Recensione del libro di Gianluca Majeli “La mania della letteratura” di Tommaso Gargallo
L’ultimo frutto del mio viaggio primaverile a Siracusa è stata la scoperta del libro “La mania della letteratura” di Tommaso Gargallo, testo di Giancarlo Majeli pubblicato dalle edizioni siracusane VerbaVolant e acquistato nella storica libreria Mascoli a Ortigia. Un’opera che permette di accostare la figura del letterato siracusano Tommaso Gargallo (1760-1843) attraverso un numero relativamente piccolo delle sue lettere all’abate Giovanni Cristofano Amaduzzi e al poeta Angelo Maria Ricci e di gettare un po’ di luce su alcuni ambienti culturali nel regno borbonico prima e dopo le bufere della rivoluzione francese e dell’epoca napoleonica.
Il marchese Tommaso Gargallo fu infatti figura di spicco nel panorama culturale siracusano: a lui è dedicata una via nel cuore di Ortigia vicino alla storica sede (ora chiusa) del liceo classico, anch’esso intitolato al nobile letterato. Il suo rango familiare lo portò a impegnarsi nell’amministrazione borbonica: risiedette a lungo a Napoli, fu ministro di Guerra e seguì il suo re Ferdinando di Borbone quando la corte fu costretta a riparare a Palermo. Ma furono le lettere la sua vera passione e rimase noto soprattutto per la sua traduzione del corpus delle opere di Orazio (oltre ad alcune satire di Giovenale e al De officiis di Cicerone) e per alcune raccolte di poesie pubblicate sin dalla giovinezza fino alla vecchiaia. Postume invece apparvero le Memorie autobiografiche, non sempre del tutto attendibili.
Gargallo, scrive Majeli, «potè godere di un’educazione scolastica come pochi a Siracusa», ma la svolta nella sua vocazione letteraria fu rappresentata dalla conoscenza di Ippolito Pindemonte, che nel 1779 giunse a Siracusa venendo da Malta. «L’incontro con il letterato veronese – continua Majeli – rivestì un’importanza centrale nella vita di Gargallo. Insieme i due visitarono parte della Sicilia orientale e la loro frequentazione fece da rinforzo alle velleità poetiche del giovane siracusano». Gargallo intraprese il suo grand tour a 22 anni, e venne in contatto con i circoli culturali a Napoli e a Roma, dove entrò in Arcadia e conobbe Vincenzo Monti e l’abate Amaduzzi. Nel suo viaggio verso il nord incontrò anche Melchiorre Cesarotti a Padova e Giuseppe Parini a Milano e scambiò un paio di lettere con Vittorio Alfieri, a cui spedì alcune sue poesie. Aveva già iniziato a tradurre Orazio, ma le incombenze della politica attiva lo assorbirono per diversi anni. Ripresa a pieno titolo l’attività letteraria poté quindi pubblicare il suo Orazio (parzialmente nel 1809-11, in modo completo nel 1820), riprendere viaggi culturali nella penisola, frequentare il Gabinetto Viesseux a Firenze, incontrare Alessandro Manzoni a Milano, giungendo fino alla corte imperiale a Vienna. Fedele in poesia a un’impostazione classicista, nel 1837, oltre vent’anni dopo il famoso articolo di madame de Staël che innescò il dibattito tra classicisti e romantici, Gargallo tenne una conferenza a Firenze presso l’Accademia della Crusca per “stroncare” la nuova moda letteraria.
Il libro di Majeli, dottore di ricerca in Lettere, permette di conoscere da vicino formazione, gusti e atteggiamenti culturali del marchese siracusano. Occorre osservare, in primo luogo, che le due corrispondenze sono piuttosto diverse: il primo gruppo di lettere (tra il 1783 e il 1791) è rivolta da Gargallo all’abate Amaduzzi, di vent’anni maggiore di lui, e mostra un atteggiamento da discepolo a maestro. Del secondo gruppo (tra il 1818 e il 1842) è destinatario il poeta Ricci, viceversa di 16 anni più giovane di un Gargallo ormai a suo agio nel mondo delle lettere, e in grado di dispensare consigli mentre viaggia per l’Italia e l’Europa. Ad accomunare i due carteggi è la passione per gli studi letterari da cui Gargallo si dice vinto: nel 1784 confessa di consumare al tavolino «la maggior parte del giorno in compagnia delle muse» e nel 1820 si dichiara «assorbito dalla insaziabilità de’ classici, che mi tengono al loro servizio».
Dell’ampia documentazione cito solo alcune curiosità letterarie. Da Siracusa, l’8 settembre 1784, un ventiquattrenne Gargallo – fresco del suo itinerario nella penisola – mostra di soffrire l’insularità della sua patria e prega l’abate di tenerlo informato: «Non mi siate avaro dunque di qualche nuova letteraria». Interessante è anche notare la lunga gestazione della sua traduzione di Orazio: il 26 gennaio 1785 scrive ad Amaduzzi di essere «quasi impaziente di darlo presto» alle stampe, ma ne è trattenuto dalla notizie che «l’Abate Gagliano» (Ferdinando Galiani) di Napoli sta compiendo approfondite ricerche sul corpus oraziano, sia di tipo antiquario sia di tipo filologico, scoprendo errori degli antichi amanuensi. Gargallo ritiene quindi «non convenirmi di precedere colla mia versione le sue osservazioni». Ma queste tardano e non arriveranno che postume, osserva Majeli, nel 1910.
Ancora la traduzione di Orazio è ben presente tra gli argomenti del carteggio con Ricci, soprattutto negli anni in cui stava preparando l’edizione. Nel 1818, riconoscendo di avere ancora molto lavoro da fare tra note e proemio, sbotta: «Ma parvi che io possa tutta consumar la mia vita con questo diavolo di pugliese, nato 19 secoli fa per tormentarmi?». La traduzione di Orazio, finalmente pubblicata per intero nel 1820, gli diede comunque soddisfazione, a partire dalla favorevole recensione comparsa sulla Biblioteca Italiana. Il rapporto di Gargallo con i giornali (letterari) e i giornalisti è ambivalente: da un lato afferma di riporre la sua «ambizione letteraria ne’ valentuomini che leggono e giudicano dal loro tavolino senza pubblicare le loro sentenze ne’ pubblici fogli» (10 maggio 1820), da un altro si preoccupa che del suo Orazio si parli: «Se bene o male non me ne curo: piacemi soltanto che se ne parli, giacché sapete che la morte delle opere di gusto non è già la censura, ma il silenzio» (4 ottobre 1820). E ammette di avere sentito un po’ di vanagloria per il successo: «Doni di libri, lettere di letterati, giornali d’oltremonte ed oltremare, … tutto ciò congiura a farmi girare la testa» (22 agosto 1821). E i giornali li cerca: «Non so di qual giornale mi parliate, mentre mi esortate ad appagar le obbliganti premure de’ redattori del Giornale pisano. … mandatemi qualche foglio anche vecchio e dell’Antologia e del Giornale di Pisa» (25 gennaio 1822). La sicurezza ormai acquisita in campo letterario lo spinge – nelle lettere a Ricci – a giudizi piuttosto netti su Vincenzo Monti (2 maggio 1818) o sulla qualità della traduzione dal latino di Melchiorre Cesarotti: proprio per rivaleggiare con il letterato padovano decide di volgere egli stesso in italiano le sette satire di Decimo Giunio Giovenale che l’altro aveva tralasciato (26 aprile 1820). E nell’attacco alla poesia romantica coinvolge persino Dante: «Piacemi sentire che la mania trecentista vadasi dissipando, e così si sperdesse la romantica! Rispetto il poema sacro e soffrirò che i suoi sacri adoratori mi tengano per sacrilego: ma ad onta di ciò, non lascerò mai di parlare, ove mi capiti, il mio linguaggio» (17 aprile 1833). Curioso che chi fa le pulci a Dante, si fosse profuso in lodi sperticate verso l’amico poeta Ricci (cui imputava solo la fretta e uno scarso labor limae), riempiendolo altresì di consigli sui suoi poemi Italiade e San Benedetto e suggerendogli di non rispondere alle critiche, ma di ignorarle, secondo l’esempio di Vittorio Alfieri (10 maggio 1820). Suona invece un po’ schematico l’approccio di Gargallo alla composizione della tragedia Calliroe: scrive infatti che il divertimento suscitatogli dalla lettura del romanzo greco di Caritone «mi ha fatto nascere pensiero di poterne ricavare una tragedia». E indica a Ricci (1° agosto 1821) i motivi: «Comoda e miracolosa opportunità da combinar le tre diaboliche unità aristoteliche; argomento interessantissimo, argomento siracusano e nuovo affatto al teatro capacissimo di una gran marea di affetti». Tornando a chiedere all’amico pochi giorni dopo (11 agosto): «Non è vero che l’argomento è bellissimo? E poi intatto, innocuo, patrio; quasi nato-fatto per dare una solenne mentita agli spiriti forti della poesia, ed a’ Romantici».
Interessante (e importante, nota Majeli) il “cenacolo letterario classicista” che si riuniva a casa Gargallo a Napoli: «Il venerdì sera sono onorato da quattro, o cinque amici. Son essi Don Gaetano Greco, Lampredi, Scrofani, Selvaggio e Montrone. Montrone ha cominciato a leggerci le sue satire di Giovenale in terza rima. Già comprendo il concetto, che formate di questa unione dalla qualità de’ componenti: ma preferireste forse la Sebezia, e la Pontaniana?» (22 agosto 1818). E per quanto spergiurasse: «Io non mi macchierò mai di Romanticismo» (20 novembre 1821), s’interessa (1° febbraio 1822) di sapere «che volea far madama de Staël di quella mia versione sdrucciola del IV dell’Eneide?», un poemetto in 100 ottave – spiega Majeli – che parafrasa il IV canto del capolavoro virgiliano, e che fu pubblicato nella raccolta di versi di Gargallo nel 1794: non vi sono però tracce negli epistolari di commenti della scrittrice francese. E non si può evitare anche di notare, osserva Majeli, che Corinne, il romanzo della de Staël, era conosciuto e letto nella famiglia Gargallo, e la figlia Anna ne era addirittura entusiasta.
Non va dimenticato, osserva Majeli, che «il Romanticismo è per Gargallo indisgiungibile dal Liberalismo». E il marchese era un tipico esponente della nobiltà dell’ancien régime, che frequentava non solo la corte borbonica ma era in confidenza con il cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria (che nel 1799 contribuì ad abbattere la Repubblica partenopea) e con il principe di Metternich. Peraltro non potè non subire l’influsso dei tempi e le «novità» romantiche «contro le quali polemizzava» sono «comunque presenti in qualche misura in alcune sue raccolte di versi più tarde, come Le Veronesi e Le Malinconiche». Notevole infine, il suo ruolo – evidenziato da Majeli – di trait d’union tra intellettuali della Sicilia e del resto del paese, con una lungimirante volontà sia di diffondere le opere letterarie sia di sostenere nell’isola la costruzione di un’istruzione pubblica che raggiungesse i ceti più poveri ed emarginati, come testimoniano le sue lettere all’erudito palermitano Agostino Gallo, che egli aveva presentato come poeta alla corte borbonica di Napoli. Fedele a un’impostazione da riformista illuminato che aveva sviluppato sin dagli anni giovanili.