicata agli incipit, è cominciata a Milano la seconda edizione di Tempo di Libri, la fiera organizzata dall’Associazione italiana editori. Più che le diverse presentazioni della kermesse, ho trovato interessante l’articolo sull’Osservatore Romano del 6 marzo, che pubblica una riflessione di Roberto Righetto apparsa sulla newsletter di Vita&Pensiero. Partendo dalla constatazione dello stato di sofferenza per non dire stallo dell’editoria cattolica italiana, l’autore si domanda: «Dove sono finiti progettualità, visione e coraggio?».

Condividendo preoccupazioni espresse da Giuliano Vigini nel suo recente volume sulla storia dell’editoria cattolica in Italia, Righetto prova a indagare le cause del fenomeno, a grande distanza ormai dagli ultimi “best seller di Dio”, Ipotesi su Gesù di Vittorio Messori e Il cavallo rosso di Eugenio Corti: il contesto culturale, il calo dei lettori, l’emorragia delle parrocchie, ma anche «una pastorale che preferisce puntare sui nuovi media illudendosi di catturare di più i giovani ma finendo per snobbare l’importanza della cultura religiosa per la formazione del credente». E suggerisce di evitare alibi legati alle trasformazioni tecnologiche e alla secolarizzazione, sottolineando piuttosto verso «un’incapacità gigantesca di far fronte al cambiamento, da parte degli editori cattolici, spesso a causa di presunzione, di autoreferenzialità». Righetto pone una lunga serie di quesiti su fatti che testimoniano una certa «inerzia» da parte della Unione editori e librai cattolici italiani (Uelci): da testi importanti non più ripubblicati, alla riduzione delle librerie cattoliche, fino alla mancata valorizzazione di autori che offrono o interpellano valori cristiani. E conclude: «A volte credo che il problema sia la mancanza di coraggio. E di uomini nuovi». Sottolineando opportunamente: «Non ci salveranno solo i manager».

Finita la pars destruens, non manca però qualche aspetto positivo: tralasciando il versante letterario infatti, «resta insostituibile il ruolo di alcune case editrici cattoliche in campo teologico e filosofico» o nella saggistica religiosa. Se «segni di vitalità permangono», Righetto conclude che «la Chiesa italiana dovrebbe porsi davanti la sfida di rianimare la cultura religiosa del nostro paese anche attraverso lo strumento del libro, senza paura e puntando su forze giovani e preparate».

Da Omero a San Francesco in laguna

iliadeOccasioni per ricreare un po’ lo spirito – tra una proiezione elettorale e l’esito di un ballottaggio – in due articoli pubblicati oggi sui quotidiani. Cesare Sinatti sul Fatto quotidiano invita i giovani a leggere Omero, fra Enzo Maggioni e Giorgio Fornoni sull’Eco di Bergamo ci illustrano la bellezza di San Francesco del Deserto, isola della laguna veneta che ospita una comunità di frati francescani.

Il giovane studioso Sinatti cerca di spiegare «Perché leggere Omero a vent’anni può essere davvero meraviglioso». Partendo dal presupposto (tutt’altro che condivisibile) secondo cui a un ragazzo oggi non dovrebbero interessare testi con più di 2.500 anni, si osserva che tali opere «sono labirinti magnifici in cui vale la pena di perdersi e che a ogni svolta d’angolo regalano rivelazioni». Che sarebbe già una buona ragione per cominciare a leggere. Tuttavia «senza cimentarsi in studi linguistici e confrontarci con esperti», a spingere nella lettura «c’è prima di tutto un rapporto personale». E spiega che si legge «alla ricerca di qualcos’altro, di qualcosa che forse non è neanche necessariamente all’interno del libro e che emerge piuttosto dalla nostra interazione con esso». «La letteratura parla con noi, di noi, attraverso il tempo»: e provoca le nostre reazioni, come accade a Odisseo, che pianse quando sentì raccontare da Demodoco la presa di Troia da parte dei Greci (Odissea, VIII, 521). Aggiunge Sinatti che non importa la lontananza nel tempo«finché l’esperienza umana conserva nelle parole la stessa vividezza che ha nella realtà». Ricordo che lo scrittore Eugenio Corti (autore del Cavallo Rosso) sosteneva di essersi «innamorato» di Omero in prima media, quando prese in mano il testo ancora prima di iniziare le lezioni. Si rese conto che Omero «trasformava in bellezza tutto quello che scriveva» e Corti decise di imitarlo e diventare scrittore. Se non può essere «indotta» l’esperienza di amare un libro, Sinatti comunque consiglia di proporre ai ragazzi la scommessa: «Mettere in gioco qualche ora di vita in cambio di un’epifania possibile». A vent’anni «vale la pena tentare: un’epifania di Omero può essere un regalo prezioso». Personalmente posso confermare che leggendo l’Iliade ad alta voce a coetanei in età giovanile, riscontrai più di una impressione positiva tra ragazzi che non avevano mai saputo nulla di Omero, ma non avevano nemmeno prevenzioni.

Un’esperienza di meditazione è quella che propone l’itinerario sull’isola di San Francesco nel Deserto. L’origine della presenza francescana viene fatta risalire al 1220 quando Francesco, di ritorno dal viaggio in Terra Santa per cercare di convertire il sultano d’Egitto, trovò riposo in questo angolo di laguna. L’isola fu poi donata dal nobile veneziano Jacopo Mechiel ai frati nel 1233 e da allora – con piccole interruzioni – è custodita dalla presenza francescana. I cinque frati ora residenti conducono la vita del loro Ordine, ma offrono anche ospitalità a chi cerca momenti di raccoglimento e preghiera: «Oltre 25 mila persone, provenienti da tutto il mondo – scrivono Maggioni e Fornoni – visitano ogni anno questo luogo di silenzio e di pace». In media ogni fine settimana una quindicina di persone si affianca alla vita dei frati e ne segue i ritmi, con i pasti in refettorio e due momenti di riflessione al giorno. Per i soggiorni sono a disposizione trenta celle. Occorre ovviamente contattare il convento: tutte le informazioni sul sito www.sanfrancesconeldeserto.it.

Eugenio Corti ancora in campo

Una nuova edizione del romanzo Il cavallo rosso viene pubblicata da martedì 18 aprile (in tre volumi) con Il giornale

eugeniocortiA tre anni dalla morte, la figura e le opere dello scrittore Eugenio Corti – l’autore del Cavallo rosso – continuano a suscitare interesse e iniziative, editoriali e non. Lo scorso anno si è svolto un convegno internazionale in due sessioni, a Parigi e Milano (con la pubblicazione dei relativi Atti) promosso dall’Università Sorbona (per volontà dell’italianista François Livi) e dal Centro di ricerca «Letteratura e cultura dell’Italia unita» dell’Università Cattolica (diretto da Giuseppe Langella). Recentemente il “Cantiere Eugenio Corti” promosso dal Centro di ricerca della Cattolica ha lanciato un premio internazionale, sostenuto dall’Associazione culturale Eugenio Corti, per valorizzare studi ed edizioni, nonché tesi di laurea e di dottorato dedicate allo scrittore brianteo. In più, è in corso di svolgimento – ancora per impulso del Centro di ricerca della Cattolica – il concorso di scrittura «Sèmm al mund per vütass: cultura del lavoro, solidarietà, fede nella Brianza di Eugenio Corti» rivolto tre fasce di partecipanti: scuole secondarie, università e autori over 25.

In ambito editoriale siamo in vista della trentatreesima edizione dell’opera principale di Corti, Il cavallo rosso. Le Edizioni Ares di Milano, che hanno in catalogo l’opera omnia dello scrittore brianteo, ristampano ininterrottamente il suo capolavoro dal 1983. Martedì 18 aprile però la nuova ristampa del libro di Corti si troverà in edicola, allegata al Giornale e sarà la prima delle tre parti in cui è suddiviso il romanzo: l’iniziativa è stata presentata domenica 16 aprile con un articolo di Davide Brullo «Riscopriamo Il cavallo rosso, romanzo paradigma del ‘900». Rievocato l’esordio letterario di Corti con il resoconto della ritirata di Russia I più non ritornano, che fu pubblicato nel 1947 da Garzanti, Brullo ne delinea un ritratto di combattente epico francamente un po’ esagerata («Mentre scrive, Corti urla, combatte, la sua scrivania è una trincea, un bunker, un aereo sopra Stalingrado, un bolide verso Berlino»). E intravvede difficoltà personali all’origine del romanzo («Nel 1972, quando Corti ha perso tutto, frantumato dal dolore, capisce che è proprio il dolore, in quella zona micidiale e bastarda tra il soccombere e il ruggire, a consentire il capolavoro»), quando invece era la storia che voleva narrare gli urgeva dentro da anni. Mentre tralascia il momento letterariamente e biograficamente significativo della tragedia Processo e morte di Stalin. In ogni caso, riconosce che Corti, emarginato o valorizzato (i lettori non gli hanno mai fatto mancare il loro sostegno), «resta, inossidabile, se stesso»: «pensa che la vita abbia senso» e «si sporge a guardare l’aldilà». Ogni nuova edizione di un romanzo come questo va guardata con favore.

Medioevo delle donne e romanzo scandalo. E i 90 anni di Ratzinger

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Giovanna d’Arco

È una pagina densa oggi su Avvenire la copertina di Agorà: il Medioevo al femminile di Régine Pernoud e il discusso romanzo Bruciare tutto di Walter Siti; in più l’annuncio del premio «Eugenio Corti». Infatti all’autore del Cavallo Rosso, scomparso tre anni fa, il Centro di ricerca «Letteratura e cultura dell’Italia unita« dell’Università Cattolica di Milano dedica un premio internazionale per promuovere lo studio della sua opera. Due le sezioni: miglior pubblicazione sulla sua opera e miglior tesi di laurea o dottorato. La scadenza è l’8 ottobre prossimo; maggiori informazioni sul sito del Centro di ricerca.

Lo storico Franco Cardini («Clotilde, il cuore e il Medioevo delle donne») plaude alla nuova edizione di un capolavoro della studiosa francese Régine Pernoud La donna al tempo delle cattedrali (Lindau). «Il Medioevo è pieno – scrive Cardini – di donne straordinarie: statiste, da Eleonora d’Aquitania a Matilde di Toscana che ha offerto un contributo formidabile alla Riforma della Chiesa nell’XI secolo a Bianca di Castiglia madre di Luigi IX; sante, da Chiara d’Assisi a Caterina da Siena a Giovanna d’Arco; intellettuali, scrittrici e poetesse, da Eloisa a Christine de Pizan». E donna straordinaria era anche Regine Pernoud, scrive Cardini: «Autrice di studi scientifici rigorosissimi, era una fervente sostenitrice della necessità civica di scrivere libri di buona e affidabile divulgazione storica, che servissero ad alzare il livello culturale medio della società civile». E questo libro – conclude – «potrebbe essere una piccola, vera e propria storia del Medioevo» visto attraverso le donne, da Clotilde (moglie del re franco Clodoveo, V-VI secolo) a Giovanna d’Arco (morta nel 1431).

L’elzeviro di Alessandro Zaccuri («Agli abissi di Siti manca il coraggio di Dostoevskij») esamina il nuovo romanzo di Walter Siti Bruciare tutto, «al centro di una polemica non esclusivamente letteraria». Protagonista è infatti don Leo, un giovane prete omosessuale, ma anche pedofilo. Zaccuri osserva che analoga storia di abiezione era stata narrata da Fëdor Dostoevskij nei Demoni: «È indubbio che siano una delle fonti di Bruciare tutto, se non la principale». I libri di Siti «ruotano attorno a una visione tutt’altro che conciliata dell’omosessualità, nella quale il desiderio erotico si rovescia in colpa, stigma morale, condanna». Ma il suo don Leo, che «aveva giurato a se stesso di non diventare mai come il suo turpe confessore, è precipitato nello stesso inganno». E sembra non avere mai creduto in Dio «contrariamente a don Lorenzo Milani, alla cui “ombra ferita e forte” il romanzo di Siti è ambiguamente e inspiegabilmente dedicato.

«Non importa – osserva Zaccuri – che Siti si dichiari non credente… La discesa agli inferi di don Leo avrebbe potuto raccontarla solo uno scrittore che, almeno durante la stesura del romanzo, si fosse fatto carico del paradosso della fede, di quel come se su cui tutto sta o cade. In assenza di questo, la soluzione di assegnare a un altro bambino il ruolo prima di tentatore e poi di vittima sacrificale risulta tanto strumentale da suscitare raccapriccio».

Infine due segnalazioni. Nella seconda pagina di Agorà, Maurizio Schoepflin recensisce libro del teologo Romano Penna Quale immortalità? (San Paolo) che «offre un contributo prezioso alla chiarificazione delle numerose e tanto differenti concezioni che, lungo i secoli, si sono susseguite intorno alla questione relativa a ciò che ci attende post mortem».

Nella pagina dedicata agli spettacoli, Tiziana Lupi («L’umanità di Benedetto») presenta la puntata che La grande storia, domani alle 20 su Rai3, dedicherà alla figura del Papa emerito in occasione del suo novantesimo compleanno. Lo speciale Benedetto XVI, la storia di Joseph Ratzinger da un lato ne racconta la biografia, con immagini inedite o poco note, dall’altro si interroga – spiega il responsabile de La grande storia Luigi Bizzarri – sul rapporto «tra il chiostro e il mondo», tra «il desiderio di una vita appartata, dedicata alla preghiera, allo studio e alla scrittura» e «il servizio alla Chiesa» fino al soglio di Pietro «Ad oggi – osserva Bizzarri – sappiamo troppo poco di ciò che Benedetto XVI ha fatto realmente per la Chiesa… Una vera valutazione potremo farla, forse, tra vent’anni». Commenta l’autrice Nietta La Scala: «Ciò che mi ha colpito di più è stata l’umanità di Ratzinger».

Ha 100 anni il prete del “Cavallo Rosso”

In occasione del centesimo compleanno di don Mario Cazzaniga, ispiratore e amico dello scrittore besanese Eugenio Corti, il mio articolo pubblicato oggi nelle pagine culturali di Avvenire. L’immagine ritrae don Mario durante la cerimonia di conferimento della medaglia d’argento al valor militare a Eugenio Corti (a sinistra), a Besana in Brianza, nel luglio 1950.

Corti - don MarioCent’anni di vita, di cui oltre 70 da sacerdote. Don Mario Cazzaniga, il prete che compare tra i protagonisti del “Cavallo Rosso” di Eugenio Corti, accetta con piacere i festeggiamenti che tanti gli dedicano in questi giorni, ma è fiero soprattutto della pergamena con gli auguri che gli ha inviato papa Francesco. Ma l’ammirazione per il Papa («è un uomo eccezionale») non gli fa dimenticare il particolare legame stretto con il cardinale Carlo Maria Martini, che lo stimolò a celebrare l’Eucaristia dove nessuno era mai riuscito.
«Anni fa scrissi un articolo, dal titolo: “Gesù Cristo è la mia guida”» sottolinea don Mario, da pochi mesi ospite presso la residenza San Pietro di Monza, gestita dalla cooperativa “La Meridiana”. E aggiunge: «Due sono le linee di sviluppo del mio sacerdozio: da un lato la dedizione ai malati, a costo eventualmente della vita; dall’altro il compito di portare Gesù in tutto il mondo. E in questo sentivo il sostegno del cardinale Martini (ma anche del cardinale Giovanni Colombo ero stato il beniamino)». In effetti don Mario ha viaggiato dall’Australia all’Africa, dall’isola di Pasqua alla Cina, dalle Hawaii (visitando il lebbrosario di Molokai) al Circolo polare artico canadese: «Qui riuscii a celebrare la Messa in una stazione di ricerca isolata spremendo gli acini di un unico grappolo d’uva che si trovò in una dispensa».
Nato il 16 ottobre 1915, Mario Cazzaniga divenne sacerdote nel 1944 («Fui salvato dalla guerra dal cardinale Schuster»), ed ebbe l’incarico di coadiutore alla parrocchia di Besana in Brianza (Monza). La sua figura di giovane prete, quale emerge dalle pagine del “Cavallo Rosso” («capelli a spazzola, faccia da bambino con occhiali cerchiati di ferro sottile», scrive Corti e, a parte la canizie, non è molto cambiato) segna profondamente la vita dei giovani e delle famiglie: don Mario cerca di educare la gioventù e di aiutare tutti, nelle difficili prove della guerra prima e della guerra civile poi, con un criterio guida: la misericordia inesauribile di Dio.
Don Mario conosce presto la famiglia Corti, verso cui sviluppa grande stima, in particolare per la mamma Irma: «Sperava che di dieci figli almeno uno diventasse sacerdote, e aveva già fatto preparare una talare in gabardine per l’ultimo». Ma quando anche Corrado, intrapresi gli studi di medicina, sembrava ormai votato a un’altra missione «la signora me ne fece dono. Ma il Signore ha le sue vie: i genitori regalarono al figlio un viaggio a Lourdes accompagnato da me, per premiarlo dei suoi risultati universitari. E lì, dopo una notte trascorsa in preghiera nella grotta, abbracciandomi mi disse che voleva diventare gesuita».
Don Mario è il suggeritore nascosto di molti episodi narrati da Eugenio Corti (che nel dedicargli il volume della prima edizione lo definisce «personaggio tra i più belli di questo libro»): «Abbiamo passato tante ore insieme. Gli raccontavo tanti particolari della vita qui, mentre lui era al fronte in Russia». Traccia importante della propensione di don Mario al perdono, nel romanzo, è l’episodio della conversione del Foresto, il comunista mandato in paese a fare proselitismo, colpito da una leucemia mortale. «Il fatto è storico – conferma don Mario –. Era un uomo gigantesco, sempre armato perché diceva di andare a caccia, ed era temuto da tutti. Ma quando fu ricoverato, trascorsi ore e ore con lui: prima a parlare di Tolstoj e Dostojevski, poi piano piano di temi religiosi. E alla fine, ammettendo di averne fatte di tutti i colori, chiese di essere confessato e comunicato. Gli feci un gran funerale in chiesa, con i suoi amici frementi di rabbia». Il tempo di guerra è stato epoca di grandi odi e di altrettanto grandi opportunità di conversione: «Predicavo che bisogna sempre rispettare i morti: quante estreme unzioni ho amministrato! E quante confessioni di giovani combattenti in punto di morte (c’è stato chi nel delirio mi credeva un nemico e voleva strozzarmi)! Fui chiamato quando ci fu la strage di Bulciago, dove i partigiani incapparono in una colonna di fascisti in fuga verso Como. Così come dovetti riferire alla moglie di un fascista che suo marito era stato fucilato: nonostante le mie precauzioni, svenne. Ma da allora cominciò a frequentare la chiesa». E ha corso anche rischi personali: «I comunisti mi malmenarono fuori dalla chiesa (ma non li denunciai) e i nazisti mi puntarono la pistola alla tempia perché – dopo aver preso in ostaggio alcuni operai – volevano che rivelassi chi aveva compiuto un furto di sale in stazione: ma io ero sacerdote, dovevo solo mettere pace». «Ci sono momenti – commenta – in cui si fanno cose eroiche che non si era mai pensato di poter fare». E aggiunge: «Ero coraggioso, adesso sono un pulcino».
Dopo il ministero a Besana («dove ho lasciato la pelle»), don Mario viene destinato quale cappellano all’ospedale San Gerardo di Monza: «Qui avevo a che fare con gli infettivi, ma non mostravo paura (come accade anche nel Cavallo Rosso, quando visita i ricoverati con la tisi, ndr). E anche il cardinale Giovanni Battista Montini, in visita al reparto, fece a meno del disinfettante». Nel luogo di sofferenza per antonomasia, don Mario è punto di riferimento: «Gianna Beretta Molla chiese subito di me quando venne ricoverata, incinta e malata di tumore. Ero presente quando disse: “Nel dilemma di scegliere chi deve vivere, sono pronta a dare la mia vita per la mia creatura”. E, da medico, sapeva bene che cosa la attendesse».
Don Mario è anche il suggello del “Cavallo Rosso”: l’ultima pagina del romanzo rivela che grazie alle sue preghiere ha raggiunto il paradiso uno dei personaggi più odiosi, un funzionario dedito alla caccia, alla tortura e all’uccisione dei partigiani prima, dei fascisti poi, ma che – scrive Corti – «grazie alle preghiere instancabili di don Mario, il demonio non è riuscito a tenere soggiogato sino alla fine». Alla vigilia del Giubileo della misericordia, don Mario è ancora un punto di riferimento: «Ero venuto qui per riposare – scherza –, ma il Papa mi chiede di andare avanti…». E legge, sulla pergamena incorniciata alla parete di fianco al letto, che per don Mario «Papa Francesco… invoca l’intercessione di Maria affinché il suo ministero continui a essere icona e trasparenza di quello di Cristo Buon Pastore».

«Eugenio Corti, testimone di Cristo e della bellezza»

Per il funerale dello scrittore besanese Eugenio Corti, il mio articolo pubblicato sulle pagine milanesi di Avvenire domenica 9 febbraio 2014.

basilicabesanaNel suo ruolo di testimone, «Eugenio ci indica e ci conduce a Cristo». E ci ha lasciato «un’eredità ricchissima e preziosa». Raccoglierla «significa imparare da lui la stessa sua grinta, la stessa passione che nasce dalla fede limpida e dalla fedeltà alla Chiesa». Sono alcuni dei passaggi più significativi dell’omelia che monsignor Patrizio Garascia, vicario episcopale della zona pastorale V di Monza, ha pronunciato ieri presiedendo la celebrazione del funerale di Eugenio Corti, lo scrittore besa­nese morto martedì all’età di 93 anni.

Garascia ha portato il saluto e l’abbraccio del cardinale arcivescovo Angelo Scola alla moglie Vanda e ai tanti parenti, amici e ammiratori che hanno gremito la basilica di Besana in Brianza. Erano presenti il presidente della Provincia di Monza, Dario Allevi, gli assessori alla Cultura delle province di Monza, Enrico Elli, e di Lecco, Marco Benedetti, il sindaco di Besana Vittorio Gatti (con la giunta) e tutti i suoi predecessori: andando a ritroso Sergio Cazzaniga, Antonio Mauri, Giovanni Riva, Giuseppe Giovenzana e Giuseppe Crippa, che fu eletto nel lontano 1967. Presente anche il sindaco dei ragazzi Ellen Bar­low, autorità militari e presidi delle scuole del territorio, associazioni combattenti della zona, diversi gruppi alpini della Brianza, associazio­ne Nastro Azzurro, Aido, Avis, Croce Bianca, Cai, Corpo musicale S. Cecilia, Pro Loco Besana.

Perché così tante persone, ha detto il vicario e­piscopale, si sono radunate per dare l’ultimo saluto e rendere omaggio a Eugenio Corti? «Per­ché riconosciamo in lui un amico, un padre, un maestro, un genio letterario di questa terra di Brianza, uno scrittore eccellente, che ha sapu­to incarnare la fede cristiana nei libri e nella vi­ta ». In una parola perché «riconosciamo in Eu­genio Corti un testimone, e si è testimoni – ci ricorda il nostro arcivescovo citando il papa Be­nedetto – quando attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica. Il testimone rinvia a Cristo. Eugenio ci indica e ci conduce a Cristo».

Ma «il funerale cristiano diventa un canto a Cri­sto risorto dalla morte. Noi siamo qui a profes­sare lieti la nostra fede, riconoscendo con Eu­genio che la fede in Cristo è davvero la grazia della vita. Il dono più grande che può capitare a un uomo». E «dunque noi ora crediamo che Eugenio», che «si è affidato a Gesù», «ora è nel­le mani di Dio, quelle che lo hanno plasmato, che ora lo abbracciano».

Papa Francesco, ha ricordato Garascia, merco­ledì ha invitato a «chiedere la grazia di morire nella Chiesa» e «ha sollecitato ciascuno a pre­parare un’eredità da lasciare dopo la morte», precisando che si tratta della «nostra testimo­nianza da cristiani lasciata agli altri, e alcuni di noi lasciano una grande eredità». «Fra me e me – ha aggiunto il vicario – mi sono detto: forse pensava a Eugenio, che era morto la sera pri­ma ». E l’eredità di Eugenio, ha sottolineato Ga­rascia, «è ricchissima». Egli fu «fedele al voto di trasformare in bellezza tutte le narrazioni e o­perare per l’avvento del Regno». Eugenio Cor­ti, che «non intendeva la letteratura come una protesta», cercava di «rendere trasparente tut­ta la realtà dell’uomo» e «aveva imparato, den­tro l’esperienza della fede, che la realtà è sempre positiva perché via che conduce al Miste­ro ». «Dunque – ha concluso Garascia – raccogliere l’eredità preziosa di Eugenio significa impara­re da lui la stessa sua grinta, la stessa passione che nasce dalla fede limpida e dalla fedeltà alla Chiesa. Oggi come Eugenio un tempo nella ritirata di Russia siamo chiamati anche noi a camminare in mezzo a un gelo che rischia di a­trofizzare il cuore nostro e di farci morire» Ma non dobbiamo mai dimenticare «quello che Gesù ci ha detto: voi siete il sale della terra, la luce del mondo. Forse ci è chiesto un supple­mento di coraggio, lo possiamo fare guardan­do Eugenio».

La Brianza nelle radici, il Regno di Dio nel cuore

Per la morte dello scrittore besanese Eugenio Corti, questo è il mio articolo comparso sulle pagine milanesi di Avvenire giovedì 6 febbraio 2014. 

 

eugeniocortiNella casa di Besana in cui era nato 93 anni fa, si è spento martedì sera lo scrittore Eugenio Corti, l’autore del Cavallo rosso.E l’amore per la terra di Brianza è uno dei tanti fili di cui è intrecciata la trama del suo capolavoro, che percorre 34 anni di storia italiana raccontati attraverso le vicende di un gruppo di personaggi che hanno il loro centro – fisico, morale e spirituale – nella città briantea. Sin dalle pagine iniziali infatti, siamo immersi nel paesaggio collinare di Nomana, alias Besana, con l’episodio della falciatura del prato nei pressi della cascina Nomanella, circondati dallo scenario delle Prealpi. La cittadina resta il centro principale dell’azione, anche se il romanzo spinge i protagonisti in giro per il mondo, dalla Russia all’Africa, dalla Polonia alla Grecia: a Nomana si torna sempre e si fa sintesi delle esperienze vissute lontano.

La tempra dei personaggi spicca come carattere distintivo di una società che si era mantenuta sana moralmente, dedita a quella solidarietà umana (prima ancora che cristiana) che si può riassumere nel motto «siamo al mondo per aiutarci», che Giulia (personaggio che rappresenta la madre delloscrittore) soleva ripetere.E la fede cristiana – trasmessa in Brianza di generazione in generazione – emerge non solo nella partecipazione alle cerimonie religiose (come la benedizione per il mese mariano, nelle prime pagine del romanzo) ma sostanzia la speranza dei protagonisti in tutte le circostanze più dolorose, che la guerra non risparmierà. Se la patria lontana – la casa, gli affetti – è un pensiero fisso nel cuore di ogni soldato, l’immaginetta che raffigura il Crocifisso di Nomana che il bersagliere Stefano conserva nella trincea sul Don, rivela in modo singolare l’attaccamento da parte di un contadino alle proprie origini e tradizioni, simboleggiate appunto dal segno cristiano per eccellenza. E uno dei capisaldi cui Eugenio Corti più teneva era la fede cristiana della sua Nomana (Besana), mentre lo angustiava il suo affievolirsi, come emerge dalle pagine piene di rammarico dedicate, nel romanzo, agli anni successivi al Sessantotto e al loro impatto sul tessuto sociale brianteo.

Del resto se la vocazione di scrittore, come ebbe a dire più volte, gli nacque leggendoin prima media l’Iliade di Omero, ispirandogli il desiderio di trasformare in bellezza ogni racconto; la spinta definitiva fu ‘figlia’ di un voto religioso, fatto nel dicembre del ’42 (durante la ritirata di Russia) nella sacca di Arbusov, soprannominata la valle della morte: «Ho promesso alla Madonna, seguendo le indicazioni di mia madre (che sapevo che a casa pregava per me), che se fossi scampato a quella strage, mi sarei impegnato per l’attuazione del secondo versetto del Padre nostro:Venga il tuo Regno». E la missione di lavorare per il Regno non si era esaurita, per Eugenio Corti, con la scrittura dei suoi libri: continuava in un’opera di confronto e dialogo con tutti i suoi lettori (che gli hanno scritto centinaia di lettere) e con coloroche lo venivano a trovare. Innumerevoli infatti sono state nel corso degli ultimi decenni le persone che hanno sentito la voglia e il bisogno di conoscere Eugenio Corti, che ha sempre accolto con simpatia – con la moglie Vanda – nella propria casa, giovani e scolaresche, professori, uomini semplici e di cultura. E che ringraziava sempre i suoi ammiratori, come nei mesi scorsi ricevendo un giornalista: «Lei mi dà la carica, mi dà la sensazione di non avere buttato via il tempo, ma di essere stato utilea qualcuno».