«In democrazia occorre accettare le incertezze della scienza, coinvolgendo i cittadini. Anche con il Covid-19»

Una versione ampliata della mia intervista a Mariachiara Tallacchini, docente di Filosofia del diritto all’Università Cattolica di Piacenza, apparsa su Avvenire lo scorso 4 dicembre. In tema di comunicazione della scienza segnalo anche l’articolo di Telmo Pievani, comparso sul mensile Le Scienze di dicembre 2021, ma disponibile anche online.

«Per prendere decisioni che hanno un forte impatto sulla vita delle comunità, insieme al necessario riferimento alle evidenze scientifiche, occorre che il coinvolgimento dei cittadini sia stato preparato in precedenza dal punto di vista delle conoscenze e attraverso la costruzione di rapporti di fiducia. Ciò vale in particolare in una pandemia, dove le molte scienze coinvolte forniscono conoscenze tutt’altro che certe». Mariachiara Tallacchini insegna Filosofia del diritto presso la facoltà di Economia e Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Piacenza, e Scienza, diritto e democrazia al Master in Comunicazione della Scienza della Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste. I suoi principali interessi riguardano la regolazione della scienza, i rapporti tra scienza e diritto e tra scienza e democrazia, in particolare nel settore della biomedicina e delle scienze della vita.

La pandemia ci ha colto di sorpresa a causa delle nostre scarse conoscenze scientifiche?

In realtà, credo che si debba risalire a monte, al fatto che in Italia è mancata e ancora manca una riflessione su ciò che nei Paesi anglosassoni si chiama science policy, vale a dire come la scienza è legittimamente utilizzata nel contesto di decisioni pubbliche in società democratiche fondate sul diritto. Questa mancanza di una cultura sull’uso della scienza per finalità di scelte politiche ha generato alcuni errori importanti. Non solo i cittadini non sono stati aiutati a prendere atto delle incertezze della scienza e a familiarizzare con esse, ma non si è adeguatamente spiegata la distinzioney tra scienziati che parlano come accademici e scienziati che parlano con ruoli e responsabilità pubbliche. Negli Stati Uniti Anthony Fauci da un lato non ha avuto timore di dire umilmente ai cittadini «We don’t know», non sappiamo, senza nascondersi dietro certezze presunte e arroganti; dall’altro, non c’erano dubbi sul fatto che solo lui fosse il punto di riferimento istituzionale per scienza e policy – mentre in Italia nessun esperto ha mai chiarito a “che titolo” e “in nome di chi e che cosa” parlasse: personale, per la propria disciplina, per il proprio reparto. Chi parla a nome delle istituzioni è diventato indistinguibile, quanto ad autorevolezza, da chiunque altro.

Ma le istituzioni per la regolazione della scienza (regulatory science) negli Stati Uniti hanno alle spalle sia un esplicito scientific advisory system, la configurazione istituzionale della consulenza scientifica, sia anni di costruzione di fiducia dei cittadini nelle autorità scientifiche e delle autorità politiche nei confronti dei cittadini, che hanno “preparato” (preparadness) a fronteggiare eventi incerti. Una cultura di preparedness, per esempio, è in atto da decenni in California: si deve sempre essere pronti per il “Big one”, il grande terremoto e ciò è stato fatto con un training di conoscenza e pratica per i cittadini, che devono sempre avere scorte alimentari e non in casa (e cambiarle quando scadono), devono fare esercitazioni, avere piani di riunione familiare, eccetera. Qualora il Big one arrivasse, la popolazione non sarà serena, ma disporrà delle capacità per fronteggiare l’emergenza. E nelle pagine dei Centers for Disease Control (Cdc) americani vengono fornite indicazioni precise sui comportamenti adeguati da tenere e le conoscenze scientifiche che stanno dietro questi comportamenti: dalle tecniche per lavarsi le mani o maneggiare le mascherine fino alle istruzioni per i bambini su come festeggiare Halloween senza commettere imprudenze. Il punto, insomma, sono le istituzioni che collaborano con i cittadini per passare dalla paura alla gestione della conoscenza.

Come si comunicano adeguatamente rischi di una situazione in evoluzione, senza mettere in dubbio la validità della scienza?

Parlare di rischi non è propriamente corretto. Tecnicamente, condizioni di rischio si danno quando sono note tutte le variabili di un problema e si può quantificare la probabilità di eventi avversi. Ma la pandemia è una condizione definita (dal filosofo della scienza Jean-Pierre Dupuy) come «incertezza radicale». Ciò significa che non solo non si conoscono tutte le variabili del problema – e quindi quantificare è approssimativo –; ma soprattutto ogni comportamento individuale diventa una variabile in un puzzle che cambia a ogni passo. Noi non siamo meri osservatori di ciò che accade, ma siamo parte di un sistema complesso che costantemente contribuiamo a modificare.

Per questo è necessario familiarizzare e accettare l’incertezza e avere grande flessibilità nel sapere che in un quadro di complessità ci si muoverà un po’ avanti e un po’ indietro. Quindi la fiducia tra istituzioni, scienziati e cittadini è fondamentale. Non basta l’appello a «credere nella scienza». Fauci ha ottenuto la fiducia degli americani dicendo che la scienza «non sapeva» e che proprio questo «non sapere» giustificava le precauzioni. Certamente tutto ciò non elimina l’opposizione degli scettici radicali (come i no-vax), ma certamente contribuisce a togliere carburante al complottismo. Anche riconoscere gli errori compiuti è importante, come pure spiegare perché si adotta un provvedimento basato su un certo scenario di incertezza e le modifiche necessarie se lo scenario dovesse cambiare.

Infatti nei sistemi complessi può essere in atto una molteplicità di cause, come ha spiegato Charles Perrow parlando dei «normal accidents» (gli incidenti normali). Di fronte a grandi incidenti (Perrow parlava delle centrali nucleari di Three Mile Island e Fukushima) si pensa a cause imponenti, improbabili e irripetibili. Non è così: possono esserci cause minuscole che scalano un po’ per volta il sistema fino a diventare pervasive e inarrestabili.

Dopo la prima fase, la “disciplina” degli italiani ha un po’ traballato. Ha prevalso un senso di anarchia?

Ci sono tanti aspetti in una situazione così complessa e certamente ciò che ha prevalso nella popolazione è la responsabilità, non l’anarchia, se quasi il 90% degli italiani ha avuto almeno una dose di vaccino. Detto questo, molte disposizioni normative potevano essere accompagnate e spiegate meglio.

Nella prima fase della pandemia è stata fatta un’importante delega di conoscenza e di responsabilità ai cittadini. Autocertificazioni in cui si chiede alle persone di dichiarare che non hanno il Covid, di interpretare i propri sintomi, di predisporre nel quotidiano protocolli di sicurezza o di procedere all’isolamento fiduciario esigono una preparazione e standardizzazione dei comportamenti. Questo è ciò che mi piace nell’approccio del Cdc. Noi abbiamo considerato molti gesti come ovvi e basati sul senso comune. Ma non è così e capire quale sia la scienza “che sta dietro” gli atti quotidiani genera un senso di collaborazione fondamentale tra istituzioni e cittadini e tra i cittadini medesimi. Analogamente, i richiami alla responsabilità e alla capacità di mettere in atto delle “auto-restrizioni” rispetto a comportamenti autorizzati – posso andare a passeggio in centro, ma se c’è troppa gente è meglio che mi allontani – devono essere spiegati, perché la cultura dominante è quella di pensare che, se ho una libertà o un diritto, li posso dispiegare all’infinito. Non è così. Sempre più il diritto alla salute si presenta come un “diritto collaborativo”, che si realizza solo se tutti cooperiamo in modo convergente.

Il passaggio più recente a forme di nudging, la “spinta” (più o meno) “gentile” implicita nel consentire i tamponi, ma costruendo una sorta di “imbuto” e “piano inclinato” verso il vaccino, poteva essere introdotto meglio. Forse questo avrebbe in parte prevenuto la percezione di queste misure come forme di arbitrio e addirittura fatto preferire ad alcuni tout court l’obbligo vaccinale sanzionato. Dovremmo impegnarci per andare verso società più consapevoli e responsabili, non intrappolate nella falsa alternativa tra rivendicazione di libertà senza limiti e richiesta di misure coercitive.

L’obbligatorietà dei vaccini non viene posta per problemi di costituzionalità?

Non ci sono problemi di costituzionalità perché il secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione dice che i trattamenti sanitari obbligatori sono ammessi se autorizzati per legge. Certamente ci possono essere problemi di implementazione ed efficacia della norma quando questa misura riguarda una popolazione vasta.

Dal punto di vista dei principi però, si deve ricordare che dal secondo dopoguerra la strada maestra della medicina è diventato il consenso informato ai trattamenti (il primo comma dell’articolo 32 può essere interpretato in tal senso). I casi previsti dal secondo comma hanno riguardato le patologie psichiatriche e le malattie infettive. Ma dalla legge Basaglia (1978) in poi le malattie psichiatriche hanno avuto un’evoluzione verso il primo comma; e questo è diventato vero anche per le patologie infettive, per una medicina ispirata alla convinzione e alla coesione sociale. E non solo in Italia. La “reputazione” e il “prestigio” delle società democratiche rispetto ai Paesi autoritari risiede anche nell’ossequio a questi principi. Quando, nel 2017, la Francia ha reso obbligatorie le vaccinazioni per i minori, un editoriale di Nature ha commentato che una scelta di questo tipo sembrava maggiormente in linea con le politiche di uno Stato dell’ex-Unione Sovietica. Anche in una situazione di emergenza si deve cercare di bilanciare le misure immediate e una prospettiva di medio e lungo periodo.

È però anche vero che la spinta verso i diritti individuali in medicina ha finito per far perdere il senso dei diritti condivisi alla salute. Per decenni i paradigmi dominanti della bioetica (ispirati al prevalere indiscusso dell’individuo sulla comunità, un comprensibile retaggio della Seconda guerra mondiale) hanno dedicato scarsissima attenzione ai temi di salute pubblica. E oggi abbiamo bisogno di riconsiderare il valore di condivisione dei diritti.

Al netto di una situazione inedita, difficile a livello globale, su quali obiettivi è opportuno convergere?

È opportuno, in primo luogo, pensare a una “educazione civica alla scienza” per tutti e fin da bambini. Questo significa l’esigenza di una cultura generalizzata (politici, scienziati e cittadini) di science policy sull’uso credibile, aperto e trasparente della scienza nelle società della conoscenza. E si tratta anche di costruire istituzioni e sistemi di consulenza scientifica che non temano di palesare l’incertezza scientifica. Scienza, diritto e politica non sono più forti se cercano di ancorarsi a certezza e oggettività, perché l’incertezza non corrisponde all’arbitrio delle opinioni e decisioni, ma al contrario rende necessarie le argomentazioni e il confronto pubblico. E dobbiamo anche riconfigurare i comportamenti che ci tengono rispettosamente insieme nella vita associata con un nuovo vocabolario condiviso.

Diagnosi di Sla e angina refrattaria: ricerche d’eccellenza negli Irccs milanesi

Scoperte e studi sulle malattie neurodegenerative all’Irccs Santa Maria Nascente della Fondazione Don Gnocchi e sulle patologie cardiache all’Irccs Centro cardiologico Monzino, entrambi impegnati anche contro il Covid-19. Ripubblico, in forma estesa, due articoli usciti su Avvenire la scorsa settimana

fioriUn metodo innovativo e semplice per porre diagnosi di sclerosi laterale amiotrofica (Sla) da un campione di saliva, che potrebbe rivelarsi utile anche per altre malattie neurodegenerative come Alzheimer e Parkinson. E che viene testato per individuare pazienti affetti da Covid-19. Tutto questo è nel progetto attuato da due Irccs milanesi della Rete delle neuroscienze e neuroriabilitazione, il “Santa Maria Nascente” della Fondazione Don Gnocchi e l’Istituto Auxologico Italiano, e pubblicato sulla rivista open access Scientific Reports, del gruppo Nature. Coordinatrice del progetto è Marzia Bedoni, responsabile di Labion, Laboratorio di Nanomedicina e Biofotonica Clinica, della Fondazione Don Gnocchi: «Ora stiamo lavorando con l’Università di Milano-Bicocca per automatizzare l’analisi, grazie a tecniche di machine learning, e renderla quindi facilmente fruibile nell’uso clinico». 

Per la Sla non solo non esistono cure risolutive, ma anche la diagnosi viene fatta con fatica: «La malattia ha spesso un decorso rapido – ricorda Marzia Bedoni – e avere una diagnosi al primo mese può aiutare a iniziare presto i pochi trattamenti farmacologici e riabilitativi che oggi esistono, per ritardare la comparsa di alcuni sintomi». Lo studio è stato finanziato dal ministero della Salute (primo autore Cristiano Carlomagno) ed è stato svolto in collaborazione con l’Unità di riabilitazione intensiva polmonare dell’Irccs “Santa Maria Nascente”, diretta da Paolo Banfi, e con l’Unità operativa di neurologia e laboratorio di neuroscienze dell’Irccs Auxologico, diretta da Vincenzo Silani. 

«Già da alcuni anni abbiamo introdotto nel nostro laboratorio – racconta Marzia Bedoni – la spettroscopia Raman, un metodo inventato dal fisico indiano Venkata Raman (insignito del premio Nobel nel 1930) che utilizza luce laser e restituisce uno spettro che identifica i legami molecolari che ci sono all’interno di una sostanza e quindi i suoi componenti. Solitamente viene usato nell’ambito della fisica e della scienza dei materiali, noi l’abbiamo testato su campioni biologici: cellule, tessuti, organi. Un uso piuttosto raro negli ospedali. Al Labion lo affianchiamo a una piattaforma di altri strumenti sulla base di biofotonica, piattaforma avanzata che utilizza metodo insoliti e nuovi in ambito biologico». 

Analizzare piccoli campioni di saliva con la spettroscopia Raman si è rivelata un’idea vincente da molti punti di vista: «Innanzi tutto – prosegue Bedoni – non è un metodo invasivo, il campione è semplice da ottenere. Inoltre la saliva è una sostanza cristallina, non viscosa, e condivide con il sangue circa 2.500 proteine. In più è rapido: dal prelievo del campione alla centrifuga del tampone e analisi della saliva con lo spettroscopio Raman passano poco più di dieci minuti». Dal confronto dei campioni di pazienti con Sla e persone sane «è emersa una differenza netta e abbiamo utilizzato tutto lo spettro come biomarcatore. Il metodo è altamente sensibile, quasi confrontabile con i metodi sino a oggi utilizzati della biologia molecolare, come la Pcr. Ora lo stiamo testando per altre patologie invalidanti, come Alzheimer e Parkinson: nella saliva di questi pazienti abbiamo rilevato indicazioni molecolari ben precise, simili tra loro per alcuni biomarcatori, e molto diverse entrambe da quelli della Sla». 

Il passo successivo passa per l’intelligenza artificiale: «Stiamo lavorando per automatizzare l’analisi, cioè per semplificarla attraverso tecniche di machine learning e di deep learning. Con il gruppo di informatici di Vincenzina Messina dell’Università di Milano-Bicocca sottoponiamo i nostri risultati con la spettroscopia Raman all’analisi con modelli matematici su grandi numeri di campioni (big data), in modo tale da semplificare il processo e poter realizzare strumenti che siano in grado di fornire al medico clinico un risultato chiaro». 

Lo sguardo si è allargato al Covid-19: «Abbiamo analizzato campioni di saliva di pazienti positivi al Sars-Cov-2 e stiamo costruendo un modello. I primi dati sono confortanti: in maniera statisticamente significativa riusciamo a distinguere i pazienti dai sani. Potrebbe diventare – conclude Bedoni – uno strumento miniaturizzato per eseguire analisi veloci in Pronto soccorso o in altri ambienti (aeroporti, stazioni) perché il risultato arriva in pochi minuti».

 

Questa l’intervista a Giulio Pompilio, neo direttore scientifico dell’Irccs Monzino

«Si cura meglio dove si fa ricerca non è per noi uno slogan, ma il modello a cui ci ispiriamo per realizzare il nostro compito di Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico. E lo stiamo dimostrando anche con il Covid-19». Dal 1° luglio il cardiochirurgo Giulio Pompilio è il nuovo direttore scientifico dell’Irccs Centro cardiologico Monzino di Milano, dove si è formato e ha svolto la sua carriera: docente di Chirurgia cardiaca all’Università di Milano, Pompilio era già vice direttore scientifico e responsabile dell’Unità di ricerca di Biologia vascolare e Medicina rigenerativa al Monzino. 

Come avete affrontato l’emergenza Covid-19? 

È una sfida sia clinica, sia di ricerca. Il Monzino è stato un hub per cardiologia e cardiochirurgia, come richiesto da Regione Lombardia: ci siamo fatti carico delle urgenze di ospedali dove questi reparti erano chiusi. Abbiamo rilevato che il Covid-19 è stato un deterrente per le urgenze: abbiamo curato pazienti più gravi per il ritardo con cui si presentavano, anche in casi di infarti e dissezioni aortiche. 

Sul piano della ricerca, abbiamo scoperto dati interessanti sulle alterazioni che il virus provoca sulle piastrine e quindi a livello di coagulazione e di trombosi. Infine stanno emergendo dati (da uno studio condotto con i colleghi dell’ospedale San Paolo di Milano) sulla permanenza del virus nel muscolo cardiaco, anche in pazienti che non sviluppano segni clinici di infiammazione. 

Medicina rigenerativa in cardiologia: a che punto siamo? 

Abbiamo al Monzino l’unica sperimentazione clinica in Italia di terapia cellulare su una patologia senza cura: l’angina refrattaria, una forma di cardiopatia ischemica che dopo l’iter terapeutico (stent, bypass) non ha più alcuna cura e lascia il paziente in preda a pesanti dolori, anche dopo piccoli sforzi, non controllabili per via medica. Oltre ad accorciare la vita, la rende veramente poco vivibile. Usiamo cellule progenitrici del midollo osseo del paziente, purificate al Laboratorio Verri dell’ospedale San Gerardo di Monza, e le iniettiamo nelle zone sofferenti del cuore, dove creano un microcircolo che supplisce alla carenza di ossigeno dovuta all’occlusione delle arterie coronarie. Il nostro studio di fase 1 (pubblicato l’anno scorso) ha mostrato non solo che la terapia è sicura, ma anche che 7 pazienti su 10 migliorano in maniera importante. Ora siamo in attesa dell’autorizzazione allo studio di fase 2 per misurarne l’efficacia. Stiamo anche sviluppando prodotti cellulari più efficaci, che abbiamo scoperto e brevettato, che vengono non più dal midollo osseo ma dalle cellule mesenchimali stromali, presenti nel cuore, selezionando le cellule con maggiori capacità angiogeniche (cioè di formare piccoli vasi). 

Lei è stato direttore scientifico di Arisla: c’è interazione tra la ricerca sul cuore e quella sul cervello? 

L’asse cuore-cervello è uno degli campi di ricerca più interessanti in cardiologia. Abbiamo scoperto che la depressione, associata anche a geni predisponenti, è fattore di rischio importante per la mortalità cardiaca. E poi che sembrano esservi cause neuro-ormonali per la malattia di tako-tsubo, il cosiddetto “crepacuore“: uno stress emotivo molto forte (soprattutto nelle donne) è in grado di fermare il cuore come in un infarto. Sono patologie che stiamo studiando sia in clinica sia in laboratorio. Infatti il modello Monzino è caratterizzato dalla stretta interazione – anche fisica – tra i due ambiti: i laboratori sono nel piano sotto i reparti di degenza, permettendo un rapido e proficuo scambio tra medici e ricercatori. L’interazione intorno al paziente risulta così molto forte. 

Naldini: bimbi “modificati”, l’ora di fermarsi

Diciotto scienziati su Nature hanno lanciato un appello per chiedere di sospendere l’uso delle tecniche di gene editing per far nascere bambini modificati nel loro genoma (una traduzione italiane del testo è sul sito della rivista Le Scienze). Luigi Naldini, direttore dell’Istituto SR-Tiget di Milano, è l’unico italiano a far parte del gruppo e nell’intervista pubblicata ieri su Avvenire spiega le ragioni di questa scelta.

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Luigi Naldini

«Si tratta di un’assunzione di responsabilità da parte degli scienziati, che capiscono di non poter decidere da soli su temi che riguardano l’intera società. E nello stesso tempo si vuole stigmatizzare un atteggiamento “eticamente disinvolto” che può creare nell’opinione pubblica sconcerto e diffidenza nei confronti della scienza». Luigi Naldini, direttore dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica (SR-Tiget) di Milano, è tra i 18 scienziati firmatari dell’appello – pubblicato su Nature – per una moratoria sull’uso clinico dell’editing genetico per far nascere bambini modificati nel loro genoma. Naldini è l’unico italiano a far parte di un gruppo di lavoro internazionale che ha stilato le prime linee guida sull’uso del gene editing con la potente tecnologia del Crispr/ Cas9. A suscitare la richiesta di moratoria è stato soprattutto il caso delle gemelline fatte nascere con il Dna modificato in laboratorio per migliorare la resistenza all’infezione da Hiv: un “esperimento” condotto dal biologo cinese He Jiankui a Shenzen, che ha trovato il biasimo unanime della comunità scientifica internazionale, e della sua stessa università.

Chi sono e perché hanno ritenuto di dover intervenire gli scienziati che hanno chiesto la moratoria?

È un gruppo di scienziati che ha preso l’iniziativa autonomamente, senza “investiture”, ma che rappresenta il fulcro dell’avanzamento tecnologico, che gravita principalmente intorno a Boston (Stati Uniti). Sono tutti ricercatori “in prima linea”, molti autori o sviluppatori di queste tecniche biotecnologiche, come Emmanuelle Charpentier, che ha contribuito a scoprire il Crispr/Cas9, o Feng Zhang; o Eric Lander, il direttore del Broad Institute. Altri sono bioeticisti, oppure ricercatori (come il sottoscritto) attivi nel gene editing sul fronte clinico o della ricerca, ma tutti nel campo somatico, cioè per correggere malattie di individui già nati: un ambito di applicazione che nessuno vuole fermare. Hanno deciso di intervenire per rispondere a quanto successo in Cina con la nascita delle gemelline nel novembre scorso. Questo ricercatore si è mosso in modo spregiudicato: ora è stato “condannato” ma il caso ha evidenziato che la rete di controllo ha maglie troppo larghe, perché la comunità degli scienziati aveva già invitato alla prudenza e a non applicare il gene editing per far nascere bambini, sia per motivi scientifici, relativi alla sicurezza, sia per motivi etici, non ancora affrontati dalla società.

Scienza ed etica: quali sono i benefici attesi e quali le incognite di questa tecnica sull’uomo? E perché un ricercatore pensa di lavorare per un miglioramento genetico o un potenziamento delle facoltà umane?

La tecnica di per sé ha una grande promessa, perché ci permette di intervenire in modo preciso e mirato sul genoma per correggere alcune mutazioni: nella maggior parte dei laboratori che operano sulle cellule somatiche si lavora con cautela alla sperimentazione sull’uomo per curare una malattia, inattivando un gene o correggendo una mutazione genetica. È una forma di terapia genica avanzata complessa, un ambito non controverso, non toccato dalla moratoria. Le cose cambiano se pensiamo di applicare la tecnica alla linea germinale (ovociti e spermatozoi) o agli embrioni, perché non interveniamo su una malattia ma su quello che sarà il corredo genetico di un nascituro e decidiamo noi di modificarne alcune componenti: nella migliore delle ipotesi per prevenire la trasmissione di un gene-malattia, ma in Cina sono arrivati a inattivare un gene perché potrebbe dare un vantaggio rispetto all’infezione di un virus. È un intervento non supportato dalla scienza, esce da una logica di prudenza. Se quel gene c’è nel genoma probabilmente serve anche per altre cose, che non conosciamo. E se uno scienziato vuole modificare il genoma umano mi sembra un dottor Stranamore che opera con presunzione (hybris, avrebbero detto i greci), che vuole ignorare i limiti delle conoscenze scientifiche. Sul potenziamento, bisogna distinguere: nelle terapie si cerca di rendere più forte una cellula, per esempio del sistema immunitario contro il tumore, come con la terapia Car-T, cellule prelevate dal paziente e reinfuse dopo averle modificate in laboratorio. Lo stesso non si può fare per potenziare l’intero sistema immunitario, che risulterebbe senza freni. E così, correggere un difetto genetico che impedisce a un bambino di crescere può avere un significato, ma potenziare il genoma della linea ereditaria mi sembra oggi fuori da una logica scientifica.

Perché nell’appello prospettate il coinvolgimento degli Stati? E quello dell’opinione pubblica? La gente ne sa poco o nulla: come può costruirsi un giudizio fondato e non solo emotivo, o condizionato dal business?

Il potere decisionale e normativo appartiene agli Stati. Non sono i comitati scientifici a poter decidere se certe operazioni sono lecite o meno. Ci sono legislazioni (come quella italiana, ma non è l’unica) che vietano la ricerca sugli embrioni, anche se è importante continuare a seguire il dibattito. La chiamata di apertura alla società è un’assunzione di responsabilità, ma anche di umiltà, da parte della comunità scientifica, che accetta che su questi temi non possa decidere la tecnica («si fa perché si può fare») ma neanche gli scienziati da soli, che hanno i loro conflitti di interesse. Sono d’accordo sulle difficoltà di interpretare la pubblica opinione: si tratta di coinvolgere gruppi e rappresentanti di interessi diversi nella società, per costruire un meccanismo di consenso più allargato, che non riguardi solo gli scienziati. Una posizione che forse non tutti i ricercatori condividono.

Nella ricerca sono presenti interessi commerciali ingenti, e il vostro appello ammette passati fallimenti, come sul bando alla clonazione: la moratoria funzionerà, questa volta?

Proprio nell’area di Boston su queste tecnologie c’è un grosso investimento industriale, ma finalizzato al gene editing in campo terapeutico, con le cellule somatiche. Quel mondo tecnologico è il primo a sconsigliare di toccare la linea germinale, perché teme di suscitare reazioni negative nella società – dal punto di vista etico – che portino a legislazioni capaci di bloccare ogni esperimento, come è accaduto in alcuni Stati con gli Ogm in agricoltura. Il mondo industriale tecnologico è necessario perché servono risorse e capacità. Quanto alla clonazione, è vero che non si è arrivati a un divieto formale, ma quel dibattito ha creato una forte stigmatizzazione di ogni tentativo di realizzarla. Non è più stata nell’agenda di nessuno la clonazione terapeutica di un essere umano. Nel nostro caso, non siamo tutelati al 100 per cento, ma i Paesi hanno tutti una posizione fortemente contraria a un uso del gene editing per far nascere esseri umani modificati geneticamente. E il dibattito degli scienziati, delle agenzie internazionali come l’Organizzazione mondiale della sanità, e degli Stati contribuisce a tenere alta l’attenzione per evitare simili derive.