I mille volti di Atene e la fame di giustizia di Manzoni

Un viaggio attraverso i secoli che ha vissuto Atene e due articoli su Alessandro Manzoni – di cui nel 2023 ricorre il 150° della morte – hanno trovato spazio sulle pagine culturali dei quotidiani di domenica 15 gennaio.

Accompagnare un visitatore ad Atene svelando la stratigrafia della città lungo i secoli è il compito che si è assunto Giorgio Ieranò nel suo libro Atene. Il racconto di una città che appare recensito sia dal Corriere della Sera, sia dal supplemento culturale “Domenica” del Sole-24Ore. Su quest’ultimo, Cinzia Dal Maso («L’Acropoli oltre l’Acropoli») scrive che si tratta di «una guida sentimentale ai luoghi che hanno fatto la sua storia, per scoprire la città vera che ha mille anime oltre il suo intramontabile mito». Nel libro di Ieranò (che insegna Letteratura greca all’Università di Trento), scrive ancora Del Maso, «ogni capitolo intreccia miti ancestrali e storie antiche con la vita moderna e contemporanea, e rende così il senso profondo della riscoperta moderna della città antica in tutte le sue sfaccettature e contraddizioni». In definitiva, «un libro che si divora come un romanzo».

Sul Corriere della Sera, Mauro Bonazzi («Miti e storia, tesori e razzie. Com’è difficile essere Atene») esamina il libro di Ieranò fotografando la storia della città attraverso alcune tappe chiave: la distruzione che ne fecero i persiani nel 480 a.C., l’assedio dei veneziani capitanati da Francesco Morosini nel 1687 (con il bombardamento che ha semidistrutto il Partenone), e la razzia dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli, Lord Elgin, che all’inizio dell’Ottocento portò a Londra molte delle sculture rimaste sul tempio che domina l’Acropoli. Se il mito di Atene nasce con Pericle, scrive Bonazzi, esso rinasce – e potremmo dire si consolida – nell’Ottocento. Un’epoca in cui la Grecia tornata indipendente viene governata dal re Ottone I di Baviera che si affida ad alcuni architetti nordici, Theophil Hansen e Ernst Ziller, per dare un nuovo volto alla capitale. Da «città colorata, variopinta, balcanica», Atene «si sbianca: quasi tutti i quartieri centrali vengono rasi al suolo. Al loro posto sorgono edifici neoclassici, bianchi e marmorei». E se effettivamente l’aspetto di Atene dall’alto oggi è prevalentemente bianco, o chiaro, come appare arrivando in aereo o dai punti di osservazione panoramici (Licabetto, Filopappo, la stessa Acropoli), lo stesso non si può dire delle sue strade vivaci della Plaka o intorno a Monastiraki.

Restando al tema dei marmi del Partenone, è tornata di attualità la disputa tra il governo greco e quello britannico per la restituzione delle statue e dei fregi custoditi oggi al British Museum di Londra. Le trattative vanno avanti da tempo, e nelle scorse settimane, alcune notizie apparse sulla stampa britannica davano per possibile un accordo sulla base di un «prestito di lunga durata» o addirittura «permanente». Tuttavia, da un lato il governo greco ha ribadito che non riconosce altro che la restituzione di quanto portato via da Lord Elgin, dall’altro il ministro della Cultura del Regno Unito, Michelle Donelan, ha poi ribadito che non c’è alcuna intenzione di restituire qualcosa. Vedremo se la disputa, avviata almeno a partire dall’azione di Melina Merkouri, ministro della Cultura della Grecia alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, avrà una soluzione. Certo è che non si può più dire che i preziosi reperti ad Atene non troverebbero una collocazione adeguata: il moderno Museo dell’Acropoli (inaugurato nel 2009) ha dedicato al Partenone l’intero ultimo piano, con una ricostruzione in scala reale del tempio, addirittura orientato in modo da essere parallelo all’originale, che si staglia maestoso dietro le vetrate. Nel modello al Museo dell’Acropoli sono esposti tutte le sculture, i fregi e le metope disponibili, lasciando lo spazio per quelle, appunto, mancanti perché custodite a Londra.

Altro tema è l’opera di Alessandro Manzoni. Sul Foglio di sabato 14-domenica 15 Edoardo Rialti approfitta della pubblicazione di una nuova versione in inglese dei Promessi Sposi, per opera di Michael F. Moore, per svolgere una riflessione su come il romanzo sia stato recepito dalla società italiana («In America si traducono i Promessi sposi che ancora dividono l’Italia»). Innanzi tutto fa sua una battuta di Gesualdo Bufalino: «Come con Dio, i conti col Manzoni non si chiudono mai…» e osserva che «il suo peso sulle generazioni successive resta ancora oggi una delle coordinate fondamentali per valutare direzioni e scelte della scrittura italiana, e dell’identità nazionale stessa». Poi Rialti ricorda che «una prima difficoltà sta nel mettere semplicemente a fuoco lo spazio che I promessi sposi hanno occupato nell’orizzonte collettivo. Esso è tanto vasto che… tutti credono di conoscere già Manzoni, perché in fondo ci sono nati dentro, e la complessità e l’audacia della sua operazione risultano così apparentemente innocui, addomesticati». E da Gino Tellini raccoglie l’osservazione che «la cruda, quanto tragica, requisitoria di Manzoni contro l’inerzia intellettuale, contro la distorta amministrazione della giustizia, contro gli abusi e i soprusi del potere, si contrabbanda per mitezza ironica, per sorridente e blanda indulgenza». Ricordo a questo proposito ancora la lezione del mio insegnante di italiano al liceo, Paolo Paolini, che sottolineava la grande novità etica e culturale del romanzo manzoniano. E lamentava che fosse in parte sottostimato nell’immaginario collettivo perché era stato guastato dal ricordo dell’apprendimento svolto a scuola. Un’idea che, Rialti riferisce, aveva anche Umberto Eco, che suggeriva ai ragazzi di leggere il romanzo «liberandolo dalle pastoie scolastiche». Affrontando poi la traduzione inglese, Rialti sottolinea che emerge la «sottile e magnifica complessità» dell’italiano manzoniano. E si augura che «anche in Italia si torni a discutere, fuori dai convegni accademici, sul peso che ancora oggi Manzoni esercita sui nostri tentativi letterari». E conclude, su un altro piano, che Μanzoni mantiene «una prospettiva metafisica dell’esistenza», con domande che nella società italiana contemporanea «sembrano non potersi più porre nello stesso modo, se si pongono affattο».

Ancora a una vicenda manzoniana è dedicato un ampio articolo sul Corriere della Sera di domenica 15 gennaio: «Via l’infamia della Colonna». Gianni Santucci riferisce dell’iniziativa di Casa del Manzoni, fatta propria dall’Ordine degli avvocati e accolta dalla Corte d’Appello per apporre a Palazzo di Giustizia di Milano una targa commemorativa alla memoria di Gian Giacomo Mora, processato nel 1630 con l’accusa di essere un untore, cioè uno che spargeva il contagio della peste, e per questo torturato e condannato a morte (con Guglielmo Piazza). E anche dopo essere stato orrendamente ucciso, la giustizia dell’epoca, dopo averne raso al suolo la casa, fece erigere al suo posto una colonna che ricordasse la vicenda. Colonna che Manzoni prese a simbolo delle iniquità commesse stravolgendo la giustizia nella Storia della colonna infame, pubblicata in appendice ai Promessi sposi nell’edizione definitiva del 1840-42. Questo il testo della targa che verrà collocata – inaugurazione il prossimo 31 gennaio – accanto a quella per il giudice Guido Galli (ucciso dai terroristi il 19 marzo 1980): «Milano erigeva nel 1630 e conservava fino al 1778 un monumento di esecrazione e di infamia verso un umile cittadino di nome Gian Giacomo Mora. A lui e agli innocenti vittime in ogni tempo dei pregiudizi e dei fanatismi restituiscono per sempre dignità e onore i responsabili difensori della giustizia fedeli alla illuminata lezione di Pietro Verri e Cesare Beccaria eletta a codice di umanità dalla coscienza morale e civile di Alessandro Manzoni». Ai temi della giustizia, e agli effetti del suo uso distorto, Manzoni era particolarmente sensibile. Basta ricordare un passo del Fermo e Lucia: «I provocatori, i soperchianti, tutti quelli che in ogni modo invadono i diritti altrui, sono rei non solo del male che fanno, ma del pervertimento a cui portano gli animi di coloro che offendono». Santucci cita anche la spiegazione che Manzoni diede dell’ accecamento dei giudici: aver fatto una certezza di una superstizione: che il contagio potesse essere sparso con un unguento malefico. Da qui una giustizia deviata da «rabbia contro pericoli oscuri», «rabbia resa spietata da lunga paura». Manzoni puntualizzava che «tali cagioni non furono pur troppo particolari di un’epoca». Lo abbiamo visto nella recente pandemia da Covid-19. Senza giungere agli orrori del processo secentesco, paura e irrazionalità sono stati alla base dei toni da caccia all’untore e dello stravolgimento del buon senso che hanno caratterizzato molte decisioni delle autorità, anche ai piani più alti.

Nella stessa pagina del Corriere viene ricordata la recente edizione critica della Ventisettana dei Promessi Sposi, curata da Donatella Martinelli per il Centro nazionale di studi manzoniani (diretto da Angelo Stella).

In Tauride la salvezza «rocambolesca» degli ultimi Atridi

Ifigenia in Tauride messa in scena nella primavera 2022 al teatro greco di Siracusa era solo alla terza rappresentazione nelle stagioni di spettacoli classici della Fondazione Inda (Istituto nazionale del dramma antico). Euripide riprende e riforma alcune vicende della versione principale dei miti relativi agli Atridi, con la salvezza degli ultimi eredi. Nell’Agamennone, Eschilo fondava parte del risentimento che spingeva Clitemenestra a uccidere il marito, al rientro da Troia, sul sacrificio della figlia Ifigenia che lo stesso comandante aveva voluto per propiziare la partenza della spedizione dei greci dall’Aulide. In questa tragedia invece, Euripide immagina che la dea Artemide abbia misteriosamente salvato Ifigenia, sostituendola con una cerva sacrificata al suo posto sull’altare e trasportandola nella lontana Tauride (l’odierna Crimea). Una conclusione a cui Euripide terrà fede nella sua più tarda Ifigenia in Aulide. Il testo dell’Ifigenia in Tauride risale agli anni tra il 414 e il 411 ed è discusso tra gli studiosi se sia precedente o successiva a quello dell’Elena, che ha un impianto narrativo simile. Può vantare diverse citazioni nella Poetica di Aristotele, che ne lodava l’intreccio (1455b), ma apprezzava solo a metà la scena del duplice riconoscimento tra i fratelli Ifigenia e Oreste. Questa versione del mito ottenne interesse in molti drammaturghi in epoca moderna, compreso Johann Wolfgang Goethe.

La tragedia si apre con il racconto di Ifigenia (Anna Della Rosa) che, indossando significativamente una maschera con muso e corna di cerva, riferisce la sua storia e il suo arrivo in Tauride: qui il compito della fanciulla era di essere sacerdotessa al tempio della dea Artemide, presiedendo i riti di sacrificio a cui per legge dei Tauri erano destinati gli stranieri catturati. Una schiera di schiave, anch’esse greche, le sono ancelle e costituiscono il coro. A questa terra lontana approdano Oreste (Ivan Alovisio) e l’amico Pilade (Massimo Nicolini) perché devono impossessarsi della statua di culto di Artemide custodita nel santuario di cui Ifigenia è sacerdotessa. Anche in questo caso Euripide “riforma” la versione eschilea, che aveva fatto assolvere Oreste dal delitto di matricidio dal tribunale ateniese dell’Areopago grazie al voto decisivo di Atena. Secondo Euripide questo processo non esauriva la pena per Oreste: alcune Erinni non avrebbero accettato il verdetto e avrebbero continuato a perseguitare Oreste. Di qui la richiesta di Apollo di recarsi in Tauride per riportarne il simulacro di Αrtemide.

I due inseparabili amici giunti in Tauride si accorgono dell’estrema difficoltà dell’impresa e rabbrividiscono al vedere il tempio a cui sono appesi i resti degli stranieri uccisi, secondo un rituale macabro. In più vengono presto catturati dopo una breve lotta riferita da un mandriano (Alessio Esposito). Per ordine del re Toante, sono condotti dalla sacerdotessa per le purificazioni necessarie prima di essere offerti in sacrificio. Ifigenia, che all’inizio della tragedia lamentava la sua nostalgia della Grecia e temeva che un sogno oscuro le avesse rivelato la morte del fratello Oreste, viene turbata dalla sorte dei due giovani greci. Ignorando la scia di sangue che aveva invaso la casa paterna, pensa di utilizzare uno dei due prigionieri per i suoi scopi: vuole salvarlo perché svolga un’ambasceria ad Argo in suo favore. Oreste e Pilade si rimpallano con generosità reciproca il diritto di scampare la morte: alla fine la lettera di Ifigenia viene consegnata a Pilade perché la porti in patria. Oreste è destinato a perire.

A questo punto avviene la scena del duplice riconoscimento. Infatti per essere sicura che Pilade porti a termine la missione anche se per un naufragio perdesse la lettera, Ifigenia gliene legge il contenuto. Grande è la sorpresa di Oreste che capisce di avere davanti a sé la sorella che credeva morta. A sua volta descrivendo la stanza di Ιfigenia giovinetta nel palazzo di Αrgo, la convince di essere il fratello da lei rimpianto. Secondo Aristotele (1454b), mentre il primo riconoscimento è molto ben riuscito, del secondo non si può dire altrettanto perché «non esce dal racconto» in modo spontaneo, come faceva il testo del “sofista Poliido” (1455a) che metteva in bocca a Oreste il lamento per essere sul punto di essere sacrificato come la sorella. Che a questo punto lo riconosceva.

La trama cambia direzione: ora Ifigenia e Oreste, con Pilade, condividono gli stessi obiettivi e studiano il modo di tornare in Grecia, portando con sé la statua di Artemide, senza cadere nelle mani dei Tauri. È la sacerdotessa a escogitare lo stratagemma decisivo per ingannare il re Toante, sfruttando il matricidio di Oreste: dirà che deve portare la statua a purificare perché è stata toccata dal greco, ancora impuro per il matricidio. Toante (Stefano Santospago), che inorridisce di fronte a un tale delitto («Nemmeno un barbaro farebbe una cosa simile» sottolinea), le concede di recarsi in riva al mare a compiere la purificazione, e accetta tutte le condizioni poste da Ifigenia, che cerca di rendere la fuga il più possibile sicura. Un messaggero (Rosario Tedesco) torna per avvisare Toante che gli stranieri sono fuggiti con l’inganno, e lo incita a inseguirli perché il vento sta rispingendo verso la riva la loro nave. Toante, dopo aver minacciato le schiave greche del tempio, ritenute complici, si prepara a inseguire i greci, ma interviene la voce di Atena che gli intima di desistere, spiegando che la fuga è approvata dagli dei. E poi incarica i due giovani Atridi della fondazione di due nuovi culti ad Artemide in Attica: ad Ale per Oreste, e a Brauron per Ifigenia, destinata a rimanere per sempre sacerdotessa della dea. Infine prefigura il rientro in Grecia anche delle altre schiave.

Il regista Jacopo Gassman parla dell’Ifigenia in Tauride come di «un testo intriso di domande e contraddizioni» e dalla «natura stilisticamente ibrida». Da scura e inquieta diventa la narrazione di una «fuga rocambolesca» ritiene «la Tauride di Euripide, un portentoso labirinto della mente, un paesaggio lunare e metafisico costellato di enigmi». E dove – dopo il riconoscimento tra i fratelli – Ifigenia «riappropriarsi di sé» e a compiere «un vero e proprio viaggio di liberazione e di emancipazione». La scenografia presenta un parallelepipedo che rappresenta il tempio di Artemide, davanti al quale si trova la vasca lustrale per la preparazione delle vittime sacrificali. E alcuni oggetti simbolici custoditi in teche trasparenti: in primo piano, una cerva evidente richiamo all’animale ucciso al posto di Ifigenia. Altri (toro, agnello: meno comprensibili), spiega lo scenografo Gregorio Zurla, sono sempre presenti a metà: «una forma che ci fa sospettare della veridicità di quello che vediamo». Un modo per assecondare la scelta registica di muoversi «tra finzione e realtà». Tanta “oniricità” non mi pare del tutto aderente agli intenti di Euripide, che pur trasportando la vicenda in un mondo lontano dalla Grecia, mantiene chiaro il senso della missione di Oreste e il dolore per l’isolamento che vive Ifigenia, lontana dalla patria, pur essendo scampata alla morte in Aulide. Pietà e paura, che Aristotele voleva producesse nella mimesi il testo tragico (1453b), sono presenti in abbondanza nell’Ifigenia in Tauride, anche se la vicenda si conclude senza ulteriore spargimento di sangue.

La «messa in discussione del mito» si traduce in una contaminazione con oggetti «contemporanei, appartenenti al contesto teatrale moderno» conclude Zurla. Vediamo infatti i microfoni che servono alle componenti del coro, fino ai protagonisti che riappaiono in abiti moderni seduti in un’ipotetica sala teatrale. Una “svolta” francamente che però pare snaturare il contesto, e appare poco comprensibile. Così come la proiezione sul tempio dei versi finali della tragedia convince a metà: se appare efficace per riferire con una voce fuori campo le parole di Atena, che viene così percepita senza essere vista, amplificando l’effetto della divinità che impone il suo volere, meno motivato mi pare il seguito, con le battute del coro e dello stesso Toante, che compaiono scritte mentre vengono pronunciate dagli attori sulla scena.

Convincenti gli attori, a partire da Anna Della Rosa (già a Siracusa come Elettra nel 2021 e Antigone nel 2017), Stefano Santospago e la coppia di amici Oreste-Pilade (Ivan Alovisio e Massimo Nicolini). Meno apprezzabili mi sono parsi i costumi di Gianluca Sbicca: non per la foggia ma per i colori, che vanno dal bianco al nero, passando per molte sfumature di grigi. Ridurre la gamma cromatica mi pare diventata una tendenza che si ripete negli anni (penso che fosse l’unico difetto dell’Edipo a Colono messo in scena nel 2018), ma continua a non piacermi.

Come spiega Anna Beltrametti nella sua edizione di Euripide (Millenni, Einaudi, 2002), il poeta tragico non accetta l’assoluzione “politica” di Oreste di eschilea memoria, e pretende un rapporto tra gli uomini e gli dei scevro da menzogne. Osservo poi che, come già in altri drammi, Euripide non fa sconti ai suoi connazionali: se i sacrifici umani in Tauride paiono agghiaccianti, i greci si sono resi responsabili dell’uccisione di una fanciulla innocente come Ifigenia, e Oreste viene perseguitato in quanto matricida. E la madre Clitemnestra aveva ucciso il marito. Infine attribuire alla dea ex machina una funzione convenzionale (come sostiene Giorgio Ieranò, autore della traduzione limpida e moderna) mi pare insufficiente. Proprio la sua “inutilità” (i giovani Atridi avrebbero potuto salpare e basta) deve interrogarci, perché dimostra che Euripide ha “voluto” introdurre la figura di Atena che conclude il dramma, per sottolineare l’origine di due culti attici: forse una captatio benevolentiae verso un pubblico, quello di Atene, che non lo amava molto?

Eracle, una follia che sgomenta. L’uomo è in balia del capriccio degli dei

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La scenografia dell’Eracle

È una tragedia a due volti, l’Eracle di Euripide in scena al teatro greco di Siracusa a cura dell’Istituto nazionale del dramma antico (Inda). L’atmosfera di angoscia che caratterizza la prima parte del dramma, si capovolge in giubilo all’arrivo dell’eroe delle 12 fatiche, prima che una catastrofe peggiore di quella temuta all’inizio si abbatta definitivamente sulla casa, la famiglia e la persona stessa di Eracle. L’eroe prostrato troverà soccorso psicologico e materiale dal re di Atene, Teseo, che si sente obbligato per il fatto di essere stato salvato dall’Ade proprio da Eracle. Tra i temi che Euripide rappresenta è sempre apparsa centrale la polemica contro la credenza negli dei, che si mostrano capricciosi e nemici degli uomini, il cui destino appare quanto mai fragile. La regista Emma Dante crea uno spettacolo che offre molte soluzioni drammaturgicamente efficaci, ma anche alcune perplessità di fondo.

A Tebe, in assenza dell’eroe Eracle, ha preso il potere con un colpo di stato il tiranno Lico (Patricia Zanco) che ha ucciso il vecchio re Creonte e i suoi figli maschi. Ora vuole uccidere sia la figlia di Creonte, Megara (Naike Anna Silipo), sia i figli che lei ha avuto da Eracle, nipoti quindi di Creonte, temendo che una volta adulti possano vendicare il nonno e gli zii. Nessuno spera più in un ritorno di Eracle, che viene dato per morto nell’ultima fatica impostagli da Euristeo: la cattura del cane guardiano dell’Ade, Cerbero. A dimostrare la gratuita crudeltà di Lico sta anche la sua volontà di uccidere anche il vecchio padre di Eracle, Anfitrione (Serena Barone), del tutto imbelle e inoffensivo. Nessuno a Tebe sembra voler ricordare i benefici che Eracle garantì alla città, lamentano sia Anfitrione sia Megara, e il coro – composto di vecchi tebani – inorridisce di fronte ai delitti annunciati da Lico, ma è impossibilitato fisicamente a impedirli. Megara ottiene dal tiranno una breve proroga per vestire da lutto i figli, ma quando tutto sembra ormai volgere al peggio, ricompare Eracle (Mariagiulia Colace) di ritorno dagli inferi, dove si è attardato per liberare Teseo. Gioia della famiglia per l’arrivo del più valido difensore, sdegno di Eracle per l’impudenza di Lico e organizzazione di un piano per elimare il tiranno si susseguono velocemente. Entrato dentro la casa di Megara credendo di poter compiere il suo delitto, Lico trova invece la morte per mano di Eracle. Il coro dei vecchi ha appena il tempo di esultare, che una duplice e sinistra apparizione preannuncia sciagure. Iride (Francesca Laviosa), messaggera degli dei, giunge accompagnata da Lyssa (Arianna Pozzoli), il nume della follia capace di scatenare negli uomini la pazzia. Contro la sua stessa volontà, il suo prossimo bersaglio sarà proprio Eracle: indiscutibile è l’ordine di Era, la sposa di Zeus, da sempre nemica dell’eroe per la sua nascita, frutto dell’adulterio del marito con Alcmena, la moglie di Anfitrione. Giunge quindi un messaggero (Katia Mirabella) a raccontare lo scempio compiuto da Eracle che uccide i figli e la moglie, fermato e stordito da Atena quando stava per colpire anche il padre Anfitrione. Quest’ultimo – fatto legare il figlio – può ormai solo piangere insieme con il coro la sciagura toccata alla sua famiglia. Al risveglio l’eroe, informato dal padre sui delitti compiuti, ritiene che gli resti solo la soluzione del suicidio. A dissuaderlo sopravviene l’amico Teseo (Carlotta Viscovo), che lo convince che sia più degno di un eroe sopportare il dolore e la sventura, e gli offre asilo in Atene.

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La presentazione dei personaggi

La messa in scena diretta da Emma Dante comincia con una inconsueta presentazione di tutti i personaggi, che costituisce una didascalia utile all’ambientazione della storia. La scenografia (di Carmine Maringola) è caratterizzata da un enorme muro di un cimitero, tappezzato dalle fotografie di defunti, e da alcune vasche lustrali: introducono nel tema della morte che incombe sullo svolgimento dell’azione ma, accompagnati anche da strane croci di legno che continuano a ruotare, mi pare caratterizzare in modo troppo “cristiano” l’ambiente. Belli e variopinti, viceversa, i costumi (di Vanessa Sannino), soprattutto quelli di Megara ed Eracle, Iris e Lyssa. Altrettanto coinvolgenti sono sia l’accompagnamento musicale di Serena Ganci, sia le coreografie di Manuela Lo Sicco, compresi i cortei funebri con l’invenzione finale dei cuscini di fiori. Molto efficace l’inseguimento che si svolge sul palcoscenico di una delle piccole vittime della follia di Eracle, che cerca invano una via di fuga dal padre impazzito.

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Eracle ricompare davanti alla sua famiglia

Tuttavia come si evince dai nomi degli attori, la scelta più sorprendente della regista Emma Dante è di far intepretare tutte le parti ad attrici, in un curioso capovolgimento con l’abitudine degli antichi greci di far recitare solo uomini, anche per le parti femminili. L’esperimento mi pare tutt’altro che riuscito. E non per incapacità delle attrici. Il fondamento ideologico è quanto meno fragile: i greci non facevano recitare le donne per una consuetudine sociale, figlia delle condizione di relativa subalternità che esse vivevano. E usavano maschere per identificare i personaggi. Al giorno d’oggi invece, vedere rappresentato da una donna proprio Eracle, l’eroe che più di ogni altro nella grecità rappresentava la forza fisica, non mi è parso rendere onore alle qualità dell’attrice: il semplice gioco con i capelli lunghi (che coprono e scoprono il viso in determinate circostanze) non sembra espediente così decisivo. Usare una donna per recitare frasi al maschile, rivolgendosi alla moglie Megara, non porta alcun vantaggio al personaggio Eracle, così come a Teseo. Per non parlare della comicità involontaria di una delle frasi finali di Teseo, che vuole sostenere lo spirito dell’amico: «Ti comporti da donna» (traduzione di Giorgio Ieranò per l’Inda). Per fortuna ci è stata risparmiata la parodia nella recitazione, che viceversa non manca nell’atteggiamento del vecchio Anfitrione, veramente una macchietta che non convince, proprio quando deve pronunciare frasi molto serie, quali le pesanti accuse a Zeus di essere stato capace di sedurre una donna, ma di disinteressarsi ora della sorte del figlio. Lo stesso si può dire dell’inutilità di far recitare a tre ragazze la parte dei tre figli maschi dell’eroe. Mentre il coro di vecchi, interpretati da uomini, veste abiti femminili, da suore d’altri tempi, ed è eccessivamente caratterizzato da una debolezza del corpo che si manifesta in una posa quasi perennemente sciancata e zoppicante. 

«Nessun altro dramma euripideo si avvicina a Sofocle come questo, che ci ripresenta ancora una volta, nello spirito della tragicità autentica, l’impotenza e la caducità dell’esistenza umana» osserva Albin Lesky nella sua «Storia della letteratura greca». D’altra parte è stato notato che questa tragedia contiene alcune delle critiche più precise di Euripide verso l’antropomorfismo religioso e il comportamento immorale degli dei. Eracle, orma prostrato, dichiara di non credere che gli dei siano adulteri o si incatenino a vicenda: «Il dio, se è veramente un dio, non ha bisogno di nulla. Queste sono solo miserabili favole dei poeti». Tuttavia è innegabile sia che – proprio in questa azione drammatica – gli dei sono intervenuti a travolgere l’eroe, sia che Eracle, secondo il mito, è figlio di Zeus. Interessante, come segnala il grecista Luciano Canfora (nella presentazione della tragedia a cura dell’Inda) la lezione che si ricava sul piano etico dalla conclusione della tragedia: «Non già il suicidio … bensì la virile sopportazione del dolore causato dalle proprie colpe, contraddistingue la condotta di un eroe … incorso nella sventura». Un percorso in cui viene accompagnato da Teseo, personaggio che riveste un ruolo curiosamente simile a quello svolto nell’Edipo a Colono nell’accogliere e purificare l’ospite contaminato dai delitti. «La solidarietà tra esseri umani è fragile – spiega Giulio Guidorizzi parlando del finale dell’Eracle nel commento all’Edipo a Colono (edizione Fondazione Valla-Mondadori) –, ma è pur sempre, nella visione umanistica di Euripide, ciò che fa la loro grandezza, davanti all’indifferente crudeltà degli dei».