Malattie rare, non c’è tempo da perdere

Tra le priorità che attendono il ministero della Salute, ci sono “atti dovuti” per il completamento di norme già approvate. Tra queste, i decreti attuativi della legge sulle malattie rare: l’ultimo lascito del precedente governo è la nomina del Comitato nazionale, che ora dovrà cominciare i suoi lavori. Su questo tema, gli auspici delle associazioni nel mio articolo, pubblicato su Avvenire lo scorso 20 ottobre, nelle pagine della sezione è vita.

Sul rettilineo di arrivo della scorsa legislatura, il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, ha firmato il decreto che istituisce il Comitato nazionale per le malattie rare (CoNaMR), un provvedimento tra quelli previsti dalla legge 175/2021 e atteso dalle associazioni dei pazienti e da tutto il mondo scientifico e istituzionale che lavora per trovare soluzioni terapeutiche e dare sostegni adeguati ai malati rari. «Ci auguriamo – esordisce Annalisa Scopinaro, presidente di Uniamo, la Federazione italiana malattie rare – che, non appena formato il nuovo governo, il Comitato possa procedere speditamente, perché il lavoro che lo attende è tanto». «Finalmente – commenta Ilaria Ciancaleoni Bartoli, presidente dell’Osservatorio malattie rare (Omar) – si potranno portare avanti i tanti capitoli ancora aperti. Ci auguriamo che nel nuovo governo venga data presto a un sottosegretario del ministero della Salute la delega alle malattie rare, auspicabilmente una persona che abbia la volontà e la competenza di occuparsi di questo tema».

Secondo quanto previsto dalla legge 175, il Comitato avrà «funzioni di indirizzo e coordinamento, definendo le linee strategiche delle politiche nazionali e regionali in materia di malattie rare». Sarà composto da 27 persone: innanzi tutto il responsabile del Centro nazionale malattie rare dell’Istituto superiore di sanità (Iss), da nominare a breve dopo la lunga direzione di Domenica Taruscio, e il coordinatore interregionale per le malattie rare della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome (attualmente Paola Facchin). Poi sei esponenti delle direzioni del ministero della Salute, due del ministero del Lavoro e dell’Università, uno della Conferenza delle Regioni, uno dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), uno dell’Agenzia italiana per i servizi sanitari regionali (Agenas), uno dell’Inps, due della Consulta delle professioni sanitarie, quattro di società scientifiche (Sigu, Simg, Fiarped, Fism), uno della Rete di riferimento europea delle malattie rare (il network degli oltre 300 centri clinici italiani dedicati a una patologia rara, presenti in 63 ospedali), uno della conferenza dei rettori (Crui), uno di Fondazione Telethon, due delle associazioni dei pazienti (Uniamo per l’Italia, Eurordis per l’Europa), uno della testata giornalistica Omar. Poiché a coordinare i lavori – e a convocare le sedute del Comitato – sarà il capo della segreteria tecnica del ministro della Salute, è evidente che ormai si attende la formazione del nuovo governo per dare vita al Comitato stesso. E tutti gli enti coinvolti dovranno nominare i loro rappresentanti. «Ci auguriamo che lo facciano presto – puntualizza Ilaria Ciancaleoni Bartoli – perché è importante essere pronti subito. C’è tanto lavoro da fare». Un punto su cui concorda Annalisa Scopinaro: «Far parte del comitato non è un titolo onorifico. C’è molto da fare oltre alle riunioni, ci sono documenti da studiare e da produrre per rendere pienamente operativa la legge 175 sulle malattie rare». Anche se una parte importante è già delineata: «Il nuovo Piano nazionale delle malattie rare è ormai pronto – continua Scopinaro – e sostituisce l’ultimo che copriva gli anni 2013-2016. È stato preparato dal Tavolo tecnico – istituito dal ministro Roberto Speranza –, che ha concluso i suoi lavori nel maggio scorso, dopo tre anni di confronti e oltre 50 riunioni. Il Piano è già stato approvato dal Tavolo interregionale per le malattie rare della Conferenza delle Regioni».

«Tra i primi compiti del nuovo governo – ricorda Ilaria Ciancaleoni Bartoli – c’è quello di completare i decreti attuativi previsti dalla legge 175: in particolare quello che aggiorna l’elenco delle malattie rare, quello che istituisce il fondo per le famiglie, che andrà rifinanziato, e quello che stabilisce i crediti di imposta per la ricerca sulle malattie rare». Le questioni che più stanno a cuore alle associazioni dei pazienti sono molto pratiche: «Abbiamo bisogno – sottolinea Scopinaro – che venga garantito, come prevede la legge, che i farmaci approvati dall’Aifa a livello nazionale entrino nei prontuari farmaceutici regionali in tempi uniformi, evitando quindi differenze tra Regioni che si traducano in disuguaglianze per i pazienti a seconda della loro residenza». Quel che pare importante, sottolinea Scopinaro, è che «tutti coloro che faranno parte del Comitato abbiano la volontà di avviare un circolo virtuoso, creare un affiatamento. A questo scopo, visto che le riunioni sono previste in videoconferenza, mi auguro che almeno la prima, per conoscersi, si svolga in presenza». «Sarebbe anche auspicabile che venissero coinvolte al ministero anche persone che hanno mostrato grande sensibilità per le malattie rare – aggiunge Ilaria Ciancaleoni Bartoli –. Penso per esempio alla senatrice Paola Binetti, che nella scorsa legislatura si è spesa con competenza e passione su questo tema».

Un altro aspetto cruciale, che trascende (ma comprende) il mondo delle malattie rare, è quello dell’aggiornamento dei Livelli essenziali di assistenza (Lea). «Sono tuttora bloccati in Conferenza Stato-Regioni – lamenta Ilaria Ciancaleoni Bartoli – ma sono importantissimi per aggiornare e inserire trattamenti che non sono previsti nei Lea vigenti. Tra questi anche gli screening neonatali, che finora sono garantiti per poche malattie, ma che esistono per altre patologie come la Sma: e la diagnosi precoce può garantire un trattamento efficace che è ora disponibile». «L’aggiornamento dei Lea – conclude Scopinaro – diventa anche una questione di giustizia. Finora alcune novità terapeutiche o presidi importanti sono stati garantiti extra Lea solo da alcune Regioni, non coinvolte dai piani di rientro. E questo crea disuguaglianze».

«Vaccini anti Covid-19, servono programmi di sorveglianza attiva»

A febbraio l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha presentato il Rapporto annuale sulla sicurezza dei vaccini contro il Covid-19: 27/12/2020-26/12/2021. «Un’occasione persa», secondo Maurizio Bonati, direttore del dipartimento di Salute pubblica dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”, nonché componente del Comitato scientifico per la Sorveglianza Post-marketing dei vaccini Covid-19. E spiega che migliorare le indagini di vaccinovigilanza serve anche a creare «una partecipazione condivisa, razionale e responsabile alle attività di salute pubblica». Alla mia intervista, che è stata pubblicata giovedì 17 marzo su Avvenire, nella sezione è vita, premetto la spiegazione della gestione del Rapporto stesso, comparsa sulla stessa pagina.

Al Rapporto annuale sulla sicurezza dei vaccini Covid 19 non ha contribuito il Comitato scientifico per la sorveglianza dei vaccini (Csv) Covid-19, istituito il 14 dicembre 2020 dall’Aifa «in accordo con il ministero della Salute e il Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19». La motivazione, riferisce Aifa, è che «il Comitato Sorveglianza Vaccini non si è più riunito dopo l’estate perché ha progressivamente esaurito il suo ruolo. È stato molto attivo nel primo semestre nel supportare la Cts (Commissione tecnico-scientifica di Aifa) per alcune decisioni e nella farmacovigilanza ha visto coinvolti individualmente alcuni degli esperti. Inoltre era in corso di nomina il nuovo Nitag (National immunization technical advisory group, Gruppo tecnico consultivo nazionale sulle vaccinazioni, ndr), che ha avuto lunghi tempi per l’insediamento». Il Csv Covid-19 «rimarrà in carica per due anni – scriveva Aifa nel 2020 – e potrà essere rinnovato in base all’evoluzione della pandemia e all’andamento della campagna vaccinale Covid-19». È composto da 14 «esperti indipendenti » (tra cui presidente e direttore generale Aifa), con sette osservatori di istituzioni nazionali e regionali. L’obiettivo: «Coordinare le attività di farmacovigilanza e collaborare al piano vaccinale relativo all’epidemia Covid-19, svolgendo una funzione strategica di supporto scientifico all’Aifa, al ministero della Salute e al Ssn». All’insediamento del Csv il direttore generale dell’Aifa, Nicola Magrini, lo definiva «un punto di riferimento per il Ssn per garantire una sorveglianza attiva sulla sicurezza di tutti i vaccini Covid-19». Il Csv ha contribuito ai primi nove rapporti mensili presentati dal 26 gennaio 2021 al 26 settembre 2021.

«Dal Rapporto annuale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) sui vaccini contro il Covid- 19 si ricava poco, è un po’ un’occasione persa. Conferma i dati attesi secondo quanto emerge dai dossier sui trial effettuati dai produttori per ottenere l’autorizzazione dagli enti regolatori (Food and Drug Administration – Fda, European medicines Agency -Ema). Ma non aggiunge nessuna ricerca di farmacovigilanza attiva, nemmeno per seguire le coorti di pazienti che presentano qualche profilo di rischio».

Maurizio Bonati, direttore del Dipartimento di Salute pubblica dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, e componente del Comitato scientifico per la Sorveglianza Post-marketing dei vaccini Covid-19 (che però non ha lavorato a questo documento), osserva: «Posto che il rapporto rischio-beneficio dei vaccini contro il Covid-19 è ampiamente a favore del beneficio, questo documento, anche per le modalità di comunicazione adottate, contribuisce poco a informare i cittadini, in particolare gli “esitanti”. L’educazione sanitaria della popolazione è il fine principale mancato di questa pandemia».

Che cosa si ricava dal Rapporto annuale di vaccinovigilanza di Aifa?

Il Rapporto conferma quanto riportato in letteratura o da altre Agenzie regolatorie: è importante, ma non sufficiente. L’analisi fatta si basa sulle segnalazioni spontanee dei cittadini (farmacovigilanza passiva). Le segnalazioni sono state tante, più che per altre vaccinazioni, ma attese sia per il tipo di evento avverso segnalato che per le preoccupazioni e i timori che hanno accompagnato la scelta dei vaccini e la campagna vaccinale. Per creare consenso e partecipazione informati non è quindi sufficiente limitarsi a comunicare che non ci sono problemi particolari perché la proporzione di segnalazioni di sintomi è analoga a quella che, durante i trial, emergeva da coloro che avevano ricevuto un placebo e non il vaccino, il cosiddetto “effetto nocebo”. Tutt’altra efficacia e appropriatezza sarebbe accompagnare le valutazioni della sorveglianza passiva con quelle di sorveglianza attiva, una misura con la quale l’operatore di sanità pubblica provvede a contattare quotidianamente un campione di vaccinati per avere notizie sulle condizioni di salute.

Spicca il fatto che, mentre la mortalità per Covid-19 sin dall’inizio della pandemia resta fissa a 80 anni, le segnalazioni di effetti collaterali dei vaccini sono molto più numerose tra le età più giovanili. C’è una spiegazione?

Anche per la variabile età l’analisi delle reazioni avverse dopo la vaccinazione contro il Covid-19 necessita di confronti con le segnalazioni ricevute dopo altre vaccinazioni, sebbene la classe 17-55 anni di cittadini sani è scarsamente rappresentata perché non è target di altre vaccinazioni. Analoghe considerazioni andrebbero fatte per alcune reazioni avverse gravi, come per le pericarditi e le miocarditi segnalate in particolare nei giovani. Le validazioni delle segnalazioni vanno fatte rapidamente e rapportate alla frequenza della malattia insorta prima della campagna vaccinale, così come in cittadini vaccinati e non vaccinati. È un’attività che richiede un sistema preparato ed efficiente che non può essere adeguatamente organizzato in corso di epidemia ma prima. Anche questo serve per un’adesione partecipata, al successo di una campagna vaccinale e ai tempi per raggiungerlo.

È stata fatta una vaccinovigilanza passiva, aspettando le segnalazioni, e non attiva, cercandole. Che cosa comporta?

Quantificare i rischi implica definire quali costi la collettività e il singolo accetta di pagare. Quindi non basta la segnalazione spontanea, soggettiva del sintomo, ma il tipo, la gravità, il costo diretto e indiretto (sanitario ed economico) della reazione avversa che la somministrazione del vaccino ha indotto a breve e a distanza di tempo. Ecco, tutto questo è possibile solo con un monitoraggio sistematico e continuo nel tempo: con una vaccinovigilanza attiva.

Per il futuro, come si dovrebbe proseguire l’attività di vaccinovigilanza per il Covid-19?

In un Paese con un alto grado di analfabetismo sanitario occorre costruire un rapporto di fiducia con un’informazione chiara. Spiegare perché è necessaria una copertura del 95% della popolazione, specie in una condizione di limitate conoscenze, non è facile, ma è controproducente non farlo. Spiegare bene che il vaccino avrebbe protetto dalla malattia grave e forse non dal contagio, che nessun vaccino protegge tutti i vaccinati, che forse sarebbero stati necessari dei richiami: ecco sono tutte iniziative attive in un percorso collettivo di vigilanza, di contrasto alla pandemia. Uno dei problemi di questo virus – che si conosceva solo in parte – è il “long Covid”, problema che si potrà risolvere solo con il tempo e con un’attenta sorveglianza dei guariti, in particolare di quelli che hanno contratto l’infezione in modo grave. Dobbiamo cercare di costruire sempre un rapporto di fiducia nella popolazione, anche in vista di future infezioni e nuovi vaccini, che consenta una partecipazione condivisa, razionale e responsabile alle attività di salute pubblica.

Come mai il Comitato scientifico per la Sorveglianza Post-marketing dei vaccini Covid-19, istituito nel dicembre 2020 per una durata di due anni, non compare in questo Rapporto?

Il nostro Comitato ha chiuso i lavori, di fatto, con il Rapporto mensile di fine settembre, prima che venisse trasformato in trimestrale. Non siamo più consultati da tempo.

Trapianti, Cardillo: pronto un Piano nazionale per le donazioni

Massimo Cardillo è da pochi giorni il nuovo direttore generale del Centro nazionale trapianti (Cnt). La mia intervista – la prima del neo direttore – è stata pubblicata giovedì su Avvenire, nelle pagine della sezione è vita. Una sintesi appare online anche sul sito del Cnt.

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L’Istituto superiore di sanità, sede del Centro nazionale trapianti

Informazione ai cittadini, formazione degli operatori sanitari, miglioramento dei processi di segnalazione dei po­tenziali donatori di organi e lo­ro effettivo utilizzo. Sono alcu­ne delle più rilevanti aree su cui interviene il Piano nazionale della donazione di organi, che il nuovo direttore generale del Centro nazionale trapianti (Cnt) si augura possa essere in­serito nel prossimo Patto per la salute. Dopo vent’anni di dire­zione di Alessandro Nanni Co­sta, da dieci giorni infatti alla guida del Cnt – nominato dal ministro della Salute, Giulia Grillo – c’è Massimo Cardillo, e­matologo di formazione, ma dal 1992 dedito all’attività organiz­zativa e alla valutazione immu­nologica per i trapianti: e in qualità di presidente del Nord I­talia Transplant (Nitp) – la pri­ma e maggiore rete sovraregio­nale per la gestione delle attività di donazione e trapianti – faceva già parte della Consulta tecnica del Cnt.

Il bilancio 2018 del Cnt offre un quadro positivo delle attività, ma basta il progressivo calo delle liste d’attesa?

La diminuzione delle liste d’at­tesa è solo uno dei parametri per valutare la qualità. Infatti sono costituite dai pazienti che i centri considerano candidati al trapianto anche in ragione della quantità di organi che ci si aspetta di poter utilizzare. La li­sta d’attesa dà una misura del soddisfacimento del fabbiso­gno di trapianto, però non è u­na misura assoluta, perché più migliorano i risultati dei tra­pianti e più è alto il numero di pazienti che chiede di avere ac­cesso a questa terapia. Se e­stendessimo le indicazioni per il trapianto ad altre patologie potremmo andare incontro a un aumento delle liste d’attesa, ma se ci fosse un aumento cor­rispondente dei donatori uti­lizzati, si potrebbe definire un miglioramento complessivo.

Come si valutano qualità ed ef­ficacia del sistema trapianti?

Da tempo il Cnt ha realizzato un registro con i dati dei risul­tati dei trapianti nei diversi centri: sopravvivenza dei pa­zienti e degli organi. Il con­fronto con l’estero ci fa dire che la qualità dei trapianti in Italia è eccellente. Ma ogni valuta­zione deve guardare anche a quale sarebbe il destino dei pa­zienti se non potessero acce­dere al trapianto: la mortalità in lista d’attesa è più alta rispetto a quella dopo il trapianto. È ve­ro che la sopravvivenza dopo trapianto non è il 100%, ma sia­mo su percentuali davvero al­te, in alcuni casi superiori all’80% a 10 anni. Per non par­lare della qualità della vita di chi, senza trapianto, deve sot­toporsi per la sua malattia a cu­re gravose, come la dialisi.

Quali sono i principali nodi da sciogliere?

Dobbiamo fare in modo che tutti i potenziali donatori negli ospedali vengano segnalati e u­tilizzati, perché oggi i tassi di do­nazione sono soddisfacenti in alcune regioni ma non in tutte: c’è ancora divario tra le regioni del Nord e quelle del Sud, che va colmato. Bisogna incardinare la donazione all’interno dei per­corsi consolidati dell’ospedale: la segnalazione di un potenzia­le donatore non deve essere le­gata soltanto alla buona volontà dei professionisti ma seguire procedure consolidate e strut­turate. Esistono figure di riferi­mento per la donazione, sia ne­gli ospedali sia nei coordina­menti regionali, ma spesso que­ste strutture non sono messe in grado di operare con risorse a­deguate. Per tutti questi motivi il Cnt ha elaborato – insieme al­la Consulta nazionale trapian­ti e al Ministero – un Piano na­zionale per le donazioni, che è stato già approvato dalla Conferenza Stato-Regioni, augu­randoci di vederlo inserito nel rinnovato Patto per la salute, che parte quest’anno.

In cosa consiste?

È un documento tecnico, che prevede una serie di misure da applicare con le Regioni per strutturare meglio la donazione in ospe­dale e che suggerisce interven­ti su alcune criticità del sistema trapianti. Ci sono proposte an­che su formazione degli opera­tori e informazione ai cittadini. Infatti dobbiamo fare fronte a un ricambio generazionale dei chirughi dei trapianti: hanno smesso molti di quelli che avevano iniziato tanti anni fa. Bisogna coltivare una generazione di nuovi chirurghi del trapianto: sono professionisti dedicati in­teramente a questa attività, de­vono avere una formazione a­deguata sin dall’università (che per ora non prevede percorsi specifici) e avere anche possi­bilità di carriera e riconosci­menti tali da rendere l’attività trapiantologica una prospettiva sempre più stimolante.

E la comunicazione?

Qui ci sono spazi per un miglio­ramento perché oggi ci sono an­cora tassi di opposizione alla do­nazione alti in alcune Regioni. Se noi riuscissimo a migliorare la conoscenza dei cittadini sul­l’importanza della donazione, sull’utilità dei trapianti, sul fatto che il sistema funziona con tra­sparenza ed efficacia e sul ritor­no positivo che la donazione produce anche nella famiglia che dà il suo consenso, questi tassi di opposizione potrebbero calare. Infine dobbiamo dare piena attuazione alla legge 91/99 che dà la possibilità al cittadino di effettuare la scelta di donare i propri organi: molto è stato fat­to su questo, ma molti ancora non sanno come fare. 

Dopo il coma, i progressi di scienza e cure per persone disabili da tutelare

Le acquisizioni scientifiche e assistenziali e le richieste delle famiglie di pazienti usciti dal coma presentati al convegno del Centro ricerche sul coma, attivo da dieci anni all’Istituto neurologico Besta di Milano. Il mio articolo uscito oggi sulle pagine di Avvenire

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L’Istituto neurologico Besta di Milano

La ricerca della cura e dell’assi­stenza migliore alle persone con gravi disturbi della coscienza, l’a­scolto e il sostegno a famiglie catapul­tate in situazioni inedite e misteriose, e oggettivamente difficilissime. Ma anche la richiesta di percorsi meno condizio­nati da prescrizioni burocratiche che non rispettano la varietà e l’evolversi delle condizioni cliniche, spesso im­prevedibili in chi è vittima di traumi cra­nici o ischemie cerebrali. Sono i temi af­frontati ieri al convegno «Il percorso Co­ma to community» all’Irccs neurologi­co “Carlo Besta” di Milano da medici, rappresentanti delle istituzioni e delle associazioni dei familiari riunite nella Rete (presieduta da Gian Pietro Salvi) e nella Fnatc, Federazione nazionale associazioni trauma cranico (guidata da Paolo Fogar).
L’attenzione suscitata dalla tragedia di Eluana Englaro ha permesso dieci anni fa la nascita al Besta del Centro di ricer­ca sul coma (Crc) – ricorda la direttrice Matilde Leonardi – che ha ha dato av­vio a significativi approfondimenti di quella “scienza della coscienza” che sembrava appartenere solo alla filoso­fia. «Abbiamo strumenti molto più raf­finati – puntualizza Leonardi – che per­mettono ora di standardizzare le dia­gnosi evitando quel 40 per cento di er­rate indicazioni di stato vegetativo in­vece che di minima coscienza». Ma an­che sul fronte dell’assistenza «abbiamo imparato a curare meglio i pazienti che nelle lungodegenze vivono meglio, di più e con meno complicanze. Ci sono voluti anni, e la denuncia disperata di u­na madre, per far cambiare l’abitudine di togliere tutti i denti ai pazienti in sta­to vegetativo, un segnale di resa». E og­gi il Besta – il cui direttore scientifico Fa­brizio Tagliavini è presidente della rete degli Irccs di neuroscienze in Italia – è impegnato a fare rete per il progresso delle neuroscienze e della riabilitazione. Una “rete” è quanto chiedono sia le as­sociazioni sia le istituzioni – ieri rap­presentate da Maurizio Bersani, della Direzione generale Welfare di Regione Lombardia – per garantire continuità nell’assistenza. Fulvio de Nigris (diret­tore del Centro studi Ricerche sul coma «Amici di Luca») sottolinea l’importan­za del percorso ripreso tre giorni fa al ministero della Salute con la seconda Consensus conference delle associa­zioni dei familiari: «Dal ministro Giulia Grillo abbiamo avuto un’ipotesi di ria­pertura dei tavoli di lavoro».
Il percorso del paziente parte spesso in
un reparto di Neurorianimazione. Co­me quello che dirige Arturo Chieregato all’ospedale Niguarda di Milano: «Ab­biamo una naturale indole a salvare gli altri – osserva – ma occorre ricordare che i pazienti tolti alla morte spesso di­ventano disabili. Ma qui facciamo vera medicina personalizzata, ci sforziamo di capire quale evoluzione potrà avere il danno biologico». E per ovviare ai pun­ti deboli delle Rianimazioni, suggerisce di migliorare la transizione dal reparto per acuti a quelli di riabilitazione, evi­tando ritardi: «Rianimatori e riabilita­tori di scambino i punti di osservazio­ne: la riabilitazione inizia già nella fase acuta, e il rianimatore non sa che cosa accade poi».
Sandro Feller, presidente della Associa­zione gravi cerebrolesioni acquisite Mi­lano, conferma: «Il vero nodo è il pas­saggio
al territorio, e la riabilitazione va instaurata presto; il ritorno a domicilio deve essere preparato da “uscite di pro­va” ». Le testimonianze di ex pazienti e parenti è quanto mai significativa: c’è chi è riuscito a recuperare dopo il coma un buon grado di autonomia, e chi con­tinua a vedere il proprio congiunto – do­po un incidente stradale – trasferito da un reparto all’altro, avanti e indietro nel percorso riabilitativo, senza riuscire a farsi sentire: «Avevamo la sensazione di essere sempre nel reparto sbagliato».
Per ricerca e assistenza servono anche fondi: «Non devono essere trovati – os­serva Matilde Leonardi – solo grazie al­la morte di una sola persona che viene sbandierata in tv, mentre altre 999 fa­miglie che decidono di far accudire i lo­ro
congiunti vengono ignorate».

Nei farmaci una dose di buonsenso

Un confronto tra il presidente di Farmindustria, il coordinatore degli assessori regionali alla Sanità e il direttore della scuola di economia sanitaria Altems sulle proposte del Documento sulla governance farmaceutica nel mio articolo uscito ieri su Avvenire. Accompagnato da una scheda sul Documento stesso.

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Bilancia da speziale, Milano, Museo della scienza e della tecnologiaLicenza Creative Commons
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Per la tutela della salute i farmaci rappresentano uno strumento molto importante. Ma la qualità scien­tifica deve fare i conti con le e­sigenze del bilancio pubblico, che costringono anche il siste­ma sanitario a cercare di ri­sparmiare. Il recente Docu­mento sulla governance farma­ceutica – proposto dagli esper­ti nominati dal ministro della Salute, Giulia Grillo – evidenzia la necessità di adottare un cri­terio più puntuale per definire il prezzo dei farmaci a carico del Servizio sanitario, per conti­nuare a rendere disponibili le cure a tutti coloro che ne han­no bisogno. In tema di spesa farmaceutica il sistema dei tet­ti fissati per legge e il meccani­smo di pay-back, cioè il rim­borso a carico delle aziende dello sforamento programma­to (adottato nel 2012 dal go­verno Monti), hanno portato a un complesso contenzioso tra Regioni e industrie produttri­ci dal 2013 al 2017. «Il documento recepisce diver­se osservazioni che come Re­gioni avevamo indicato al ministero della Salute già nel giu­gno scorso – spiega Antonio Saitta, assessore alla Sanità del Piemonte e coordinatore della commissione Salute della Con­ferenza delle Regioni – in rela­zione alla necessità di supera­re il contenzioso e per introdurre elementi di concorrenza, con le gare, in un mercato piut­tosto chiuso. Il nostro obiettivo è garantire la sostenibilità del sistema sanitario, continuan­do ad assicurare le cure ai ma­lati che ne hanno bisogno». «Del documento ritengo positivo che si cerchi di semplifica­re il pay-back – osserva Massi­mo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria – anche se mi sembra viceversa una compli­cazione la proposta di rimodu­lare i tetti a livello regionale. Credo che il pay-back debba rappresentare una clausola di salvaguardia, ma si deve tenere conto anche di altri fattori nell’economia complessiva della spesa sanitaria». «La possibilità di dichiarare l’equiva­lenza terapeutica è già nelle competenze dell’Aifa – precisa Americo Cicchetti, docente al­l’Università Cattolica e diretto­re di Altems (Alta scuola di E­conomia e management dei si­stemi sanitari) –. Ora viene pro­posto un ruolo più attivo dell’A­genzia in questa materia, sen­za attendere le sollecitazioni e le richieste delle Regioni».

Sull’equivalenza terapeutica le aziende sono da sempre criti­che: «Credo che debba essere dimostrata scientificamente – puntualizza Scaccabarozzi – nell’interesse non solo dell’in­dustria, ma anche del paziente. Non si può dire che due farma­ci sono uguali perché hanno gli stessi effetti, perché a essere di­versi sono i malati: un farmaco che abbassa la pressione fun­ziona bene su uno e non su un altro. Se non c’è prova scienti­fica si passerebbe dall’oggetti­vità alla soggettività, con un danno per i malati. E se si met­tesse l’industria nelle condizio­ni di non produrre più una se­rie di farmaci – perché estro­messi dal rimborso del Sistema sanitario – si potrebbe genera­re un grave danno economico a un settore che è diventato il primo produttore europeo, quindi con ripercussioni anche sul sistema-Paese». «In Pie­monte, anche in collaborazio­ne con altre Regioni, abbiamo realizzato gare d’appalto per la fornitura dei farmaci cui han­no partecipato molte aziende – riferisce Saitta – e abbiamo ot­tenuto sconti consistenti grazie al meccanismo prezzo/volume: vuol dire che la produzione, do­po l’innovazione, diventa stan­dardizzata e ci sono spazi per ridurre i costi. Il principio del­l’equivalenza terapeutica ha su­perato il vaglio anche dei ricor­si al Tar e al Consiglio di Stato perché abbiamo sempre ga­rantito la libertà di prescrizione: se il medico ritiene che per il suo paziente sia necessario un farmaco specifico, rispetto al­l’equivalente o al biosimilare, lo deve motivare». «La novità a proposito di equivalenza – osserva Cicchetti – è che la pro­posta del documento sulla go­vernanceprevede che sia appli­cata non solo ai farmaci di nuo­va registrazione, ma anche a quelli già in commercio».

«Come Regioni – continua Sait­ta – abbiamo anche un dovere etico, di equità. Ricordo che quando furono introdotti i far­maci contro l’epatite C (inno­vativi e costosi) vennero riser­vati a chi era nelle condizioni cliniche peggiori. Ma all’assessorato bussarono subito i ma­lati che erano prossimi a diven­tare gravissimi: un caso che di­mostra come il nostro intento è di risparmiare per avere le ri­sorse da spendere nelle cure in­novative per tutti». «Il caso del­l’epatite C – sottolinea Scacca­barozzi – è significativo. Come industrie, chiediamo di supe­rare il sistema “a silos” e di en­trare in una logica di sistema: è vero che i farmaci costano di più, ma il sistema sanitario nel complesso ha risparmiato. In­fatti i pazienti, guariti, non van­no più incontro all’iter di cirro­si epatica, carcinoma e tra­pianto di fegato che li attende­va. E lo stesso, dati alla mano, si registra per i tumori: tra il 2005 e il 2015 i farmaci oncologici so­no passati da 21 a 40 euro pro capite, ma il costo complessivo dell’assistenza è sceso da 171 a 156 euro. Su base annua, tra il 2009 e il 2015, sono stati rispar­miati 250-300 milioni. Atten­zione anche a credere di ri­sparmiare molto dalla revisio­ne del Prontuario: al 90 per cen­to si tratta di farmaci con bre­vetto già scaduto». «Resta da ve­dere – conclude Cicchetti – se si giungerà all’adozione di criteri più stringenti da parte di Aifa per legare in maniera più og­gettiva il prezzo di rimborso del farmaco al suo “valore”. Il crite­rio dei Qaly (la sigla inglese per quality adjusted life years, cioè anni di vita pesati per la qualità, ndr) proposto nel documento sulla governance farmaceuti­ca può essere una novità inte­ressante per dare omogeneità alle decisioni del Comitato prezzi dell’Aifa. Infine, se si ge­nerano risparmi con farmaci costosi, si deve avere anche il coraggio di operare in un’otti­ca complessiva di sistema: nel caso dell’epatite C, ridurre le unità ospedaliere o i centri tra­pianti ». Una bella sfida per il servizio sanitario. 

Il Documento: più informazione indipendente e coinvolgimento dei pazienti

Il Documento in materia di governance farmaceutica, pre­sentato al ministero della Salute a dicembre, è stato elabo­rato dal tavolo di esperti indipendenti e tecnici ministeriali i­stituito dal ministro Giulia Grillo. Riconosciuto il ruolo cen­trale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), il documento propone di revisionare il Prontuario farmaceutico e di incre­mentare le analisi per stabilire l’equivalenza terapeutica tra due prodotti medicinali, che determina poi per legge il rim­borso al prezzo più basso. Gli esperti suggeriscono anche di adottare un sistema che misuri in modo più oggettivo l’ef­fettivo valore dei nuovi farmaci immessi sul mercato: un prezzo più alto – scrivono – è giustificato solo da un valore terapeutico aggiunto. Tra gli altri suggerimenti, un tavolo con i rappresentanti delle associazioni dei pazienti, la revisio­ne dei tetti di spesa (con criteri regionali), più informa­zione indipendente sui farmaci, la diffusione dei mec­canismi di acquisto prezzo-volume. 

«Più scienza ed etica nella scelta dei farmaci»

Un richiamo alla necessità di gestire con attenzione, e con scientificità, l’introduzione di nuovi prodotti farmaceutici nel Prontuario rimborsato dal Servizio sanitario nazionale nella mia intervista a Silvio Garattini, presidente dell’Istituto Mario Negri. L’articolo è comparso sulle pagine di Avvenire, nella sezione è vita, di giovedì 6 dicembre

2018-12-13 18.33.43«I farmaci divengano sempre più strumenti di salute e non semplici beni di consumo». L’auspicio di Silvio Garattini, tratto dal suo recente libro Farmaci sicuri. La sperimentazione come cura (scritto con Vittorio Bertelè, edi­to da Edra) non è affatto ovvio se si tiene presente la gran quan­tità di prodotti in Prontuario. Dopo essere stato per decenni direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, Garattini – novant’anni com­piuti da poco – ne presiede ora il consiglio di amministrazione e continua a indicare nella scien­za il criterio-guida per valutare le cure: «Purtroppo nel nostro Paese la scienza non è considerata parte della cultura, e il me­todo scientifico non poco noto».

Tanti farmaci in commercio, ma quanti davvero innovativi?

La legge europea stabilisce che per essere approvato dall’Ema (l’Agenzia europea dei medici­nali) un farmaco deve avere qua­lità, efficacia e sicurezza. Però non sappiamo se è meglio o peg­gio dei farmaci che già esistono, perché non si fanno studi di que­sto genere. Diverso sarebbe se fosse richiesto anche un “valore terapeutico aggiunto”: avrem­mo un farmaco che migliora la terapia. Non ci sono confronti per dire che è meglio usare un anti-ipertensivo piuttosto che un altro. La scelta del medico è lasciata all’informazione, gesti­ta perlopiù dall’industria che promuove i suoi prodotti.

Che fare, se la legge europea ri­chiede queste caratteristiche?

L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha due funzioni: se un farmaco è stato approvato dall’Ema e l’in­dustria fa la domanda in Italia, l’ente nazionale lo fa mettere in commercio, e chi vuole se lo pa­ga. Ma la seconda funzione è scegliere, tra i farmaci approva­ti dall’Ema, quali siano da rim­borsare da parte del Servizio sa­nitario nazionale. Qui l’Aifa po­trebbe usare il criterio del “valo­re terapeutico aggiunto”. Oggi abbiamo più di mille farmaci in Prontuario e spendiamo sempre di più: circa 22 miliar­di in un anno, il 20% del fondo sanitario nazionale. Nel 1993 – quando alla Commissione u­nica del farmaco (Cuf) facem­mo una revisione sistematica del Prontuario – la spesa per farmaci era di circa 9 miliardi. E nel 2004, un decreto fece pa­gare ad aziende e Regioni lo sforamento della spesa prevista, che era il 13% del fondo sani­tario. Di recente il ministro del­la Salute Giulia Grillo si è posta il problema della governance farmaceutica, e mi ha coinvolto in un tavolo tecnico incari­cato di stendere linee guida.

Le aziende fanno pesare i costi per gli investimenti e il valore di attività con personale qualifi­cato. Non vanno garantite?

Sì, ma la salute è un bene pri­mario e quindi deve essere pro­tetta dallo Stato nei confronti del mercato. Il Servizio sanitario de­ve accogliere solo ciò che serve veramente per i pazienti. Se prevalesse la richiesta del valo­re terapeutico aggiunto, ver­rebbero approvati meno far­maci. Ma non sarebbe del tut­to negativo neanche per l’in­dustria: i suoi prodotti, prima di essere superati, avrebbero u­na vita più lunga. E i sistemi sa­nitari nazionali offrono un mercato garantito: quasi nes­suno potrebbe comperare mol­ti farmaci ai prezzi attuali.

Nel suo libro lei indica come priorità malattie rare, oncolo­gia e politerapia. Perché?

L’industria fa qualcosa, ma non può occuparsi solo delle mal­attie rare perché i ritorni eco­nomici sono molto bassi. Po­trebbe trovare spazio un’im­prenditoria senza scopo di lucro, favorita dallo Stato. Sul­l’oncologia c’è bisogno di met­tere ordine: tra i tanti prodotti resi disponibili, occorre più ri­cerca indipendente. Sulla poli­terapia non esistono studi, ma la popolazione anziana che as­sume più di un farmaco è in au­mento, e le interazioni richie­dono di essere studiate.

I tumori inducono spesso i pa­zienti a fidarsi di terapie non convalidate. Come ovviare?

Occorre fidarsi di più del meto­do scientifico, frutto di un lun­go percorso. Negli anni Cinquanta per approvare un far­maco bastavano 5 ricette di pri­mari ospedalieri che indicava­no che era attivo e non tossico. Oggi servono sperimentazioni, dai trial preclinici a quelli sul­l’animale, prima di passare all’uomo: un percorso serio, an­che dal punto di vista etico. Se si sperimenta su uomini tra i 18 e i 50 anni ci saranno pochi effet­ti collaterali, ma se poi il farma­co verrà usato da chi ha più di 65 anni non si sa cosa succederà. Altri problemi pongono la scar­sa disponibilità dei dati e la pos­sibilità di ricerche indipendenti dall’industria per i farmaci sot­toposti all’Ema.

Dai vaccini a Stamina, perché i dati scientifici sono spesso ignorati?

In Italia prevale la cultura uma­nistica: se si sbaglia su Virgilio si è messi alla berlina, ma se si confondono atomi con moleco­le nessuno fa una piega. E si pre­sta fede a chiunque faccia pro­messe, senza chiedergli conto della fondatezza delle sue teo­rie. Manca – sin dalla scuola – la conoscenza dei fondamenti del­la cultura scientifica. Ma se de­vo decidere se vaccinarmi lo posso chiedere solo alla scien­za: un’attività umana con i suoi errori, che però ha in sé una grande capacità di correggerli, perché non va avanti se non è riproducibile.

Di seguito il mio articolo dedicato alle conclusioni del Tavolo di esperti sulla governance farmaceutica pubblicato ieri, giovedì 13, ancora nella sezione è vita di Avvenire

Farmaci, nuovo Prontuario per offrire il meglio

Un documento per avviare la riorganizzazio­ne dell’intero sistema che governa il farma­co nel nostro Paese, partendo da una revi­sione del Prontuario farmaceutico, è stato presenta­to lunedì 10 dal ministro della Salute, Giulia Grillo. O­biettivi sono da un lato ridurre eventuali sprechi di ri­sorse, dall’altro poter offrire al cittadino i prodotti più innovativi (e costosi) purché presentino un vantaggio terapeutico rispetto a quelli già in commercio. Il testo è stato elaborato dal “Tavolo tecnico di lavoro sui far­maci e i dispositivi medici” istituito lo scorso 30 luglio con il compito di migliorare la governance farma­ceutica, di cui aveva dato qualche indicazione uno dei componenti del Tavolo stesso, il farmacologo Silvio Garattini, nell’intervista pub­blicata su queste pagine la scorsa settimana.

Riconosciuto il ruolo cen­trale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), il documento propone in primo luogo una revisione del Prontua­rio terapeutico, che verifichi le differenze di prezzo tra farmaci terapeuticamente equivalenti e la possibilità di una maggiore erogazione in distribuzione diretta da par­te degli ospedali. Sempre al­l’Aifa si chiede di intensifi­care l’informazione ai cittadini sia sui farmaci e­quivalenti, sia sui biosimilari, e incentivare il dialo­go con le Regioni, che nell’assetto normativo attuale sono incaricate di gestire l’intero sistema sanitario. «Il documento sarà oggetto di confronto con tutti i protagonisti del settore – ha detto il ministro – non solo con le aziende, ma anche con i rappresentan­ti dei cittadini e delle associazioni dei pazienti, per­ché lo spirito di questo lavoro è di costruzione di un nuovo sistema di regole per restituire ai farmaci la loro missione essenziale». E ha aggiunto che «con la riorganizzazione della governance farmaceutica si potrebbero risparmiare fino a due miliardi». Pri­me reazioni preoccupate delle aziende, rappresen­tate da Farmindustria e Assogenerici (ieri anche dai sindacati di settore), che pur disponibili al confronto, chiedono però che i ragionamenti vengano con­dotti su un piano di scientificità e non di mera tendenza al ribasso dei prezzi. 

La piaga dell’azzardo e il risparmio delle famiglie

precipizio

Lo scorso 31 ottobre è stata celebrata la giornata mondiale del risparmio. Mi aspettavo forse un po’ di risalto in più, ma può darsi che mi sia sfuggito. Quello che non dovrebbe sfuggire a nessuno è che c’è un segnale negativo che mostra una preoccupante tendenza al rialzo: sono le somme che gli italiani destinano al gioco d’azzardo, nelle mille forme che sono state permesse (e quindi incoraggiate) dai governi del nostro Paese negli ultimi vent’anni. Pochi mesi fa su MilanoAmbiente (n. 2/2018, pag. 15, «L’algoritmo del gioco») il docente universitario Marco Dotti, che è tra i fondatori del movimento “No slot”, elencava i passi compiuti verso la progressiva apertura a forme sempre più ampie di gioco: dai primi incrementi alle estrazioni di Lotto e Superenalotto del governo di Romano Prodi nel 1997, fino alle slot machine online autorizzate dal governo di Mario Monti, passando i numerosi provvedimenti degli esecutivi guidati da Silvio Berlusconi, che nel 2003 ha dato il via libera alle slot machine nei bar, il vero punto di svolta, secondo Dotti. E si giunge al 2017, quando è stata sfiorata la cifra di 102 miliardi di euro spesi dagli italiani in varie forme di “gioco” legale (erano meno di 35 nel 2006): non certo un tipo di investimento o un risparmio. Per lo meno un controsenso, se altre rilevazioni indicano che crescono le famiglie che lottano contro la povertà.
La situazione mi è sembrata rappresentata in modo semplice, ma efficace, da una scena a cui ho assistito verso la fine di ottobre in un bar di Milano. Mentre ordinavo un caffè, una signora sulla quarantina ha comprato un “gratta e vinci” da 5 euro: nel tempo che io ho impiegato a berlo, lei si è seduta a un tavolino e ha scoperto i numeri del suo tagliando. Non ha vinto nulla, ma prima di uscire, scuotendo la testa («Pazzesco» mormorava), ha salutato il negoziante e gli ha detto: «Ci vediamo il mese prossimo». E subito dopo spiegava il motivo della sua delusione: «Non è possibile: oggi ho speso cento euro e non ho vinto nulla, è incredibile». Dal tono delle sue parole e dal suo atteggiamento era chiaro che riteneva ingiustificabile la mancata vincita. A me pareva incredibile che una persona potesse spendere cento euro in quel modo: cinque euro alla volta richiedono venti tagliandi (non so se acquistati tutti nella stessa rivendita), ci vuole comunque un po’ di tempo tra l’acquisto e la “consumazione”. Ma si è fermata solo quando ha esaurito il suo “budget”: a quel punto doveva aspettare il mese successivo, verosimilmente dopo aver incassato lo stipendio. Mi pare evidente che qui non siamo più in quell’ambito di piccole giocate, come per decenni in molti hanno fatto al Totocalcio, quando due colonne alla settimana costavano più o meno l’equivalente di un caffè (tuttavia anche allora c’era chi spendeva molto di più).

A metà ottobre sono stati resi noti i principali risultati della prima indagine epidemiologica compiuta dall’Istituto superiore di sanità per tracciare un profilo dei “giocatori” nel nostro Paese. La ricerca ha coinvolto un campione rappresentativo della popolazione residente in Italia di 12.007 adulti e di 15.602 studenti in età dai 14 ai 17 anni: infatti nonostante la normativa vieti la pratica del gioco d’azzardo per i minori, la estrema facilità di accesso a scommesse e lotterie permette a molti di aggirare il divieto. «Questa indagine, affidataci dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli dello Stato – ha spiegato Walter Ricciardi, presidente dell’Iss – è il più grande studio mai realizzato prima in Italia e ci offre la possibilità di fotografare un fenomeno, prevalente al Sud e nelle Isole, il cui monitoraggio può essere una guida per valutare l’efficacia delle azioni di prevenzione e gli interventi di assistenza». Mi limito a riportare i grandi numeri emersi: un adulto su tre (18 milioni di persone) ha giocato d’azzardo almeno una volta nell’ultimo anno, un milione e mezzo sono i giocatori problematici, cioè che «faticano – spiega Roberta Pacifici, direttore del Centro nazionale Dipendenze e doping dell’Iss – a gestire il tempo da dedicare al gioco, a controllare la spesa, alterando inoltre i comportamenti sociali e familiari». Quasi 700mila sono i minori che giocano, “problematici” circa 70mila studenti, che praticano soprattutto scommesse sportive e lotterie istantanee. Dovrebbe far molto riflettere che tra i giocatori è molto più ampia, rispetto alla popolazione dei non giocatori, la quota di persone che hanno ottenuto la cessione del quinto sullo stipendio, o prestiti da società finanziare o da privati (con gli evidenti rischi di usura).

Il sociologo Maurizio Fiasco (consulente della Consulta nazionale antiusura), intervistato da Gigliola Alfaro per l’agenzia Sir, osserva che i dati sono molto preoccupanti: «Seguendo il report, si nota che un milione e mezzo di famiglie è in gravi difficoltà, perché i “giocatori problematici” hanno fatto precipitare le coppie, i bambini e gli anziani conviventi sotto la soglia di povertà. (…) La sofferenza è dunque per l’intero “sistema famiglia”». E aggiunge che «le conseguenze sull’economia, l’occupazione e la legalità sono ancora ben poco sottolineate. Ma pesano, eccome, sulla stagnazione produttiva e sulla disoccupazione in Italia».

Fiasco quindi propone che l’intero database dei dati raccolti venga messo a disposizione del ministero della Salute perché si possano approntare risposte adeguate ed efficaci per le persone che diventano “dipendenti” dal gioco.

Una risposta terapeutica alla ludopatia è ovviamente necessaria, ma forse più necessaria ancora sarebbe una maggiore consapevolezza – come Avvenire, in compagnia di pochi, sta ribadendo da anni – che il problema sta alla radice, nell’incoraggiare e favorire l’illusione di risolvere i propri problemi economici con un “colpo di fortuna” e nel permettere addirittura la pubblicità del sistema delle scommesse, che i dati dimostrano ormai essere un fattore di impoverimento (è un cane che si morde la coda: più la via d’uscita dalla povertà sembra utopistica, più sembra crescere la tentazione di affidarsi alla sorte). Suona però un po’ paradossale che lo Stato spenda per curare chi finisce nella dipendenza del gioco d’azzardo, una dipendenza che lo stesso Stato favorisce o quanto meno considera benevolmente in virtù di quanto rende (in termini di tasse e di… Pil). Del resto – ma qui il discorso si fa troppo ampio – un comportamento permesso dalla legge (il gioco “legale”) è difficile poi da vietare per altra via. In ogni caso, non un bel modo di ottemperare a quell’articolo 47 della Costituzione tanto citato lo scorso 31 ottobre: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme».

Consultorio familiare, quattro aree per un rilancio

Dai lavori del convegno sul ruolo del consultorio familiare in una società che cambia, svoltosi nell’autunno scorso al ministero della Salute, è stato elaborato un documento che suggerisce alcune strategie per valorizzare un presidio che può aiutare la famiglia. Il mio articolo sul numero di gennaio di Noi, famiglia&vita, supplemento mensile di Avvenire

boy-2025099_960_720Integrare la cura sanitaria e l’attenzione sociale verso la famiglia e i suoi problemi è ancora un valore per il quale vale la pena spendersi. E per il quale il consultorio familiare, realtà istituita in Italia con la legge 405 del 1975 – ma già viva come esperienza promossa da associazioni cattoliche sin dal 1948 – , ha ancora compiti utili da svolgere, promuovendo benessere collettivo, e a costi contenuti. Sono messaggi importanti e condivisi tra gli esperti che si sono confrontati al convegno “Il ruolo del consultorio familiare in una società che cambia”, svoltosi nei mesi scorsi al ministero della Salute, che l’ha organizzato assieme all’Istituto superiore di sanità (Iss) e all’Università Cattolica del Sacro Cuore, con la collaborazione della Federazione nazionale dei collegi delle ostetriche (Fnco) e con il patrocinio del Centro per la pastorale familiare del Vicariato di Roma.
Ripartendo dai caratteri fondativi del consultorio, il documento finale – elaborato sulla base dei lavori del convegno cui hanno partecipato oltre 150 operatori consultoriali (pubblici e del privato sociale) e rappresentanti istituzionali e che viene ora proposto ai decisori politici nazionali e regionali – rammenta che i consultori familiari sono caratterizzati da «massima accessibilità, rapporto informale tra operatori e utenti e multidisciplinarietà dell’équipe». Quattro le aree prioritarie che sono state proposte all’approfondimento in altrettanti workshop: salute riproduttiva e percorso nascita, lavorare con le nuove generazioni, crisi della coppia e sostegno alla genitorialità, famiglie multiculturali e sostegno alle donne immigrate. I cambiamenti nei costumi e nei bisogni della popolazione in Italia nel corso degli ultimi decenni sono stati enormi: dalle statistiche – ha evidenziato il ginecologo Giovanni Scambia (direttore Polo Scienze salute donna e bambino del Policlinico Gemelli di Roma) – emerge che nella popolazione femminile nata nel 1966 si è dimezzata la quota di coloro che hanno fatto famiglia in modo stabile rispetto a chi era nato 20 anni prima. Tuttavia i cambiamenti non possono far dimenticare che «la famiglia è banco di prova della tenuta di una società», ha sottolineato monsignor Andrea Manto, responsabile della pastorale familiare del Vicariato di Roma. E che le sue fragilità devono essere motivo di stimolo per un intervento precoce ed educativo, capace di prevenire situazioni di crisi in ambito familiare e non solo.
Il documento finale ricorda che la legge istitutiva dei consultori prevedeva – usando un linguaggio odierno – «offerta attiva di iniziative formative e informative e di assistenza alle coppie», comprendendo «supporto per tutte le problematiche connesse alla salute riproduttiva, compresi i problemi di infertilità», e il «sostegno alla genitorialità» e «alla positiva risoluzione di situazioni di crisi familiare». Obiettivi che sono stati ribaditi anche più di recente da norme e indicazioni contenute sia nel Progetto obiettivo materno infantile (del 2000), sia nell’accordo Stato Regioni del 16 dicembre 2010, sia nel Piano nazionale fertilità e nei nuovi Lea (del 2017), fino all’invito che – alla Terza conferenza nazionale sulla famiglia nel settembre scorso “Più forte la famiglia, più forte il Paese” – è stato rivolto a sostenere la famiglia nelle sue fragilità, «funzione che rientra pienamente nel ruolo dei consultori familiari».
Non ci si può peraltro nascondere che spesso gli obiettivi sono difficili da raggiungere per la carenza di risorse, sia umane sia economiche, e che lo stesso consultorio familiare è poco conosciuto e frequentato. Significativo il dato fornito da Angela Spinelli (responsabile scientifico del convegno per l’Iss): «I consultori familiari sono passati da 2.725 nel 1993 a 1.944 nel 2016» (i dati si riferiscono alle strutture pubbliche, ndr). Eppure, ribadisce il documento, il consultorio «con la presa in carico di adolescenti, donne e coppie nel periodo preconcezionale, gestanti, bambini e coppia mamma-bambino, famiglie, rimane la struttura di riferimento che può assicurare quel continuum di prevenzione e di assistenza primaria raccomandata con un approccio life-course come ribadito anche nei nuovi Lea». Per questo è importante che il consultorio possa essere dotato di un “flusso informativo”, vale a dire che si possa misurarne e rendicontarne l’attività. Che altrimenti non sempre viene apprezzata in modo chiaro, e se non sempre si vede subito il risultato della prevenzione («ma oggi non c’è medicina senza prevenzione», ha sentenziato Scambia), spesso se ne può sentire la mancanza: in una zona del Lazio dove al consultorio familiare sono state “tagliate” le risorse per pagare extra orario un ginecologo che seguiva le adolescenti, ha riferito Serena Battilomo (responsabile scientifico del convegno per il ministero della Salute), si sono poi registrate in tre mesi due interruzioni di gravidanza proprio tra le giovanissime. E all’importanza degli spazi adolescenti ha fatto riferimento anche Giorgio Bartolomei, che opera nel consultorio familiare diocesano “Al Quadraro” di Roma.
Tra gli obiettivi comuni emersi in tutti i quattro workshop si può evidenziare la necessità di rendere sempre più il consultorio un «luogo che valorizza la famiglia come risorsa per la comunità», il «nodo di una rete che dialoghi con gli altri servizi sia territoriali che ospedalieri, sanitari e non, pubblici e del privato sociale, che intercettano le donne, i bambini/adolescenti, le famiglie, ragionando in un’ottica di sistema e agendo in un’ottica generativa». Vale la pena di segnalare alcune proposte specifiche dei workshop. Sulla «salute riproduttiva e percorso nascita» viene suggerito di «implementare modelli organizzativi», quali l’ostetrica di comunità (un esempio concreto viene presentato nell’articolo a fianco), per favorire «percorsi di assistenza integrata territorio-ospedale-territorio», e di valorizzare l’agenda della gravidanza, consegnata dalle ostetriche nei consultori familiari. «Lavorare con le nuove generazioni», comporta contribuire «all’educazione alla relazione sociale, affettiva e sessuale» di adolescenti e giovani adulti, aiutandoli anche a conoscere i temi della fertilità e promuovendo attivamente stili di vita sani per la protezione della salute riproduttiva. Su “crisi della coppia e sostegno alla genitorialità” viene la proposta di diffondere «Gruppi di parola per figli di genitori separati» e di «fare cultura familiare coinvolgendo la figura del padre nel percorso nascita». Infine per le «famiglie multiculturali e il sostegno alle donne immigrate» – vista la complessità del fenomeno migratorio – vengono chieste «lettura dei bisogni» e «flessibilità organizzativa», una «progettazione partecipata», nel «rispetto, riconoscimento e chiarezza nel rapporto con il privato sociale e con il volontariato», ragionando in un’ottica di sistema «per creare alleanze per proposte politiche-programmatiche».
Infine, il documento propone di realizzare una rinnovata mappatura dei consultori familiari «anche per individuare modelli positivi di funzionamento» e – attraverso il confronto in un tavolo tecnico – promuovere «un indirizzo operativo standard e omogeneo su tutto il territorio nazionale più adeguato alle necessità della società attuale». «Come sistema Italia in campo socio-sanitario possiamo rappresentare – ha sottolineato Walter Ricciardi, presidente dell’Iss – una risposta solidale fornita dal pubblico e dal privato sociale rispetto al privato predatorio che avanza in tante parti del mondo». «L’auspicio – ha concluso monsignor Manto – è che le best practice dei consultori, i tanti esempi virtuosi, possano fare cultura e, poi, creare volontà politica, per scegliere comportamenti di reale presa in carico delle persone e delle famiglie». Tutti temi sui quali – in vista delle elezioni – non è incongruo chiedere riscontri ai partiti e ai singoli candidati.

Aids, educare i ragazzi alla responsabilità di sé

In vista della Giornata mondiale per la lotta all’Aids, l’opinione di un clinico e di una psicologa dello sviluppo sullo stato delle terapie e sui modi per contrastare la diffusione del virus Hiv tra i giovani nel mio articolo oggi su Avvenire

Il virus Hiv
Il virus Hiv

Non si può abbassare la guardia contro l’infezione da Hiv. Lo ripete la campagna di comunicazione del ministero della Salute per la giornata mondiale per la lotta all’Aids in programma domani. Infatti dagli ultimi da­ti diffusi dall’Istituto superiore di sanità (Iss) emer­ge che se le nuove diagnosi di infezione da Hiv so­no calate nel 2016 sotto i 3.500 casi (3.451 per la precisione, per il 76,9% maschi), sono però au­mentate nella fascia sotto i 25 anni: «È dovuto a u­na perdita di memoria generazionale rispetto alla gravità di questa malattia» ha commentato Gianni Rezza, direttore del dipartimento Malattie infettive dell’Iss. Non mancheranno, accanto al telefono ver­de Aids, al numero 800.861.061, spot televisivi e sui canali online come Youtube (particolarmente se­guito dai giovani) per diffondere il messaggio che «con l’Hiv non si scherza».

«Certamente il controllo della malattia attraverso i farmaci – osserva Roberto Cauda, direttore dell’istituto di Clinica delle malattie infettive dell’Uni­versità Cattolica di Roma – è progredito enorme­mente e attualmente la malattia fa meno notizia perché è curabile, mantenendo una buona qualità della vita, anche se non è ancora guaribile». Oggi «disponiamo di farmaci più efficaci, meno tossici, più tollerati; in molti soggetti si possono dare po­che compresse, in qualche caso una sola, per tene­re sotto controllo il virus». Certamente «se si guar­da all’obiettivo che queste terapie si erano poste – alla metà degli anni Novanta – di eradicare il virus, non si può dire che sia ancora stato raggiunto. E non sembra nemmeno a portata di mano». Tuttavia nuo­ve possibilità sono alle porte: «Saranno registrati far­maci – aggiunge Cauda – che verranno somministrati solo una volta al mese per via iniettiva. Siamo sem­pre alla ricerca di una cura funzionale, cioè che per­metta di “silenziare” il virus, che non riprende a re­plicarsi se la terapia viene sospesa. Una guarigione parziale». Certamente «permane un problema di sommerso: i soggetti giungono tardi alla diagnosi (per la presenza di infezioni opportunistiche) per­ché non sanno di essere sieropositivi. E l’informa­zione resta la migliore forma di prevenzione».

Sui messaggi informativi rivolti ai giovani, occorre avere alcune avvertenze, sottolinea Emanuela Confalonieri, docente di Psicologia dello sviluppo all’Università Cattolica di Milano, e puntare a progetti educativi più specifici. «Dal nostro osservatorio sul­l’educazione alla salute di giovani e adolescenti, e dai dati della letteratura, emerge – sottolinea Confalo­nieri – che iniziative basate solo sull’informazione ottengono un’efficacia limitata nel tempo». Si pos­sono paragonare ai messaggi minacciosi che compaiono sui pacchetti di sigarette: «Questi modelli hanno un effetto su alcuni giovani e adolescenti, ma difficilmente arrivano a cambiare l’atteggiamento mentale. Non basta conoscere i rischi, perché nel momento in cui il giovane si ritrova nella stessa si­tuazione, per lui interessante o importante, se quan­to gli è stato detto non lo ha portato a pensare in modo diverso, ripeterà lo stesso comportamento». «Occorre educare a un’assunzione di responsabilità, a sentirsi sollecitati in prima persona rispetto alla pro­pria salute». «Le campagne informative – conclude Confalonieri – vanno bene ma vanno accompagnate da un lavoro più capillare, nelle scuole, in piccoli gruppi, con un’individuazione di popolazioni tar­get specifiche, dove i giovani sono accompagnati a un lavoro di promozione delle competenze: per e­sempio alla capacità di resistere alla pressione dei pari». Altrimenti, come accade per il fumo, «la persona risolve la dissonanza cognitiva (so che sto per fare una cosa che mi nuocerà) giustificandosi, tro­vando una serie di attenuanti. Viceversa devo lavo­rare prima, sul fatto che sono una bella persona, mi devo prendere cura di me, devo capire cosa davvero per me è importante e comportarmi conseguentemente, imparando a dire di no».

I consultori familiari: fare gioco di squadra

Al ministero della Salute, a Roma, si è svolta martedì 21 novembre una giornata di approfondimento sul ruolo e il futuro dei consultori familiari. Una sintesi dei lavori nel mio articolo comparso ieri su Avvenire

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La sede del ministero della Salute all’Eur

Confluiranno in un documento di sintesi da sottoporre alle i­stituzioni, dal ministro della Salute alla Conferenza Stato-Regioni, le proposte e le sollecitazioni per valoriz­zare il ruolo del consultorio familiare emerse dai workshop del convegno “Il ruolo del consultorio familiare in una società che cambia”, organizzato a Ro­ma dal ministero della Salute, dall’Isti­tuto superiore di sanità (Iss) e dall’Uni­versità Cattolica, in collaborazione con la Federazione nazionale dei collegi del­le ostetriche (Fnco) e il patrocinio del Centro per la pastorale familiare del Vi­cariato di Roma. Giuseppe Ruocco, segretario generale del ministero, ha ricordato che con l’i­stituzione dei consultori familiari nel 1975 il nostro Paese «è stato antesi­gnano», ma poi «si è un po’ fermato per strada». Dice qualcosa il dato – offerto da Angela Spinelli (Iss) – che i consul­tori familiari sono passati da 2.725 nel 1993 a 1.944 (e 147 privati) nel 2016. Tuttavia non mancano prese di posi­zione importanti: al recente G7 della salute di Milano – ha ricordato Serena Battilomo (ministero della Salute) – si è ribadito l’impegno a investire nella salute di donne, bambini e adolescen­ti riconoscendoli «positivi agenti di cambiamento per migliorare la salute di tutti».

Giovanni Scambia, presidente della So­cietà italiana di Ginecologia e ostetricia, ha dimostrato con dati di letteratura che «difendere la salute della donna si­gnifica difendere la società intera». U­na società peraltro che spesso dimen­tica il ruolo centrale della famiglia, co­me lamentato da Giorgio Bartolomei (consultorio familiare “Al Quadraro” di Roma): «Non si parla abbastanza della famiglia, che vive profondi cambia­menti e mostra una grande comples­sità. Crescono le famiglie monoparen­tali, le coppie in crisi e le relazioni af­fettive fragili; le famiglie multiculturali hanno difficoltà diverse. E poco ci si oc­cupa dei problemi di famiglie adottive, affidatarie, arcobaleno, o che fanno ri­corso alla fecondazione assistita».

Sulla formazione Maria Vicario (Fnco) ha segnalato che «l’80% degli studenti delle facoltà medico-sanitarie non fre­quenta i consultori». Rocco Bellanto­ne, preside della facoltà di Medicina della Cattolica, ha sottolineato l’im­portanza di abituarsi a lavorare in team, per sapere creare un giusto clima di ac­coglienza. Mentre dal presidente dell­’Iss, Walter Ricciardi, è venuto un invi­to: «Istituzioni come l’Iss e gli operato­ri del consultorio devono fare squadra per far capire ai decisori politici l’im­portanza dei consultori; e occorre una correzione del federalismo che in sa­nità ha prodotto grandi differenze nel­l’accesso ai servizi e alle terapie».

Monsignor Andrea Manto ( Vicariato) ha chiesto di ricordare che lo specifico del consultorio familiare «è rivolto alla famiglia, occorre credere che la famiglia sia un vero capitale e ricchezza per la so­cietà ». Tra le “buone pratiche” emerse dai workshop vale la pena di segnalare la convenzione stipulata tra Fnco, la on­lus Oltre l’orizzonte e il Vicariato di Ro­ma per sostenere la figura dell’ostetri­ca di comunità, una figura in grado di svolgere un ruolo di promozione della salute della donna sul territorio, e in modo attivo.