Baccanti, la vendetta crudele dell’ambiguo Dioniso

Le Baccanti di Euripide sono una delle tragedie più rappresentate al teatro greco di Siracusa: questa di Carlus Padrissa, della compagnia teatrale spagnola La Fura dels Baus, è infatti la loro settima apparizione nei cicli realizzati dall’Istituto nazionale del dramma antico (Inda), solo Agamennone e Coefore di Eschilo ne hanno avute di più. L’ultima tragedia a noi nota – opera di un Euripide già trasferitosi in Macedonia, anche se rappresentata postuma dal figlio ad Atene, probabilmente nel 403 a.C. – ci riporta alle origini del teatro greco, a quel Dioniso a cui erano dedicate le rappresentazioni, inserite com’erano nelle feste delle Grandi Dionisie e messe in scena ad Atene nel teatro, appunto, dedicato a Dioniso. È anche l’unica tragedia che ci è giunta in cui un dio è protagonista assoluto della scena: è figlio di Zeus e della tebana Semele, che – incinta e ingannata da Era – chiede improvvidamente al signore degli dei di mostrarsi nel suo pieno splendore, e viene incenerita dal fulmine. Tuttavia Dioniso viene salvato da Zeus che se lo cuce nella coscia fino al momento della nascita.


La storia delle Baccanti di Euripide è semplice quanto terrificante. Dopo essersi fatto conoscere in Oriente, Dioniso (Lucia Lavia) giunge a Tebe, dove si manifesta sotto forma di un uomo bello ed effemminato, seguace del dio. Questo straniero vuole convincere i concittadini di Semele a rendere il culto dovuto a Dioniso, che nel prologo si è detto a vendicarsi in caso contrario. Ma né le sorelle di Semele, né tanto meno il re Penteo (Ivan Graziano), nipote di Cadmo (Stefano Santospago), sono disposti a riconoscere la loro parentela con Dioniso e la sua divinità: ritengono che Semele abbia millantato l’amore con Zeus per nascondere una relazione con un uomo. Dioniso intanto, accompagnato da un seguito di baccanti dalla Frigia, ha fatto uscire di senno tutte le donne di Tebe e le spinge a svolgere i suoi riti sul monte Citerone.

Penteo non intende ascoltare gli inviti alla prudenza che l’indovino Tiresia (Antonello Fassari) e il nonno Cadmo gli rivolgono, convinti che – almeno per precauzione – sia più opportuno adeguarsi al nuovo culto, anche se non ci credono. Il re intende porre fine con la forza alla situazione, che ritiene frutto di irrazionalità e – soprattutto – di immoralità, supponendo che le donne sul Citerone siano solo preda di istinti sessuali disordinati, che sovvertono l’ordine cittadino.

Catturato lo straniero, Penteo vorrebbe punirlo, ma deve assistere impotente al suo incredibile liberarsi senza fatica, cui segue la distruzione della reggia per un terremoto. Nonostante i segni evidenti, e il racconto straordinario di come le donne sul monte vivano in uno stato di pace con la natura, salvo diventare sanguinarie assassine nel caso vengano disturbate, Penteo non vuole – razionalmente – accettare il culto di Dioniso. Tuttavia – cadendo nella rete tesagli dallo straniero/Dioniso – cede alla tentazione morbosa di spiare i riti che le tebane stanno celebrando lontano dalla città, e – ormai privato di senno dal dio – accetta di travestirsi da donna nell’illusione di potersi così confondere tra le baccanti. Condotto sul Citerone da Dioniso, è destinato invece a essere preda della furia delle baccanti che, invasate dal dio, lo scambiano per un leone: proprio la madre Agave (Linda Gennari), sorella di Semele, dà il via allo squartamento del figlio Penteo, la cui testa viene conficcata su un tirso. Rientrata a Tebe trionfante, con il padre Cadmo rientra in sé e riconosce l’atrocità della punizione subita da Dioniso. Che aveva detto di Penteo, prima della catastrofe: «Essendo un uomo, ha osato battersi con un dio».

La rappresentazione di Padrissa è coinvolgente e “sfrutta“ l’ambiente aperto del teatro di Siracusa per distribuire le baccanti nell’ampia cavea, creando un’immersione nello spettacolo. La scena resta piuttosto scarna, ma arricchita da alcuni “effetti speciali”: una gigantesca figura umana “partorisce” Dioniso, mentre una macchina teatrale – che richiama quella del deus ex machina – viene utilizzata per rappresentare balletti aerei di una parte del coro. Una gigantesca struttura che rappresenta una testa, che si apre a metà e rappresenta il palazzo reale di Penteo, viene richiamata anche nella sua corona, simbolo del suo strenuo razionalismo.

Lucia Lavia, con una interpretazione eccellente, dà vita a un personaggio multiforme e indecifrabile, capace di esprimere ira, dolore, seduzione, astuzia e inganno, che le è valso il premio “Siracusa teatro stampa” (ben più meritato rispetto a quello assegnatole per l’Ifigenia in Aulide nel 2015). Convincono anche Stefano Santospago, che spiega l’albero genealogico della sua parentela, intenerendosi al pensiero della moglie Armonia (con una citazione di Franco Battiato, scomparso a maggio) e Antonello Fassari che ben rappresenta l’ipocrisia di chi non crede, ma si adegua. Poco autoritario Ivan Graziano nella parte del tiranno, molto più ispirato quando si adegua al volere di Dioniso, travestendosi da donna. Un’intensa Linda Gennari dà vita all’angoscia di Agave quando torna in sé, scoprendo l’orrore del suo delitto. Una certezza le capocoro, Elena Polic Greco e Simonetta Cartia, apprezzabili i messaggeri, Spyros Chamilos, Francesca Piccolo e Antonio Bandiera.

Discorso a parte è la rappresentazione del coro: estremamente spettacolari le danze aeree della parte del coro issata dalla gru, un magnifico ornamento, che esprime la pace della vita dionisiaca e dei suoi riti. Il coro che agisce sulla scena, definito da Padrissa “coro dei cittadini” (estraneo al testo euripideo, a volte simile a contemporanei manifestanti urbani), dà voce alle caratteristiche più tipiche del dionisismo (le danze sfrenate) ma anche sorprendenti («il sapere non è saggezza») e rivendica insieme al tempo stesso «la vita tranquilla», «il piacere del vino che libera dal dolore» e il desiderio di recarsi a Cipro o nella Pieria, dove «sono lecite le orge delle baccanti». La traduzione di Guido Paduano dà conto della «ambivalenza radicale dell’ideale idillico della pace e quello illimitato della violenza».

«La religione di Dioniso non fu mai rappresentata così suggestivamente nella sua enigmatica polarità», scrive Albin Lesky nella sua Storia della letteratura greca, premettendo che «nessun altro dramma di Euripide è stato oggetto di interpretazioni così contrastanti». E com’è noto, a partire dalla Nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche, anche se dapprima respinto, l’aspetto dionisiaco della religiosità dei greci in contrapposizione a quello apollineo ha influenzato significativamente gli studi sul teatro tragico. Un utile compendio della acuta disputa – a fine Ottocento – tra Nietzsche e Ulrich von Wilamowitz-Moellendorf si trova nelle pagine di Gherardo Ugolini nell’opera a più mani Storia della filologia classica (a cura di Ugolini e Diego Lanza, Carocci editore), che ricorda la valorizzazione molto “postuma” che il dionisiaco ha ottenuto tra gli studiosi dell’antichità, soprattutto – direi – «la considerazione della cornice religioso-cultuale degli spettacoli tragici». E alle feste dionisiache come «opera d’arte totale» (come nella tradizione della Fura dels Baus), nonché all’interpretazione di Nietzsche si richiama esplicitamente Padrissa, nelle sue note di regia, sentendosi in dovere di giustificare anche la scelta di una donna, per interpretare Dioniso, maschio, ma dio dell’ambiguità per eccellenza. Del resto «la scena moderna ha sciolto molti nodi del teatro antico, non l’enigma delle Baccanti» osserva Margherita Rubino (docente di Teatro e drammaturgia dell’antichità all’Università di Genova e componente del consiglio di amministrazione dell’Inda). Il fascino della lettura di Padrissa a Siracusa resterà comunque nella memoria.

Le Supplici, ovvero la democrazia accoglie i migranti

suppliciscenaLe Supplici di Eschilo, tragedia messa in scena al teatro greco di Siracusa nell’ambito del 51° ciclo di spettacoli classici realizzati dall’Istituto nazionale del dramma antico (Inda), è stata reinterpretata in modo molto innovativo dal regista Moni Ovadia (assistito per le musiche e l’adattamento da Mario Incudine e Pippo Kaballà) rendendola una rappresentazione veramente inconsueta.
Il testo risale – secondo gli studi più accreditati – al 463 a.C. ed era la prima tragedia di una trilogia che proseguiva con i Figli di Egitto e le Danaidi (entrambe perdute). La storia narrata riguarda la fuga delle 50 figlie di Danao dalla terra egiziana per sottrarsi al matrimonio con i 50 cugini figli di Egitto, fratello di Danao. Le giovani giungono ad Argo (origine della loro stirpe) per implorare aiuto e accoglienza: il re Pelasgo stretto tra il dovere dell’ospitalità – come prescritto da Zeus – e il rischio di scatenare una guerra con gli egiziani, si rivolge alla propria popolazione e pone in votazione la richiesta di asilo che le Danaidi hanno rivolto alla città, minacciando di impiccarsi sugli altari (contaminandoli) piuttosto che essere costrette alle nozze con gli odiati cugini. Per alzata di mano, i cittadini votano in favore dell’accoglienza, e il re Pelasgo – forte di questo mandato popolare – può efficacemente respingere il tentativo di un messo degli Egizi che con alcuni soldati cerca di rapire le ragazze, che si erano rifugiate presso gli altari degli dei. La tragedia vera e propria si svolgeva nei seguenti episodi della trilogia, con le giovani che alla fine sposavano i cugini egiziani ma, dietro indicazione del padre Danao, si ripromettevano di sgozzare i propri mariti alla prima notte di nozze. Tutte ubbidivano al piano di morte tranne Ipermestra, che risparmiava il proprio sposo Linceo: dalla loro unione sarebbe discesa la stirpe dei nuovi re di Argo. Non si sa come Eschilo nelle seguenti tragedie svolgesse la trama.
La rappresentazione teatrale di Moni Ovadia introduce il mito con il racconto di un cantastorie (Mario Incudine), che costituisce la cornice dello spettacolo, recitando in dialetto siciliano. Anche le supplici, che giungono in scena subito dopo, si esprimono generalmente in siciliano, che resta la lingua base dell’intero spettacolo, oltre ad alcune strofe in greco moderno. Infine il re di Argo, Pelasgo (interpretato dallo stesso Ovadia) si esprimerà ancora in greco moderno per scacciare gli egiziani che tentavano il ratto sacrilego. La tragedia è eminentemente corale, perché il coro delle Danaidi è il vero protagonista (da segnalare almeno la corifea Donatella Finocchiaro): e questo ruolo viene ben valorizzato dai canti e dalle coreografie (di Dario La Ferla) che si svolgono sulla scena. Belli i costumi delle Danaidi (di Elisa Savi), che ne sottolineano i tratti di donne africane, scure di pelle (come del resto indica il testo eschileo), semplice ma efficace la scenografia, con una spiaggia – cui sono approdati Danao e le figlie – ornata da statue che simboleggiano gli altari degli dei e un varco a indicare l’ingresso alla città. supplicirattoAnche il “torneo” dell’araldo egizio (Marco Guerzoni) che guida un manipolo di soldati a catturare le giovani Danaidi rende bene il senso dell’empia violenza che i rapitori cercano di mettere in atto (paiono però fuori luogo i richiami ai militari tedeschi dell’ultima guerra). Efficace la cornice del racconto, con il cantastorie siciliano che dopo essere giunto con un carretto folcloristico a introdurre la storia, la conclude nel finale narrando gli episodi successivi del mito. Un po’ disorientante invece la scelta linguistica: non solo il siciliano non è comprensibile a tutti (meglio aiutarsi tenendo sott’occhio il testo scritto), ma l’uso del neogreco è del tutto sconosciuto ai più (e anche il libretto della tragedia non contiene traduzione). Il tono e il fine delle severe parole che Pelasgo pronuncia per scacciare l’araldo egizio sono chiari, il senso letterale no.
Ma quel che caratterizza maggiormente lo spettacolo è il suo voluto riferirsi alla situazione contemporanea dei migranti, stabilendo un esplicito parallelo tra le Danaidi che chiedono aiuto al re di Argo e la richiesta di asilo che rivolgono all’Europa (e in primis all’Italia) le migliaia di persone provenienti perlopiù dall’Africa le quali, per sfuggire a condizioni disperate di vita, non esitano a rischiare la traversata del Mediterraneo su imbarcazioni di fortuna, sottoposte ad angherie di ogni tipo. Il re Pelasgo, dapprima in dubbio sul da farsi, difende poi con forza il voto dei cittadini favorevole ad accogliere le supplici Danaidi, indicando esplicitamente che questa è la «democrazia». E invita le giovani donne a prendere liberamente possesso degli spazi che verranno messi loro a disposizione generosamente sia dallo stesso re, sia dai cittadini argivi. Coerente con questo messaggio “politico” sul dovere dell’accoglienza dei migranti contemporanei è il saluto finale dello spettacolo in cui, rompendo completamente la finzione scenica, il narratore si rivolge direttamente a un gruppo di profughi presenti sulle gradinate del teatro siracusano.
supplicipreghieraNumerose sono quindi le forzature rispetto al testo, e in parte al suo messaggio. Innanzi tutto, come nota il traduttore Guido Paduano nell’intervista pubblicata sul sito dell’Inda, Eschilo non usa la parola “democrazia”, ma si pronuncia per un sistema di votazione per alzata di mano. E anche il legare questo sistema democratico alla decisione di accogliere le supplici è fuorviante: era tradizione consolidata nella cultura greca antica che gli ospiti fossero sacri a Zeus (così come anche la Bibbia, ancor prima, indicava il dovere di assistere lo straniero). Le circostanze politiche della composizione della tragedia sono illustrate in maniera convincente da Luciano Canfora nella sua Storia della letteratura greca. Spia di un particolare messaggio della tragedia è una battuta di Danao (interpretato da Angelo Tosto), che giunge nei versi finali, quando ormai la situazione si è sciolta, l’accoglienza è stata decretata e, addirittura, sono già stati respinti gli egiziani. Il padre delle supplici si rivolge alle figlie esortandole a ringraziare gli Argivi anche perché (vv. 985-988) «mi hanno concesso una scorta di guerrieri, come segno d’onore e perché non sia colto da una morte imprevista», nella versione di Paduano; mentre Canfora traduce «perché non mi toccasse di morire colto di sorpresa da inatteso colpo di lancia micidiale». La frase – assente nella versione siciliana di Ovadia – appare eccessiva rispetto ai rischi che poteva correre Danao, e pertanto sibillina. Ma, spiega Canfora, rappresenta una velata allusione al contesto politico dell’Atene del 463, quando Temistocle – esiliato dalla sua città per le trame del partito filospartano – rischiava in quanto “atimos” (cioè condannato a morte e privo di diritti politici) di essere ucciso da chiunque, e si era rifugiato dapprima ad Argo, tradizionale alleata di Atene nel Peloponneso. Anche la decisione di far votare gli Argivi per decidere una questione di “politica estera” conterrebbe – secondo Canfora – un preciso riferimento alla riforma che si stava discutendo ad Atene (promossa da Efialte e poi approvata nel 462) per far decidere su questi argomenti l’assemblea dei cittadini (per alzata di mano), togliendo questa prerogativa all’Areopago, istituzione guidata dai nobili.
In definitiva con questa lettura la tragedia eschilea soffre un po’ da un punto di vista filologico, ma lo spettacolo è molto affascinante, i movimenti e i canti del coro belli e coinvolgenti, il messaggio di solidarietà umana pienamente condivisibile.