Dal “possidente” Verdi al filologo Isella, sino alle edizioni dei classici greci e latini

Ieri sulla prima pagina della “Domenica” – supplemento culturale del Sole-24Ore – compariva un articolo dedicato a Giuseppe Verdi, nel suo ruolo di attento amministratore dei suoi cospicui beni, frutto principalmente della sua capacità di far rendere la sua produzione musicale grazie ai diritti d’autore. Giuseppe Martini, segretario scientifico dell’Istituto nazionale di studi verdiani, apre uno squarcio sulla gestione dei bilanci del musicista negli anni tra il 1888 e il 1894, illustrata nel libro Il taccuino finanziario di Giuseppe Verdi (Egea, pagg. 369, €38). Dall’ordinata contabilità tenuta dal maestro emerge – rileva Martini, curatore del libro – quanto Verdi fosse attento al suo patrimonio, ma tutt’altro che tirchio. Anzi, era pronto ad aiutare chi aveva bisogno (basta pensare alla Casa di riposo per musicisti che volle realizzare a Milano) e si stupiva che una signora milionaria non aiutasse la cognata rimasta vedova. Così come non voleva lasciare debiti, anche minimi: il pagamento dimenticato di due caffè e due panetti al bar della stazione causò un pronto intervento epistolare per rimediare.

Queste osservazioni mi ricordano alcuni cimeli presenti nella sua dimora di Villanova d’Arda (Piacenza): sia il blocchetto di buoni riservati ai senatori per viaggiare gratis in treno e piroscafo, intonso perché il senatore Verdi voleva pagare sempre di tasca propria; sia il documento di identità in cui alla voce professione indicò “possidente” quale sua occupazione. E Martini ricorda che giunse a essere il quinto contribuente italiano. Dalla fine dell’ottobre scorso Villa Verdi è chiusa per il mancato accordo tra gli eredi, ed è in attesa di vendita. Mi auguro che il ministro dei Beni culturali, Gennaro Sangiuliano, che si è già interessato alla vicenda, riesca nell’intento di mantenere fruibile per i cittadini un bene così significativo e rilevante della nostra storia culturale. 

Dai riordini di fine anno è riemerso un altro numero della “Domenica” del Sole-24Ore con alcuni articoli degni di nota. Si tratta dell’edizione del 6 novembre 2022 che ospitava un testo sulle edizioni dei classici greci e latini delle edizioni Les Belles Lettres e un profilo del filologo italiano Dante Isella.

Gioia e qualche amara riflessione suscita la recensione di Armando Torno all’ultimo volume della Collection Budè edito da Les Belles Lettres, il millesimo volume della prestigiosa collana di classici greci e latini. Si tratta del testo di Ippocrate Sulle fratture, opera del più famoso medico dell’antichità di cui sarebbe opportuno ancora oggi ricordare i principi della cura, dal primum non nocere al divieto di praticare aborti. Accanto al doveroso omaggio ai curatori del volume – Jacques Jouanna (direttore della serie greca della collezione), Anargyros Anastassiou (università di Amburgo), Amneris Roselli (Università di Napoli – L’Orientale) – Torno osserva con rammarico che manca in Italia lo stesso orgoglio che mostra chi in Francia, dal 1920, pubblica e ripubblica testi greci e latini «perché – chiosa – ogni generazione è costretta a rimeditare i classici». E – accanto alla notizia che tutti i testi della collana francese per celebrare il millesimo titolo erano in vendita con il 30 per cento di sconto sino alla fine di novembre 2022 – lamenta lo scarso sostegno pubblico ottenuto dall’unica collezione di libri che, in Italia, continua a pubblicare testi di qualità (talora edizioni critiche) dei classici antichi: la Fondazione Valla-Mondadori. Che forse non a caso da un paio d’anni ha abolito l’offerta promozionale dei suoi volumi che proponeva ogni novembre. 

Altrettanto gradevole il ricordo del filologo Dante Isella (1922-2007) che, nel centenario della nascita, delinea Gino Ruozzi. Ricordate le edizioni dei suoi autori preferiti, perlopiù lombardi, da Giuseppe Parini a Carlo Emilio Gadda e a Vittorio Sereni, passando per Carlo Porta e Alessandro Manzoni, dell’attività di Isella sono citati i maestri, Gianfranco Contini, ma anche Leo Spitzer e Carlo Dionisotti, e la coscienza civile sull’esempio di Francesco De Sanctis. Questo filologo dedito ai lombardi, come conferma la raccolta di saggi I Lombardi in rivolta (1984), svolse buona parte del suo magistero all’università di Pavia (1967-1977). Purtroppo giunsi all’Alma Ticinensis Universitas quando Isella se n’era già andato. Però di lui conservo un ricordo splendido: la conferenza che tenne in Aula Foscolo a metà degli anni Ottanta, nell’ambito di un ciclo di appuntamenti dedicati al bicentenario della nascita di Manzoni, organizzato dall’Istituto di Italianistica della facoltà di Lettere. 

Ulteriori segnalazioni dallo stesso numero della “Domenica” erano un articolo del cardinale Gianfranco Ravasi sulla monumentale opera teologica di Hans Urs von Balthasar: Jaca Book ha da poco ripubblicato i cinque volumi di TeoDrammatica. E una recensione di Andrea Kerbaker del libro di Alessandro  Magrini, Il dono di Cadmo, ricco di curiosità sulla storia dell’alfabeto, pubblicato da Ponte alle Grazie (pagg. 192, € 16).

Perché il nostro mondo tecnologico non può fare a meno dei classici

20180403_184317Di classici si parla spesso, a intervalli ricorrenti, ripetendo interrogativi antichi di secoli sull’opportunità di continuare a dedicare loro spazio, rispetto alla possibilità di privilegiare – soprattutto a scuola – argomenti e materie più vicine all’attualità, ritenute più utili per il mercato del lavoro. Nel dibattito si mescolano due aspetti: conoscenza delle lingue classiche (sostanzialmente latino e greco) e conoscenza dei testi classici, anche se è evidente che, abolendo o limitando la conoscenza della lingua, si restringerebbe anche la possibilità di apprezzare testi e messaggi delle letterature classiche. Sul fronte della lingua non sono mancati i difensori: per citare solo i più recenti, Andrea Marcolongo per il greco e Nicola Gardini per il latino. Invece ai contenuti, alla conoscenza dei classici in quanto patrimonio di cultura è prevalentemente dedicato  l’agile volume Ritorno ai classici. Dieci saggi, edito lo scorso anno da Vita & Pensiero, che riunisce articoli di autori diversi, pubblicati tra il 2005 e il 2017 sulla rivista Vita&Pensiero (con prefazione di Alessandro Zaccuri) talora allargando lo sguardo fino agli autori delle letterature moderne. Storici. filosofi, letterati, poeti, insegnanti, ma anche un biblista e due scienziati: tutti sostanzialmente concordi nel ritenere un bene per la nostra società conoscere opere scritte da alcuni degli ingegni più alti che l’umanità abbia avuto e tenere in considerazione i valori che hanno espresso. Che ci sia sempre stato chi vuole fare tabula rasa del passato è dimostrato da Cicerone, che sosteneva (Orator 34, 120) che non conoscere ciò che è accaduto prima di noi significa rimanere eterni bambini. In tempi molto più recenti, Italo Calvino nel suo famoso articolo «Perché leggere i classici» (1981) proponeva ben 14 definizioni e concludeva che «la sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici». Mi piace però aggiungere la definizione di testo classico che proponeva già nel 1980 l’italianista Paolo Paolini, che fu anche mio professore al liceo: «Un libro che a ogni lettura rivela nuovi significati, nuovi aspetti e nuove sfumature, dà nuove risposte, in definitiva regala nuova bellezza». Parole che prefiguravano la definizione numero sei di Calvino: «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire».

Nel volume di Vita&Pensiero si parte con il saggio del cardinale Gianfranco Ravasi, che esamina l’incontro tra classici (greci e latini) e Nuovo Testamento. Lungi dal volerli contrapporre, Ravasi segnala – sintetizzando osservazioni di Giovanni Paolo II – che «la Bibbia si presenta modello di inculturazione o acculturazione sia a livello linguistico, sia in ambito letterario (si pensi ai generi letterari), sia nell’orizzonte ideale. E su questa via s’incamminò la tradizione cristiana».

L’italianista Claudio Scarpati osserva che «i classici contengono figure, meditazioni, vicende attraverso cui le generazioni che ci hanno preceduto sono passate, hanno tentato di decifrare il mondo e di penetrare nel groviglio degli interrogativi che l’uomo si pone quando è lucido e libero». Ed esorta ogni insegnante a non demordere nel proporre i testi classici: «Se concede agli studenti la stima che meritano, può ritenerli degni di andare con il suo aiuto incontro a testi che hanno sollecitato l’attenzione di chi li ha letti in passato e ha trovato in essi qualcosa di rilevante per la propria esistenza. Sono i testi che parlano, più di colui che li propone».

La storica Cinzia Bearzot ritiene che del patrimonio della cività occidentale (fatto di concetti, valori e discipline) «è necessario alimentare la memoria per mantenere viva, attraverso di essa, un’identità consapevole». Riprendendo concetti già di Antonio Gramsci la studiosa spiega che «senza la memoria del passato, il presente diviene incomprensibile», e «non c’è identità senza conoscenza del proprio passato e senza un confronto critico con esso». La conoscenza del greco e del latino «è uno strumento imprescindibile di confronto interculturale, che permette di accedere a un patrimonio immenso di testi e di penetrare criticamente nel pensiero e nella cultura degli antichi, individuando le continuità e riconoscendo le alterità, senza accontentarci di una conoscenza superficiale degli elementi costitutivi della nostra tradizione culturale».

Il poeta Valerio Magrelli propone di ritornare ai classici in modo più libero, per scelta e non per dovere scolastico. Ma aggiunge che bisognerebbe ritradurre i classici. Traduzioni che datano a quaranta, cinquant’anni fa non sono più percepibili: il salto linguistico è troppo ampio: «Sarebbe straordinario se la scuola riattivasse tutta l’ampiezza dello spettro espressivo della letteratura greca e latina. Sono convinto che si otterrebbe, da parte dei ragazzi, una risposta entusiastica».

Il filosofo Dario Antiseri, richiamando la teoria ermeneutica di Hans-Georg Gadamer, sottolinea che «tutta la ricerca scientifica avanza sul sentiero delle congetture e delle confutazioni, procede per trial and error». E poiché si impara dall’errore «si comprende l’urgente necessità di una didattica che punti sui problemi più che sugli esercizi, che insista sullo sfruttamento pedagogico dell’errore e che sempre in vista della costruzione di menti critiche, investa su pratiche didattiche come: il tema argomentativo, versioni di greco e di latino, il riassunto, esperienze di storiografia locale». Tutte «preziose pratiche ermeneutiche e, dunque autentiche pratiche di tipo scientifico».

L’umanista Carlo Carena, che alla sua veneranda età mostra di apprezzare i benefici dello strumento Internet, non manca però di ammonire che in un tempo che sembra freneticamente lanciato in avanti «il classico ha bisogno per eccellenza di ascolto e di riflessione, è fermo nella sua costituzione, tanto profonda è la sedimentazione della tradizione e del mestiere presenti nelle sue pagine; tanto complesso e vasto è il suo modello antropologico».

Da scienziato, Alberto Oliverio ammonisce che «l’entusiasmo nei confronti della tecnologia […] non può comportare un’ignoranza dei valori insiti in una cultura classica. La lettura dei classici greci e latini consente infatti un’approfondita comprensione dei rapporti umani, della politica, dei valori». La cultura classica è importante anche per scienziati e tecnologi – avverte – «il cui pensiero non può essere monodirezionale». Allo stesso tempo suggerisce di superare la separazione tra le «due culture» trascinando il lettore «nei campi della scienza attraverso il cavallo di Troia della scrittura creativa, coinvolgendolo emotivamente in trame e vicende che derivano da un ambito indubbiamente poco noto ai profani qual è il mondo della scienze e delle tecnologie».

Paola Mastrocola, insegnante e scrittrice, difende l’importanza della conoscenza delle parole, con la loro «ricchezza polisemica e simbolica»: «Vorrei che i ragazzi non perdessero la capacità di capire e usare le parole. Ecco perché vorrei che studiassero latino e greco, in tanti, il maggior numero possibile» e che «al centro ci fosse sempre la traduzione, la sfida più difficile». Nello specifico, «il latino e il greco mi sembrano lo strumento ideale per acquisire quell’attenzione alle sfumature lessicali, all’etimologia, ai legami logici, all’architettura delle frasi, alle sottigliezze infinite del senso, insomma tutto ciò che ci consente di “capire” davvero», non solo un testo greco, ma qualsiasi libro.

La grecista Antonietta Porro osserva che la tradizione non è «un motore immobile» e «la nostra tradizione classica ha generato opere d’arte, letteratura, forme di pensiero diverse nel tempo, perché essa è stata modificata dalla sua ricezione, cioè dalla relazione con il tempo, con la storia». Quanto al liceo classico, accostare le civiltà antiche senza la conoscenza della lingua, nasconde l’insidia di abolirne di fatto lo studio: «La lingua è, nel caso delle scienze dell’antichità, lo strumento ineludibile per introdursi alla civiltà ed è testimonianza essa stessa della mentalità che la esprime».

Infine il fisico Guido Tonelli ribadisce che «una formazione basata sulle traduzioni dal greco e dal latino addestri meglio la mente duttile dei giovani all’uso implacabile della logica; che è lo strumento principe con cui si sviluppano discipline che solo apparentemente sembrano così diverse fra loro, come la filosofia e la fisica». E aggiunge: «Di cultura umanistica c’è bisogno per far progredire la società, per definirne gli scopi, e per dare un senso e umanizzare lo stesso processo scientifico». Concludendo: «Oggi la scienza progredisce a ritmo incalzante. Chi allora, se non i filosofi, gli umanisti, gli artisti, potrà dare senso all’esistenza umana nell’epoca del dominio della scienza e della tecnologia?».

Parole che mi sembrano da sottoscrivere pienamente, anche se probabilmente il dibattito è destinato a non terminare mai.

Laras: «Penso che Dio voglia vederci uniti»

In occasione del conferimento del titolo di dottore honoris causa della Veneranda Biblioteca Ambrosiana al rabbino Giuseppe Laras, la mia intervista pubblicata mercoledì 29 aprile nelle pagine culturali di Avvenire.

rabbino_laras«La libertà deve sempre essere accompagnata dalla libertà di fare il bene. Cioè non basta fare scelte libere, occorre fare scelte buone». Sono concetti centrali della lectio che svolgerà stasera rav Giuseppe Laras durante la cerimonia in cui l’arcivescovo Angelo Scola, gli conferirà il titolo di dottore honoris causa della Biblioteca Ambrosiana. Laras sarà il primo studioso non cattolico a far parte del Collegio dei dottori dell’Ambrosiana, istituzione con cui collabora sin dai primi anni Ottanta, all’epoca del suo arrivo a Milano quale rabbino capo della comunità ebraica. «Lo considero un po’ un suggello alla mia attività accademica di tutti questi anni».
Il suo essere inserito ad honorem tra i dottori di un’istituzione cattolica richiama il tema del dialogo ebraico-cristiano. Come lo vede oggi?
«Bisogna continuare a trovare le ragioni per stare insieme e andare avanti. La divaricazione tra ebraismo e cristianesimo sta sempre più restringendosi, si stanno formando quasi due linee parallele. Alle fine dei tempi queste linee dovranno ricongiungersi, ritrovare l’unità se, come io penso, così sarà la volontà divina. Ma è un discorso non agevole, implica rivedere tante posizioni. Il mio impegno in questo ambito si è acceso grazie all’incontro con il cardinale Carlo Maria Martini, che nonostante il suo carattere timido e riservato, era un appassionato, trasmetteva entusiasmo. Con lui ho trovato stimolo e maggiore volontà di impegnarmi».
In che modo?
«Agli inizi degli anni Ottanta il dialogo era avviato da tempo, almeno da dopo il Concilio Vaticano II, ma non molto uniforme nel suo svilupparsi. Martini ci credeva molto e ricordo che passavamo giornate, incontri a parlare delle prospettive. Lui voleva parlare con tutti, aveva creato la Cattedra dei non credenti, aveva coinvolto gli intellettuali atei o più o meno atei, era una figura moderna. Ricordo che quando io manifestavo dei dubbi sul futuro e sulle difficoltà che avrebbe avuto questo dialogo, lui rispondeva sempre: “Bisogna avere pazienza”. Ma pazienza non nel senso di rimettersi agli eventi, ma di lavorare con insistenza e determinazione. Il dialogo infatti non è un fiume che scorre sempre allo stesso modo, ha momenti di secca, momenti di piena, quindi alti e bassi. L’importante è cercare di non lasciare che si fermi, conosco bene tutti i meandri del dialogo, so quanto sia difficile. E apprezzo ancora più di un tempo Martini, che conosceva meglio di me questi problemi, e nonostante l’atmosfera in certi settori della Chiesa andava avanti. Oggi credo che giustamente lui possa essere definito forse addirittura il “salvatore” del dialogo. Un dialogo che peraltro è continuato con i due successori di Martini: in modo diverso, Tettamanzi e Scola sono due anime grandi».
Papa Francesco insiste molto sulla necessità del confronto, non solo con l’ebraismo ma anche con le altre religioni…
«L’attuale pontefice insiste in maniera importante, utile e benefica nei confronti del dialogo tra le religioni e sulla necessità di incontrarsi e ritrovarsi. E ciò è tanto più significativo oggi in un tempo così drammatico, di tagliatori di teste. Papa Francesco insiste nell’andare oltre l’aspetto triste e negativo per cogliere gli elementi di speranza. Credo che il dialogo trarrà giovamento dal pontificato di Francesco».
Come sono nati i suoi insegnamenti alle università di Pavia e di Milano?
«A Pavia nei primi anni Ottanta ero lettore di lingua ebraica. Ma grazie all’incoraggiamento del professor Luigi Moraldi (titolare della cattedra di Ebraico) facevo anche lezioni sui contenuti del pensiero ebraico: credeva a questo ritrovarsi con il mondo ebraico, e aveva molta sapienza e bontà. Io avevo entusiasmo e voglia di insegnare e trasmettere questo patrimonio di idee, e della lingua ebraica mi vantavo di mettere gli studenti in condizione di leggere un testo in una lezione. Per capire ci vuole altro, ma leggere è il primo passo».
E a Milano?
«Fui coinvolto dal professor Enrico Rambaldi, docente di filosofia morale. Dopo alcune lezioni e conferenze, mi chiamò a insegnare Storia del pensiero ebraico quando fu costituito il Centro Goren-Goldstein (dal mecenate che mise i fondi). Prima c’era solo l’insegnamento della lingua ebraica e delle lingue semitiche comparate. A Milano c’era un tono più accademico, ma cercavo di spiegare quanto servisse per togliere equivoci su mondo e religione ebraica. Non mancarono episodi di affetto degli studenti, come quella psicoterapeuta che veniva da Roma e che, a fine corso, mi regalò un libro dedicato all’acqua, ritenendo che le mie lezioni le fossero indispensabili come l’acqua».
Che rapporto ha con l’Ambrosiana?
«Poco dopo il mio arrivo a Milano avevo fatto conoscenza col rettore, con i dottori e avevo fatto anche conferenze. Poi sia con Gianfranco Ravasi (non ancora cardinale), sia con Franco Buzzi, ho sempre mantenuto rapporti di intensa collaborazione. L’Ambrosiana è un’istituzione culturale non solo milanese, ma conosciuta a livello internazionale. E già Achille Ratti, prefetto dell’Ambrosiana e poi arcivescovo di Milano che divenne papa Pio XI, ebbe grandi rapporti col rabbino di Milano, Alessandro da Fano».
La spinta a tornare in Israele per gli ebrei europei è la sconfitta del dialogo?
«Se non ci fossero segnali di intolleranza e persecuzione che oggi esistono, anche in Italia, non ci sarebbe spinta verso la aliyah (la salita) in Israele in termini massicci. La terra di Israele, anche prima che esistesse come uno Stato, è sempre stata una componente dell’anima del popolo ebraico, ma questa istanza al ritorno cresce in termini concreti quando l’antisemitismo aumenta e c’è paura di persecuzione e di morte. E gli episodi purtroppo non mancano, basta pensare a quanto accaduto a Parigi a gennaio».
Quale sarà l’argomento della sua lectio?
«Commenterò un passo del Trattato dei padri, testo antichissimo di etica che fa parte della Mishnah in cui si affronta un tema tipicamente religioso e filosofico: la relazione tra l’onniscienza di Dio e la libertà dell’uomo. Se Dio sa tutto quello che tu farai, non sei più libero: quel passo demolisce questa certezza in termini religiosi. Terminerò con il concetto che la libertà deve essere sempre accompagnata dalla libertà di fare il bene, perché la libertà come licenza non serve a niente e a nessuno. E citerò il Deuteronomio dove si dice: “Ecco io pongo di fronte a te il bene e il male, la vita e la morte, ma tu sceglierai la vita” (Dt 30,15 ss). Quando si fanno scelte, non basta fare scelte libere, ma occorre fare scelte buone».