In Tauride la salvezza «rocambolesca» degli ultimi Atridi

Ifigenia in Tauride messa in scena nella primavera 2022 al teatro greco di Siracusa era solo alla terza rappresentazione nelle stagioni di spettacoli classici della Fondazione Inda (Istituto nazionale del dramma antico). Euripide riprende e riforma alcune vicende della versione principale dei miti relativi agli Atridi, con la salvezza degli ultimi eredi. Nell’Agamennone, Eschilo fondava parte del risentimento che spingeva Clitemenestra a uccidere il marito, al rientro da Troia, sul sacrificio della figlia Ifigenia che lo stesso comandante aveva voluto per propiziare la partenza della spedizione dei greci dall’Aulide. In questa tragedia invece, Euripide immagina che la dea Artemide abbia misteriosamente salvato Ifigenia, sostituendola con una cerva sacrificata al suo posto sull’altare e trasportandola nella lontana Tauride (l’odierna Crimea). Una conclusione a cui Euripide terrà fede nella sua più tarda Ifigenia in Aulide. Il testo dell’Ifigenia in Tauride risale agli anni tra il 414 e il 411 ed è discusso tra gli studiosi se sia precedente o successiva a quello dell’Elena, che ha un impianto narrativo simile. Può vantare diverse citazioni nella Poetica di Aristotele, che ne lodava l’intreccio (1455b), ma apprezzava solo a metà la scena del duplice riconoscimento tra i fratelli Ifigenia e Oreste. Questa versione del mito ottenne interesse in molti drammaturghi in epoca moderna, compreso Johann Wolfgang Goethe.

La tragedia si apre con il racconto di Ifigenia (Anna Della Rosa) che, indossando significativamente una maschera con muso e corna di cerva, riferisce la sua storia e il suo arrivo in Tauride: qui il compito della fanciulla era di essere sacerdotessa al tempio della dea Artemide, presiedendo i riti di sacrificio a cui per legge dei Tauri erano destinati gli stranieri catturati. Una schiera di schiave, anch’esse greche, le sono ancelle e costituiscono il coro. A questa terra lontana approdano Oreste (Ivan Alovisio) e l’amico Pilade (Massimo Nicolini) perché devono impossessarsi della statua di culto di Artemide custodita nel santuario di cui Ifigenia è sacerdotessa. Anche in questo caso Euripide “riforma” la versione eschilea, che aveva fatto assolvere Oreste dal delitto di matricidio dal tribunale ateniese dell’Areopago grazie al voto decisivo di Atena. Secondo Euripide questo processo non esauriva la pena per Oreste: alcune Erinni non avrebbero accettato il verdetto e avrebbero continuato a perseguitare Oreste. Di qui la richiesta di Apollo di recarsi in Tauride per riportarne il simulacro di Αrtemide.

I due inseparabili amici giunti in Tauride si accorgono dell’estrema difficoltà dell’impresa e rabbrividiscono al vedere il tempio a cui sono appesi i resti degli stranieri uccisi, secondo un rituale macabro. In più vengono presto catturati dopo una breve lotta riferita da un mandriano (Alessio Esposito). Per ordine del re Toante, sono condotti dalla sacerdotessa per le purificazioni necessarie prima di essere offerti in sacrificio. Ifigenia, che all’inizio della tragedia lamentava la sua nostalgia della Grecia e temeva che un sogno oscuro le avesse rivelato la morte del fratello Oreste, viene turbata dalla sorte dei due giovani greci. Ignorando la scia di sangue che aveva invaso la casa paterna, pensa di utilizzare uno dei due prigionieri per i suoi scopi: vuole salvarlo perché svolga un’ambasceria ad Argo in suo favore. Oreste e Pilade si rimpallano con generosità reciproca il diritto di scampare la morte: alla fine la lettera di Ifigenia viene consegnata a Pilade perché la porti in patria. Oreste è destinato a perire.

A questo punto avviene la scena del duplice riconoscimento. Infatti per essere sicura che Pilade porti a termine la missione anche se per un naufragio perdesse la lettera, Ifigenia gliene legge il contenuto. Grande è la sorpresa di Oreste che capisce di avere davanti a sé la sorella che credeva morta. A sua volta descrivendo la stanza di Ιfigenia giovinetta nel palazzo di Αrgo, la convince di essere il fratello da lei rimpianto. Secondo Aristotele (1454b), mentre il primo riconoscimento è molto ben riuscito, del secondo non si può dire altrettanto perché «non esce dal racconto» in modo spontaneo, come faceva il testo del “sofista Poliido” (1455a) che metteva in bocca a Oreste il lamento per essere sul punto di essere sacrificato come la sorella. Che a questo punto lo riconosceva.

La trama cambia direzione: ora Ifigenia e Oreste, con Pilade, condividono gli stessi obiettivi e studiano il modo di tornare in Grecia, portando con sé la statua di Artemide, senza cadere nelle mani dei Tauri. È la sacerdotessa a escogitare lo stratagemma decisivo per ingannare il re Toante, sfruttando il matricidio di Oreste: dirà che deve portare la statua a purificare perché è stata toccata dal greco, ancora impuro per il matricidio. Toante (Stefano Santospago), che inorridisce di fronte a un tale delitto («Nemmeno un barbaro farebbe una cosa simile» sottolinea), le concede di recarsi in riva al mare a compiere la purificazione, e accetta tutte le condizioni poste da Ifigenia, che cerca di rendere la fuga il più possibile sicura. Un messaggero (Rosario Tedesco) torna per avvisare Toante che gli stranieri sono fuggiti con l’inganno, e lo incita a inseguirli perché il vento sta rispingendo verso la riva la loro nave. Toante, dopo aver minacciato le schiave greche del tempio, ritenute complici, si prepara a inseguire i greci, ma interviene la voce di Atena che gli intima di desistere, spiegando che la fuga è approvata dagli dei. E poi incarica i due giovani Atridi della fondazione di due nuovi culti ad Artemide in Attica: ad Ale per Oreste, e a Brauron per Ifigenia, destinata a rimanere per sempre sacerdotessa della dea. Infine prefigura il rientro in Grecia anche delle altre schiave.

Il regista Jacopo Gassman parla dell’Ifigenia in Tauride come di «un testo intriso di domande e contraddizioni» e dalla «natura stilisticamente ibrida». Da scura e inquieta diventa la narrazione di una «fuga rocambolesca» ritiene «la Tauride di Euripide, un portentoso labirinto della mente, un paesaggio lunare e metafisico costellato di enigmi». E dove – dopo il riconoscimento tra i fratelli – Ifigenia «riappropriarsi di sé» e a compiere «un vero e proprio viaggio di liberazione e di emancipazione». La scenografia presenta un parallelepipedo che rappresenta il tempio di Artemide, davanti al quale si trova la vasca lustrale per la preparazione delle vittime sacrificali. E alcuni oggetti simbolici custoditi in teche trasparenti: in primo piano, una cerva evidente richiamo all’animale ucciso al posto di Ifigenia. Altri (toro, agnello: meno comprensibili), spiega lo scenografo Gregorio Zurla, sono sempre presenti a metà: «una forma che ci fa sospettare della veridicità di quello che vediamo». Un modo per assecondare la scelta registica di muoversi «tra finzione e realtà». Tanta “oniricità” non mi pare del tutto aderente agli intenti di Euripide, che pur trasportando la vicenda in un mondo lontano dalla Grecia, mantiene chiaro il senso della missione di Oreste e il dolore per l’isolamento che vive Ifigenia, lontana dalla patria, pur essendo scampata alla morte in Aulide. Pietà e paura, che Aristotele voleva producesse nella mimesi il testo tragico (1453b), sono presenti in abbondanza nell’Ifigenia in Tauride, anche se la vicenda si conclude senza ulteriore spargimento di sangue.

La «messa in discussione del mito» si traduce in una contaminazione con oggetti «contemporanei, appartenenti al contesto teatrale moderno» conclude Zurla. Vediamo infatti i microfoni che servono alle componenti del coro, fino ai protagonisti che riappaiono in abiti moderni seduti in un’ipotetica sala teatrale. Una “svolta” francamente che però pare snaturare il contesto, e appare poco comprensibile. Così come la proiezione sul tempio dei versi finali della tragedia convince a metà: se appare efficace per riferire con una voce fuori campo le parole di Atena, che viene così percepita senza essere vista, amplificando l’effetto della divinità che impone il suo volere, meno motivato mi pare il seguito, con le battute del coro e dello stesso Toante, che compaiono scritte mentre vengono pronunciate dagli attori sulla scena.

Convincenti gli attori, a partire da Anna Della Rosa (già a Siracusa come Elettra nel 2021 e Antigone nel 2017), Stefano Santospago e la coppia di amici Oreste-Pilade (Ivan Alovisio e Massimo Nicolini). Meno apprezzabili mi sono parsi i costumi di Gianluca Sbicca: non per la foggia ma per i colori, che vanno dal bianco al nero, passando per molte sfumature di grigi. Ridurre la gamma cromatica mi pare diventata una tendenza che si ripete negli anni (penso che fosse l’unico difetto dell’Edipo a Colono messo in scena nel 2018), ma continua a non piacermi.

Come spiega Anna Beltrametti nella sua edizione di Euripide (Millenni, Einaudi, 2002), il poeta tragico non accetta l’assoluzione “politica” di Oreste di eschilea memoria, e pretende un rapporto tra gli uomini e gli dei scevro da menzogne. Osservo poi che, come già in altri drammi, Euripide non fa sconti ai suoi connazionali: se i sacrifici umani in Tauride paiono agghiaccianti, i greci si sono resi responsabili dell’uccisione di una fanciulla innocente come Ifigenia, e Oreste viene perseguitato in quanto matricida. E la madre Clitemnestra aveva ucciso il marito. Infine attribuire alla dea ex machina una funzione convenzionale (come sostiene Giorgio Ieranò, autore della traduzione limpida e moderna) mi pare insufficiente. Proprio la sua “inutilità” (i giovani Atridi avrebbero potuto salpare e basta) deve interrogarci, perché dimostra che Euripide ha “voluto” introdurre la figura di Atena che conclude il dramma, per sottolineare l’origine di due culti attici: forse una captatio benevolentiae verso un pubblico, quello di Atene, che non lo amava molto?

Il sacrificio a lieto fine dell’eroina Alcesti

2016-05-14 18.57.49Rappresentare un testo come l’Alcesti di Euripide pone alcune difficoltà particolari. Non può essere infatti valutata come una tradizionale tragedia greca: fu rappresentata nel 438 come quarta opera dopo una trilogia tragica, ma non è un dramma satiresco. Da secoli le interpretazioni dei critici sulla sua esatta classificazione sono discordanti. La vicenda infatti nasce tragica (Alcesti accetta di morire al posto del marito Admeto, re della tessala Fere, e muore in scena) ma termina con un apparente lieto fine (la regina viene strappata al dio Thanatos da Eracle), non senza avere attraversato il territorio della commedia (la scena pantagruelica dello stesso Eracle in casa di Admeto). E nell’intreccio tra morte e vita Euripide pone in discussione alcune consuetudini del codice tragico.

Lo spettacolo allestito dall’Istituto nazionale del dramma antico (Inda) al teatro greco di Siracusa a cura del regista Cesare Lievi si apre con un singolarissimo adattamento: alla presenza di due divinità greche (Apollo e Thanatos) in abiti adatti al mito, si svolge un funerale cattolico con tradizionale processione, che crea però un certo senso di disorientamento, apparendo un elemento totalmente fuori contesto. Il telo che gli dei mitologici calano in modo repentino sul corteo funebre sembra una catastrofe (come il crollo di un palazzo) che colpisce all’improvviso l’umanità e rappresenta – forse – l’imprevedibilità della vita, che può da un momento all’altro tramutarsi in morte per chi casualmente si trova nel posto sbagliato.

Non è un caso invece la sciagura di Alcesti, prevista da tempo (secondo Euripide), e argomento del dialogo successivo tra Apollo (Massimo Nicolini) e Thanatos (Pietro Montandon) che chiariscono l’antefatto: il primo ha ottenuto con un inganno che il re Admeto potesse scampare la morte, il secondo ha preteso che un altro ne prendesse posto, ma nessun amico o parente (neppure gli anziani genitori) ha accettato, se non la giovane moglie Alcesti. Ora Thanatos non accetta più alcuna dilazione, anche se Apollo prefigura la salvezza finale della donna.

2016-05-14 19.14.25Si è giunti al giorno in cui deve compiersi il destino di morte. Dal palazzo (bella e lineare la scenografia, accompagnata da un tappeto di 1.400 papaveri rossi, il fiore dell’oblio) esce un’ancella (Ludovica Modugno) per raccontare al coro di uomini di Fere (sorti redivivi da sotto il telo di morte che ha coperto la processione funebre iniziale) la preparazione di Alcesti ad abbandonare la vita. Con una trovata scenicamente molto efficace, il tendaggio del palazzo viene sollevato e gli spettatori hanno modo di vedere all’interno la rappresentazione di Alcesti (Galatea Ranzi) che compie gli atti narrati dall’ancella: purificazione rituale, preghiera a Estia, compianto della propria sorte sul letto coniugale. Segue la scena straziante della morte di Alcesti in scena, davanti ad Admeto (Danilo Nigrelli), ai due figli, all’ancella, al coro (e agli spettatori): si fa però promettere da Admeto (che accetta), che egli mai si risposerà per non dare una matrigna ai figli di primo letto, che rischierebbero di essere maltrattati.

L’incipiente cordoglio funebre del coro dei cittadini di Fere (e nel palazzo di una schiera di donne) viene interrotto dall’arrivo di Eracle (Stefano Santospago), che sta recandosi a compiere una delle sue fatiche, la cattura delle cavalle di Diomede in Tracia. La banda che accompagna Eracle con una musica festosa indica un netto cambiamento di clima: Admeto, per non tradire il legame di amicizia e il dovere di ospitalità, nasconde la verità e dichiara che il lutto è per una donna morta in casa sua, ma non la moglie, e convince Eracle ad accomodarsi nel palazzo.

2016-05-14 20.00.08-2L’entrata in scena del padre di Admeto, Ferete (Paolo Graziosi) che vuole onorare la nuora morta, genera un violento scontro con il figlio, che gli rinfaccia di non aver voluto sacrificarsi dopo una vita lunga e felice. Ma Admeto deve fare i conti con la realtà: il padre lo rintuzza mettendolo di fronte al fatto che nessuno (nemmeno i genitori) ha il dovere di morire al posto di un altro, e che egli – Admeto – è in fondo il vero responsabile della morte di Alcesti, del cui destino la famiglia di lei potrebbe chiedergli conto. Il corteo funebre (coro e ancelle di casa) si avvia poi a seppellire Alcesti, mentre sulla scena un servo (Sergio Mancinelli) racconta le indecenti gozzoviglie di Eracle nella casa in lutto, ancora una volta efficacemente mostrate sulla scena sollevando il tendaggio del palazzo. Nel dialogo con il servo (inutilmente caratterizzato in senso omosessuale) Eracle finalmente scopre chi è la donna per cui c’era lutto e se ne va per cercare di recuperarla.

Admeto, rientrato dal funerale, sembra ormai consapevole («ora capisco») che non solo ha perso la moglie, ma che il giudizio di contemporanei (e posteri) lo biasimerà, ed egli raccoglierà solo disprezzo: gli verrà rinfacciato di non aver avuto «il coraggio di morire», mentre Alcesti risulterà un’eroina. Mentre il coro (ben guidato dai corifei Sergio Basile e Mauro Marino) cerca invano di consolare Admeto, rientra Eracle spingendo un piccolo carretto, inizialmente coperto da un telo: togliendolo, appare una donna che – spiega l’eroe – egli stesso ha vinto quale premio in una competizione molto faticosa. Eracle si lamenta di non essere stato avvisato della reale portata della sciagura che aveva colpito Admeto, e cerca di convincere il re a portarla in casa, ma questi – tenendo fede alle promesse fatte alla moglie – vuole rifiutare, evitando persino di guardare con attenzione la figura femminile che gli sta vicino. Quando alla fine riconosce che la donna (muta perché ancora sotto l’effetto degli dei inferi) è Alcesti, la riconduce in casa come con un nuovo ingresso nuziale. Nel lasciare la scena Eracle impugna la croce della processione funebre che aveva aperto la rappresentazione e la scaraventa lontano come un oggetto senza senso. Se – circolarmente – questo gesto riporta alla scena iniziale dello spettacolo, ancora una volta non se ne comprende il significato: la distanza tra fede cristiana e politeismo greco sul tema della morte (e della risurrezione) è già evidente nelle reazioni al discorso di Paolo all’Areopago di Atene (At 17,32) e difficilmente colmabile da un personaggio come l’Eracle delle 12 mitiche fatiche. Inutile quindi – come fa il regista Lievi nella volume di presentazione degli spettacolo – sottolineare il «nessun rimedio al nulla se non la speranza di un ricordo» della concezione greca, quando Euripide ha sollevato altri problemi.

Come ha efficacemente esposto Anna Beltrametti, docente di Letteratura greca all’Università di Pavia, alla conferenza di “ScenAntica” (lo scorso 22 aprile a Pavia) riferendo le conclusioni di un suo studio in corso di pubblicazione, tema principale dell’Alcesti di Euripide è quello del rapporto tra patti sociali (le nozze, l’ospitalità) e legami di sangue, collocato nel racconto mitico della sostituzione nella morte di una persona giovane, cui si rende disponibile solo il coniuge, che viene poi con qualche “miracolo” salvato. Morire al posto di un altro è un motivo narrativo diffuso sin dall’antichità, che Albin Lesky analizzava in uno studio giovanile (Alkestis, der Mythus und das Drama, del 1925) individuandone la diffusione nell’area germanico-russo-baltica, dove in genere trova la morte il marito, e nell’area turco-armena e tessalica (greca), dove muore la moglie. La novità di Euripide – sottolinea Maria Pia Pattoni, traduttrice del testo rappresentato a Siracusa – è mettere una distanza di anni tra la decisione di sacrificarsi in favore dello sposo e la sua effettiva realizzazione. Il che aggiunge pathos tragico a tutta la vita dei protagonisti.

La rottura delle convenzioni sceniche da parte di Euripide, ha spiegato Anna Beltrametti, risulta evidente in alcune scene: la tradizionale preparazione del cadavere avviene prima della morte nei gesti che Alcesti compie in casa; nel dialogo tra Admeto e Alcesti l’eroina rivendica in modo assoluto ed eccessivo un proprio valore superiore a quello di qualunque altra donna e – nello stesso tempo – mai Admeto viene sfiorato dall’idea di rinunciare all’oblazione di sé da parte della moglie e affrontare il suo destino.

2016-05-14 20.23.25Fino alla scena finale con il «mancato» riconoscimento, in cui un Admeto spaesato e straniato stenta a riconoscere la propria moglie nella donna muta che Eracle gli porge. Si tratta di una scena in cui Alcesti viene quasi sempre presentata coperta da un velo da una tradizione che nasce addirittura con l’argomento di Dicearco e con gli scoli antichi: un particolare però che non si trova nel testo di Euripide, e quindi decisamente contestato da Anna Beltrametti. Proprio il senso di «fuga dalla realtà» di Admeto che non «vede» la moglie perché non riesce a immaginare che possa essere tornata dai morti, conferma il fatto che Alcesti non potesse essere velata. Opportunamente la rappresentazione siracusana presenta Alcesti a capo scoperto, statica e terrea in volto: Admeto cerca di non guardarla se non di sfuggita, non la riconosce se non quando viene quasi obbligato da Eracle a prendersene cura. Molti quindi i pregi dello spettacolo in scena al teatro greco di Siracusa, poco comprensibili alcune scelte fuori contesto rispetto alla complessità del dramma euripideo.