A Siracusa un Eschilo trasfigurato (e pasticciato)

Dopo l’assenza forzata dell’anno scorso, conseguenza delle restrizioni decise dal governo per fronteggiare la pandemia di Covid-19, l’estate del 2021 ha visto la ripresa degli spettacoli classici al Teatro greco di Siracusa. Il 56° ciclo messo in scena dall’Istituto nazionale del dramma antico (Inda) ha leggermente modificato il programma annunciato nel 2020. Al posto dell’Ifigenia in Tauride di Euripide (rimandata al 2022) è stata realizzata la rappresentazione di CoeforEumenidi di Eschilo in coproduzione con il Teatro nazionale di Genova, diretto da Davide Livermore, che ne firma la regia a Siracusa. È una scelta che si ricollega al 1921, quando le Coefore furono messe in scena dopo l’interruzione dovuta alla prima guerra mondiale e all’epidemia di Spagnola (allo stesso modo l’Orestea monopolizzò il cartellone alla ripresa del 1948, dopo la pausa dovuta alla seconda guerra mondiale). Le Baccanti di Euripide, con la regia di Carlus Padrissa, e le Nuvole di Aristofane, con la regia di Antonio Calenda, sono gli altri due spettacoli andati in scena tra luglio e agosto, e che erano previsti già nel 2020. A sottolineare il richiamo al 1921 è stata allestita una mostra nella sede dell’Inda a Palazzo Greco, che rievoca con foto e materiali d’epoca quella storica rappresentazione e di cui scriverò a parte. Inutile cercare un filo rosso fra i tre spettacoli: Coefore ed Eumenidi fanno parte della grandiosa trilogia dell’Orestea, ultimo grande trionfo negli agoni tragici ad Atene di Eschilo nel 458 a.C., prima del suo trasferimento in Sicilia. Le Baccanti, pur essendo l’ultima tragedia rappresentata ad Atene (403) di cui abbiamo il testo si richiama all’origine stessa delle tragedie, a quel culto di Dioniso che caratterizzava le feste in cui si rappresentavano le opere teatrali. Nelle Nuvole (423) il giovane Aristofane prende di mira un Socrate “sofista” con accuse molto simili a quelle che 24 anni dopo ne determinarono la condanna a morte.

Coefore ed Eumenidi completano l’Orestea, dopo l’Agamennone, che racconta l’uccisione del comandante della spedizione greca a Troia, da cui torna vittorioso accompagnato dalla concubina Cassandra, la figlia del re Priamo. A differenza di quanto narra Omero nell’Odissea (XI, 405-426), che attribuisce il delitto a Egisto, amante di Clitemnestra, moglie di Agamennone, Eschilo attribuisce il delitto a Clitemnestra, spinta da due moventi: la relazione con Egisto e la vendetta per il sacrificio della figlia Ifigenia, fatta uccidere da Agamennone per favorire la partenza della flotta dei guerrieri greci diretti a Troia. Più in ombra, anche se in parte sottintesa, la volontà di regnare con l’amante.

Oltre alla trilogia dell’Orestea di Eschilo (l’unica giunta fino a noi) a teatro la vicenda del delitto di Oreste per vendicare il padre Agamennone fu rappresentata anche dagli altri due maggiori poeti tragici, Sofocle ed Euripide, autori entrambi di una Elettra.

Ed eccoci alle Coefore (le portatrici di offerte). Dieci anni dopo il delitto, Clitemnestra è sconvolta da un sogno premonitore e manda a offrire libagioni sulla tomba di Agamennone. Nel frattempo però il figlio Oreste, spinto da Apollo a vendicare il padre, è tornato in patria in incognito per sorprendere e uccidere i due amanti assassini. Dopo essersi fatto riconoscere dalla sorella Elettra, che accompagna le coefore, Oreste mette in atto il piano di morte e uccide prima Egisto e poi Clitemnestra. Per quest’ultimo delitto viene immediatamente perseguitato dalle Erinni, decise a punire il matricida.

Eumenidi (le benevole) concludono la trilogia: Oreste si rifugia al santuario di Apollo a Delfi. Pur protetto da Apollo, non cessa la persecuzione delle Erinni e deve sottoporsi al processo all’Areopago di Atene. Qui sarà assolto grazie al voto decisivo di Atena, che riesce a placare la furia vendicatrice che le Erinni volevano riversare sulla città per mantenere l’antica legge, e le convince a trasformarsi in dee benevole, omaggiate dalla città di Atene, a cui esse assicurano protezione.

Sul fondo della scena appaiono sulla destra il palazzo reale, mentre al centro campeggia un enorme palla “multimediale”, che pare essersi abbattuta come un meteorite su un ponte. Al centro del palcoscenico campeggia un rilievo circolare che rappresenta la tomba di Agamennone. Il tutto è coperto da un sottile strato di neve, «una neve dolorosa – spiega il regista Davide Livermore nelle note di regia – che congela il corpo della tragedia, lo sospende per dieci anni, dieci lunghissimi anni in cui un bambino, Oreste, diventerà un assassino matricida».

Oreste (Giuseppe Sartori) giunge ad Argo accompagnato dall’amico Pilade (Spyros Chamilos) – abbigliati come partigiani – e pone un proiettile di pistola sulla tomba del padre: ovviamente Eschilo parla di un ricciolo dei capelli, ma le sparatorie in scena si vedranno davvero. Poi Elettra (Anna Della Rosa) e le coefore (in abiti eleganti) riescono a superare l’ostilità delle guardie (vestite da soldati nazifascisti e armate di mitragliatori) e a portare le loro libagioni sulla tomba di Agamennone, dove il ritrovamento del proiettile mette Elettra in agitazione. Dopo il riconoscimento tra i fratelli e la predisposizione del piano uccidere gli assassini del padre, viene fatto chiamare Egisto (Stefano Santospago). Arriva a bordo di un’auto, da cui scarica violentemente una ragazza, che subito uccide con un colpo di pistola. L’odiosità del personaggio viene accentuata dalle molestie che riversa sulle coefore presenti, che poi uccide. Ma, essendo privo di guardie, viene facilmente eliminato da Oreste e Pilade, addirittura con un proiettile nella schiena. Più problematica – ovviamente – si rivela l’eliminazione di Clitemnestra (Laura Marinoni). Arriva anche lei a bordo di un’auto, con abiti sontuosi, e capita la sorte che sta per toccarle, si difende con il figlio, rivendicando i torti subiti dal marito (in particolare l’uccisione della figlia Ifigenia), ma commette l’errore di rivelarsi innamorata di Egisto. A nulla poi le vale scoprirsi il seno materno per indurre pietà in Oreste: la sua sorte è segnata. E viene fatta morire come Socrate, bevendo una coppa di veleno. Le Erinni (Maria Layla Fernandez, Marcello Gravina e Turi Moricca), subito cominciano a perseguitare il matricida.

E siamo alle Eumenidi. Per purificarsi nel tempio di Apollo, che gli aveva ordinato di vendicare il padre, Oreste corre disperato su un tapis roulant (unica trovata “moderna” che appare utile). Anche la Pizia (Maria Grazia Solano) si allontana dal tempio, occupato dal matricida di cui si citano le mani insanguinate, e dalle Erinni che non gli danno pace, anche se poi si addormentano. Apollo (Giancarlo Judica Cordiglia) ne approfitta per invitare Oreste a recarsi ad Atene per essere giudicato, e poi scaccia le Erinni dal proprio tempio.

La scena si trasferisce ad Atene, dove la dea Atena (Olivia Manescalchi) presiede il processo i cui giurati sono sagome dei cittadini migliori della città riuniti nell’Areopago, che viene pertanto istituito per giudicare i fatti di sangue. Dopo le ragioni contrapposte di Oreste, spalleggiato da Apollo, e delle Erinni, Atena fa votare i cittadini, ma il verdetto è in parità (che significa assoluzione) solo grazie al voto decisivo della dea, che esprime valutazioni “arcaiche” sulla prevalenza dell’uomo sulla donna. Le Erinni, furiose, minacciano vendette sulla città, ma poi accettano l’invito di Atena a essere onorate dagli ateniesi e a restare a proteggere quindi la fecondità della terra e dei cittadini. Oreste, diretto ad Argo, proclama che mai la sua città dovrà dimenticare l’alleanza con Atene.

La messa in scena richiama gli anni Trenta-Quaranta, ma alcuni anacronismi rispetto a Eschilo appaiono assurdi e fastidiosi. A Livermore, si capisce, non piace l’assoluzione di Oreste grazie a un giudice e un avvocato «che per la loro stessa natura divina determinano una disparità di giudizio al limite dell’iniquo», scrive nelle note di regia (in cui paragona la sorte di Ifigenia a quella di Mafalda di Savoia, “sacrificata” dal padre Vittorio Emanuele III). E questa “combine” viene accentuata dalla telefonata (!) che i due si scambiano prima del verdetto.

Viceversa viene trascurato un tema che stride con la mentalità moderna, oltre che con i dati della biologia: la riduzione della donna a contenitore del seme maschile, considerato vero tramite della discendenza; lo svilimento del ruolo della madre nelle parole di Atena, che si proclama figlia del solo Zeus. Scorrevole la traduzione di Walter Lapini, convincenti le prove degli attori, in particolare Oreste – preda di dubbi e poco “eroico” – e Clitemnestra, personalità “dominatrice” della scena. Invece i proiettili e le sparatorie (così come il veleno o l’automobile) appaiono fuori luogo, visto anche che il testo continua a essere recitato indicando le spade come strumenti di morte. Il costume delle tre Erinni (perché due uomini? drag queen?), scintillante da cabaret, non appare consono al loro ruolo di paurose persecutrici. Il rogo finale delle sagome dei giurati vuol forse indicare che vanno puniti? Infine la palla multimediale che campeggia sullo sfondo (una soluzione che Livermore aveva adottato anche nell’Elena rappresentata a Siracusa nel 2019): viene sfruttata opportunamente per evocare l’ombra di Agamennone (Sax Nicosia), ma anche per mostrare, alla fine dello spettacolo, famose immagini di tragedie italiane: dall’assassinio di Aldo Moro alla strage di Capaci, dalla Costa Concordia al ponte Morandi (rievocato anche dalla scenografia) che appaiono del tutto estranee al clima del testo eschileo, se non forse nel pensiero del regista che le mostra per indicare fatti che non hanno ricevuto giustizia. Lo spettacolo, grazie anche a un accompagnamento musicale sostenuto, è vivace e “piacevole”, Eschilo però è un’altra cosa.

Da Omero a San Francesco in laguna

iliadeOccasioni per ricreare un po’ lo spirito – tra una proiezione elettorale e l’esito di un ballottaggio – in due articoli pubblicati oggi sui quotidiani. Cesare Sinatti sul Fatto quotidiano invita i giovani a leggere Omero, fra Enzo Maggioni e Giorgio Fornoni sull’Eco di Bergamo ci illustrano la bellezza di San Francesco del Deserto, isola della laguna veneta che ospita una comunità di frati francescani.

Il giovane studioso Sinatti cerca di spiegare «Perché leggere Omero a vent’anni può essere davvero meraviglioso». Partendo dal presupposto (tutt’altro che condivisibile) secondo cui a un ragazzo oggi non dovrebbero interessare testi con più di 2.500 anni, si osserva che tali opere «sono labirinti magnifici in cui vale la pena di perdersi e che a ogni svolta d’angolo regalano rivelazioni». Che sarebbe già una buona ragione per cominciare a leggere. Tuttavia «senza cimentarsi in studi linguistici e confrontarci con esperti», a spingere nella lettura «c’è prima di tutto un rapporto personale». E spiega che si legge «alla ricerca di qualcos’altro, di qualcosa che forse non è neanche necessariamente all’interno del libro e che emerge piuttosto dalla nostra interazione con esso». «La letteratura parla con noi, di noi, attraverso il tempo»: e provoca le nostre reazioni, come accade a Odisseo, che pianse quando sentì raccontare da Demodoco la presa di Troia da parte dei Greci (Odissea, VIII, 521). Aggiunge Sinatti che non importa la lontananza nel tempo«finché l’esperienza umana conserva nelle parole la stessa vividezza che ha nella realtà». Ricordo che lo scrittore Eugenio Corti (autore del Cavallo Rosso) sosteneva di essersi «innamorato» di Omero in prima media, quando prese in mano il testo ancora prima di iniziare le lezioni. Si rese conto che Omero «trasformava in bellezza tutto quello che scriveva» e Corti decise di imitarlo e diventare scrittore. Se non può essere «indotta» l’esperienza di amare un libro, Sinatti comunque consiglia di proporre ai ragazzi la scommessa: «Mettere in gioco qualche ora di vita in cambio di un’epifania possibile». A vent’anni «vale la pena tentare: un’epifania di Omero può essere un regalo prezioso». Personalmente posso confermare che leggendo l’Iliade ad alta voce a coetanei in età giovanile, riscontrai più di una impressione positiva tra ragazzi che non avevano mai saputo nulla di Omero, ma non avevano nemmeno prevenzioni.

Un’esperienza di meditazione è quella che propone l’itinerario sull’isola di San Francesco nel Deserto. L’origine della presenza francescana viene fatta risalire al 1220 quando Francesco, di ritorno dal viaggio in Terra Santa per cercare di convertire il sultano d’Egitto, trovò riposo in questo angolo di laguna. L’isola fu poi donata dal nobile veneziano Jacopo Mechiel ai frati nel 1233 e da allora – con piccole interruzioni – è custodita dalla presenza francescana. I cinque frati ora residenti conducono la vita del loro Ordine, ma offrono anche ospitalità a chi cerca momenti di raccoglimento e preghiera: «Oltre 25 mila persone, provenienti da tutto il mondo – scrivono Maggioni e Fornoni – visitano ogni anno questo luogo di silenzio e di pace». In media ogni fine settimana una quindicina di persone si affianca alla vita dei frati e ne segue i ritmi, con i pasti in refettorio e due momenti di riflessione al giorno. Per i soggiorni sono a disposizione trenta celle. Occorre ovviamente contattare il convento: tutte le informazioni sul sito www.sanfrancesconeldeserto.it.

Perché leggere romanzi, oggi

Recensione del libro Come non letto, di Alessandro Zaccuri

come non lettoUna originale guida ad alcuni tra i romanzi più significativi della letteratura mondiale, per mostrare che hanno ancora qualcosa da dire, che ci mostrano qualcosa di noi stessi, che vale la pena di leggerli. Il tutto accompagnato da un’iniziativa solidale verso attività caritative. Questo, in estrema sintesi, il progetto realizzato da Alessandro Zaccuri con Come non letto, un titolo modellato sulla sorte dei messaggi di posta elettronica che si preferisce accantonare per un successivo approfondimento, che può anche non giungere mai. È il destino di romanzi molto famosi, e di notevole mole, ma che non rientrano – tranne eccezioni – nei programmi scolastici e la cui conoscenza finisce spesso con il limitarsi ai luoghi comuni entrati nell’immaginario collettivo. Eppure, è la convinzione dell’autore, questi sono dieci classici (più uno) che possono ancora cambiare il mondo, come recita il sottotitolo (edizioni Ponte alle Grazie, 198 pagine, 14 euro).

Zaccuri, giornalista di Avvenire e scrittore, ci accompagna in un viaggio che partendo da Miguel de Cervantes (Don Chisciotte) giunge a Bram Stoker (Dracula) passando attraverso Daniel Defoe (Le avventure di Robinson Crusoe), Charles Dickens (Oliver Twist), Alessandro Manzoni (I promessi sposi), Alexandre Dumas (Il conte di Montecristo), Herman Melville (Moby Dick), Victor Hugo (I miserabili), Lev Tolstoj (Guerra e pace), Fëdor Dostoevskij (L’idiota). Cui aggiunge Daniel Perec, il cui La vita istruzioni per l’uso è indicato come un contemporaneo «capolavoro». La presentazione dei romanzi non è un mero riassunto, anzi: inquadrato il testo all’interno dell’intera produzione dello scrittore, la trama è accennata per quanto è necessario. Quel che conta sono alcuni snodi, alcune peculiarità – talvolta di tecnica narrativa, più spesso di significato profondo – che mostrano come nelle opere letterarie l’autore non solo ci dice sempre qualcosa di sé, ma offre il suo contributo per il progresso dell’umanità: la letteratura è una comunità che si costruisce lentamente, nei secoli, scrive Zaccuri. Ecco quindi che le opere vengono viste attraverso alcune parole chiave: nel sogno si compie il viaggio di don Chisciotte; Robinson va all’esplorazione del mondo e si trova ristretto su un’isola sperduta; Oliver è un angelo che riesce ad attraversare la nostra città piena di trabocchetti; Renzo rappresenta un’Italia che sa conservare la propria umanità, al contrario di Edmond Dantès distrutto dalla vendetta. Una vendetta che per il blasfemo capitano Achab nasce da un mistero per il quale mette in gioco la vita; la giustizia umana mostra la sua insufficienza nelle vicende intrecciate di Javert e Jean Valjean; mentre il senso della storia si rivela nella battaglia vinta grazie all’umile capitano Tušin, che combatte scalzo; la santità appare nel principe Myškin che agli uomini comuni sembra un idiota; il conte Dracula ci rende inquieti perché mostra che il male che può agire solo se ottiene il permesso dalla nostra libertà. Fino all’indagine sul destino che caratterizza la passione di Bartlebooth per i puzzle.

Oltre a fare inevitabili riferimenti ai classici fondativi della tradizione letteraria (e non solo) quali Omero, Eschilo, la Bibbia, le Mille e una notte, le Confessioni di Agostino, Zaccuri offre una serie di “rimandi interni” tra le opere di Cervantes e Dostoevskij, Defoe e Tolstoj, Dickens e Manzoni, e – pur mettendo in guardia da anacronismi interpretativi – compie alcune escursioni verso altri grandi personalità (William Shakespeare, Dante Alighieri, Honoré de Balzac, Sigmund Freud, John R.R. Tolkien) o verso adattamenti cinematografici dei romanzi esaminati. Ne risulta una fitta trama di relazioni attraverso il tempo e lo spazio tra autori che indagano (e ci aiutano a riflettere) sul senso e sui valori della nostra esistenza: il marchio più sicuro di una letteratura che può servire anche all’uomo contemporaneo. In questa sorta di «esercizio di critica letteraria rivolto a chi un libro di critica letteraria non lo leggerebbe mai», Zaccuri non manca di offrire indicazioni per riconoscere la categoria del romanzesco, di spiegare la differenza di significato tra narrare in prima o in terza persona, o di chiarire le molte possibilità che offre lo stratagemma del manoscritto ritrovato, che non è un’esclusiva dei Promessi sposi.

Resta da svelare il fine solidale. Il libro nasce da una serie di serate aperte al pubblico: in ciascuna l’autore ha illustrato uno di questi dieci classici «in cambio» di offerte di beni (cibo, vestiario, non soldi) destinati a enti caritativi e iniziative in favore dei poveri nella città di Milano. Anche i diritti d’autore sono devoluti all’associazione Nocetum che, nei pressi dell’abbazia di Chiaravalle, accoglie e sostiene donne che vivono situazioni di disagio, con i loro bambini.

Atene, c’è giustizia nella democrazia?

Recensione del libro Atene, la città inquieta di Marco Bonazzi

La scuola di Atene
Raffaello, La scuola di Atene

Una riflessione sulla storia della democrazia nella città, l’antica Atene, in cui per la prima volta si è provato a metterla in pratica. Ma anche un approfondimento sul significato della giustizia, soprattutto nell’agone politico, analizzando alcune delle più significative opere del pensiero greco, da Omero a Platone. Il saggio Atene, la città inquieta (Piccola Biblioteca Einaudi), di Mauro Bonazzi, docente di storia della filosofia antica all’Università degli Studi di Milano, individua la presenza di due linee, due opzioni, nella storia del pensiero greco che si esplica attraverso opere che solo apparentemente, e per nostre comodità classificatorie e didattiche, vengono catalogate sotto etichette diverse: poesia, storiografia, filosofia.

Da Omero a Eraclito

Al centro dell’analisi di Bonazzi è il concetto di giustizia, fondamentale per lo sviluppo ordinato della società. Nell’epos omerico, l’illusione della forza, cioè che la forza basti a risolvere i conflitti porta verso una strada senza uscita. Troppo tardi sia Achille sia Agamennone – accecati dalla strenua difesa del proprio onore, l’unico valore che possa giustificare la loro superiorità rispetto ai sudditi – riconoscono la correttezza del tentativo di composizione del loro dissidio tentato da Nestore, emblema della giustizia. Dopo il suo crudele infuriare in battaglia, anche Achille dovrà riconoscere, con Priamo, che il senso dell’esistenza umana – lungi dal trovarsi nella fama – si recupera solo nel rapporto “solidale” che si stabilisce tra esseri con lo stesso destino di morte. (Non del tutto convincente è solo il riferimento alla descrizione dello scudo di Achille, che già l’antichità valutava come più recente del resto del poema, possibile imitazione dell’Aspis pseudo-esiodeo, e quindi portatore di concezioni più “moderne” di quelle dei canti omerici).

Se tradizionalmente Esiodo è considerato il poeta della giustizia, vanamente cercata nel processo con il fratello Perse, Bonazzi osserva che però non riesce a convincere della “convenienza” del retto operare, basandosi su un paradigma di intervento divino che non sempre colpisce l’ingiusto. Analogamente inefficace risulta in ultima analisi il discorso di Solone, che cerca di costruire la giustificazione del comportamento onesto nel vantaggio che ne riceve la società intera. Entrambe le concezioni vengono “demolite” dalla constatazione di Eraclito sulla inevitabilità dei conflitti, in un ordine naturale – regno della necessità, il senso è nella realtà delle cose – di cui anche l’uomo è parte. Ma questa (parziale) conclusione pone dubbi sulla libertà dell’uomo e sulla possibilità di un’azione politica, che contrasti le ingiustizie.

Protagora e Tucidide

La riflessione dei sofisti – prosegue Bonazzi – segna uno scarto rispetto alla tradizione precedente. Tralasciato il riferimento agli dei, l’agire dell’uomo, la politica e la giustizia, vengono regolati solo sulla base della capacità di far prevalere il proprio punto di vista, vuoi nei tribunali vuoi nelle assemblee popolari. In particolare Protagora, con la sua tesi dell’uomo misura di tutte le cose, introduce una prima forma di relativismo, valorizzando le singole esperienze umane. La giustizia perde forse la lettera maiuscola, cessa di inseguire la verità, e si limita a essere il risultato delle decisioni dell’uomo: non c’è una legge divina, ma solo quella stabilita dal consenso dei cittadini. Che decidono che cosa sia utile nel confronto tra gli interessi reciproci: di qui l’importanza della virtù politica che, insita in ciascun uomo, può essere insegnata.
Un vero e proprio manifesto del valore della democrazia ateniese è il discorso di Pericle per onorare (nel 430 a.C.) i caduti del primo anno della guerra del Peloponneso, riferito da Tucidide. In questo brano celeberrimo -– osserva Bonazzi – Pericle si presenta come voce di una comunità che è stata capace di diventare una scuola per la Grecia, portando al massimo sviluppo le capacità dell’uomo e ottenendo risultati imperituri, che rendono immortali – molto più degli eroi omerici che hanno avuto bisogno di un poeta – coloro che sono morti per una tale città. Solo un cenno (meriterebbe ben altro approfondimento) all’intervento dei tragediografi nell’elaborazione di concetti politici nell’Atene del V secolo. Bonazzi esamina i casi emblematici di Oreste, matricida ma “assolto” dalla polis nelle Eumenidi di Eschilo, e Antigone, che viceversa (nell’omonima tragedia di Sofocle) si appella a leggi più alte di quelle stabilite dalla polis, «a un ordine di valori superiore a quello degli uomini».
La guerra del Peloponneso tuttavia metterà in crisi per molti aspetti la democrazia ateniese. La peste prima, le difficoltà e le sconfitte militari poi, resero gli ateniesi più “realisti”. La “scuola della Grecia” insegnò che oltre alla giustizia in politica non si può dimenticare l’importanza dell’interesse e soprattutto della forza. La terribile lezione ai cittadini di Melo, incapaci di riconoscere la loro inferiorità militare e di trarne le opportune conseguenze, è preceduta però da una trattativa che permette a Bonazzi di osservare che gli ateniesi si sono comportati in modo “moderato”, mentre avrebbero potuto comportarsi come l’omerico Achille, dedito solo all’annientamento senza condizioni dei suoi avversari. Poi, nel descrivere la guerra civile (stasis) a Corcira, Tucidide mostra che anche nei rapporti all’interno di una comunità conta «soltanto la capacità d’imporre il proprio interesse con la forza, spacciandolo per giusto». La vicenda politica di Atene mostra al massimo grado la «dinamicità intrinseca», la «incapacità di accontentarsi» propria dell’uomo, che vuole, «desidera» trasformare il mondo che lo circonda. È questa propriamente la «inquietudine» che caratterizza gli ateniesi e li rende superiori agli altri greci, come riconoscono persino i loro nemici corinzi. Però a vincere nell’umana natura, dice Bonazzi illustrando Tucidide, è sempre il desiderio, «la necessità del desiderio». Che tende a imprigionare anche la libertà dell’uomo stesso, e la possibilità di migliorare l’esistente facendo politica.

Alla fine del V secolo, la democrazia entra in crisi ad Atene, e gli esponenti aristocratici rinnovano le loro critiche. Bonazzi osserva che se Callicle mostra «il perdurare di una nostalgia omerica» nell’ammirazione verso la legge di natura che fa dominare il forte sul debole, Antifonte elabora teorie più articolate. Il retore e sofista mostra di non volersi affidare né alla natura né alla legge (che non risolve i problemi) e ripropone in termini aggiornati, l’ideale aristocratico dell’individuo capace «di usare la propria intelligenza per costruire un rapporto corretto con i propri desideri».

Platone

A capovolgere l’impostazione che aveva guidato la riflessione per secoli interviene la filosofia del più famoso allievo di Socrate. Bonazzi (citando Repubblica e Leggi, ma anche Teeteto e Gorgia) sottolinea che la contestazione più radicale portata da Platone ai pensatori precedenti parte dalla sua analisi antropologica e psicologica. In estrema sintesi, l’uomo è sì dominato dal desiderio, ma questo è una «nozione complessa». Può infatti anche essere desiderio di bene e di conoscenza: ed è quello che esprime davvero «la nostra natura più autentica». E come nell’uomo l’ordine tra le parti dell’anima che permette una vita felice è quello in cui prevale il desiderio razionale, così l’ordine dell’universo (è un kosmos, non un aggregato di materia) conferma l’esistenza di un principio ordinatore, intelligente e razionale. Compito del filosofo (l’unico che dovrebbe avere il potere politico) è osservare l’ordine dell’universo e riprodurlo, non solo dentro di sé, ma anche negli altri cittadini: la giustizia consiste in un «ordine non conflittuale tra le parti componenti di un insieme secondo il loro valore».

La novità di Platone consiste proprio nel processo di interiorizzazione della giustizia: occuparsi dell’anima prima che delle interazioni tra gli uomini. L’analisi di Bonazzi riconosce che la linea “realista” di Omero-Protagora-Tucidide viene forse per la prima volta efficacemente contrastata sul piano dei principi, dopo che la proposta di Esiodo-Solone si era dimostrata incapace di superare le sue debolezze. Dalla giustizia interiore e individuale si potrà passare alla città giusta: Socrate è stato l’unico politico di Atene perché «si è occupato delle anime dei suoi concittadini». Le due linee di pensiero, sintetizza Bonazzi nella prefazione, continuano a confrontarsi da secoli, ma hanno trovato nella città inquieta il loro primo campo di battaglia. Solo la definizione di “linea dei poeti” contrapposta a quella dei filosofi non appare del tutto appropriata, proprio alla luce del materiale esaminato e degli autori presi in considerazione.

Il destino dell’anima nel mistero dell’universo. Porfirio, filosofo neoplatonico, interpreta Omero

Conciliare Omero con Platone, la poesia e la “sapienza” omerica con la filosofia platonica era un problema non indifferente per i seguaci dell’Accademia. Il bando dei poeti che Platone – nella Repubblica (607a) – aveva decretato nella sua città ideale non escludeva infatti il sommo vate, nonostante l’elogio alla funzione di educatore svolta da Omero per la Grecia. Ecco quindi che l’interpretazione allegorica dei poemi epici consentiva di superare molte obiezioni che il testo letterale suscitava: già in età arcaica infatti, Eraclito di Efeso e Senofane di Colofone avevano criticato l’aspetto antropomorfo e i comportamenti poco edificanti degli dei omerici. Questo scopo però non esaurisce la complessità di significati e l’intreccio di tradizioni culturali e religiose che sono comprese nell’opera, L’antro delle ninfe, che il filosofo Porfirio di Tiro (232-305 circa, noto soprattutto come allievo di Plotino) dedica all’interpretazione di undici versi del canto XIII dell’Odissea (102-112) i quali, posti al centro del poema, ne finiscono per costituire, secondo questa interpretazione neoplatonica, una chiave di lettura mistica.
Si tratta di un testo di esegesi omerica “filosofico-teologica” che risale alla seconda metà del III secolo dopo Cristo, ricchissimo di rimandi e allusioni che solo con l’aiuto di un esperto è possibile cogliere. In questo percorso è ottima guida il commento che la grecista Laura Simonini ha dedicato all’Antro delle ninfe nell’edizione pubblicata da Adelphi trent’anni fa (1986) nella prestigiosa collana dei «Classici» e ristampata vent’anni dopo in formato tascabile (di facile reperibilità).
Questi, nella traduzione della curatrice, i versi omerici in questione:

In capo al porto vi è un olivo dalle ampie foglie:                                                      102
vicino è un antro amabile, oscuro,
sacro alle Ninfe chiamate Naiadi;
in esso sono crateri e anfore                                                                                          105
di pietra; lì le api ripongono il miele.
E vi sono alti telai di pietra, dove le Ninfe
tessono manti purpurei, meraviglia a vedersi;
qui scorrono acque perenni; due porte vi sono,
una, volta a Borea, è la discesa per gli uomini,                                                          110
l’altra, invece, che si volge a Noto, è per gli dei e non la
varcano gli uomini, ma è il cammino degli immortali.                                             112

Siamo a metà dell’Odissea: dopo mille peregrinazioni, il solo Odisseo – persi tutti i compagni, le navi e ogni bottino della guerra di Troia – è stato salvato dai Feaci, che si impegnano a ricondurlo in patria. La loro nave è approdata a Itaca, dove Odisseo sarà sbarcato addormentato assieme agli oggetti preziosi che il re Alcinoo e i suoi nobili consiglieri gli avevano donato. Svegliatosi, l’eroe greco incontrerà Atena, la dea amica, che gli si presenterà sotto le spoglie di un giovane e che – dopo essersi fatta riconoscere – lo aiuterà a nascondere nell’antro i beni ricevuti dai Feaci ed escogiterà con lui il piano per eliminare i pretendenti, che a corte cercano di ottenere la mano di Penelope, e riprendere possesso del regno.
Nell’introduzione del volume, Laura Simonini spiega che il pensiero neoplatonico che guida l’esegesi allegorica porfiriana del passo dedicato all’antro delle Ninfe è «il dramma della discesa dell’anima nel mondo della generazione e del suo ritorno al divino. L’antro rappresenta il cosmo, Ninfe e api significano il formarsi del corpo intorno alle ossa; le due porte dell’antro, infine, sono le vie di discesa e di risalita nel percorso cosmico dell’anima». L’interpretazione finale di Porfirio riguarda lo stesso personaggio di Odisseo, che diventa «simbolo dell’anima che è passata attraverso la generazione ed è approdata alla vera patria».

Un simbolo del cosmo stellato

Porfirio ritiene necessario svolgere un’interpretazione allegorica del passo, che – dice subito – «è un enigma». La scarsa verosimiglianza della scena (ninfe che tessono su telai di pietra in una caverna buia) e di altri particolari (gli ingressi divisi per uomini e dei) porta il neoplatonico a precisare che «non si tratta di una finzione poetica composta casualmente per affascinare l’anima del lettore», ma che il passo cela un’allegoria mistica di cui si propone si svelare il significato. Per farlo affronta un lungo percorso che parte dalla identificazione dell’antro con il cosmo: «È luogo sacro e del sacro – spiega Simonini – equivalente a un tempio… Poiché è luogo di (ri)nascita iniziatica deve dare accesso ai dominii sotterranei, infernali, e a quelli sovraterrestri, corrispondendo perciò alla nozione di centro». Porfirio risale ai significati che l’antro rivestiva per tradizioni culturali ben più ampie di quelle classiche: dal culto di Mitra inaugurato da Zoroastro a quella degli oracoli caldei. Simonini svela nelle allusioni di Porfirio riferimenti alle Idee di Platone, ai misteri di Dioniso, alle dottrine stoiche e alle credenze orfiche. Con ninfe Naiadi, spiega poi Porfirio, «indichiamo in senso specifico le potenze che presiedono alle acque ma i teologi designavano in generale tutte le anime che discendono nella generazione». Il tema dell’anima richiede un’ampia esegesi nel commento, che illustra tesi platoniche, pitagoriche, stoiche, ma anche credenze dell’Egitto e del Vicino Oriente e persino passi della Bibbia (Porfirio cita lo pneuma di Genesi 1,2) conosciuta tramite Filone, che ne dava anche una lettura allegorica. Questi capitoli, scrive Simonini, «vanno letti inquadrandoli nella concezione dell’anima elaborata dai neoplatonici» che la vedevano come «pura essenza intellegibile», a differenza dell’anima “pneumatica” che «è una forma di anima inferiore che è all’origine della conoscenza sensibile e della vita passionale». La simbologia dell’anima è affidata alle Ninfe delle acque e alle api, conclude la curatrice, proponendo una lettura che distingue due momenti: «Le Ninfe potrebbero rappresentare le anime immortali che nascendo si sposano al corpo tessuto su telai di pietra, le anime che, entrate nel mondo della generazione per la porta settentrionale dell’antro-cosmo, stanno per incarnarsi e iniziare il loro ciclo terreno, legato al divenire. Le api, invece, potrebbero simboleggiare l’anima iniziata che, compiuta la vicissitudine terrena e abbandonato il corpo, tende a uscire per l’altra porta della grotta e a tornare alla sede divina».
Per chiarire il senso delle due porte, Porfirio riprende il concetto di antro simbolo del cosmo e compie un’ampia esposizione sui dodici segni zodiacali nel cielo, attribuendo uno speciale significato ai due segni che intersecano l’eclittica ai tropici: Cancro (in corrispondenza della porta settentrionale e via per le anime che discendono nella generazione) e Capricorno (porta meridionale, via di risalita delle anime che tornano agli dei). Nel commento, Laura Simonini sottolinea che «l’introduzione del thema mundi (cioè la disposizione dei segni dello zodiaco all’inizio del mondo) è ben lungi dall’essere una digressione di Porfirio. Esso spalanca improvvisamente l’orizzonte al di là e oltre l’antro, vera imago mundi. Ma qual è il vero mondo, la vera terra?» Porfirio cita ampiamente da Numenio, siriano del II secolo d.C., filosofo neoplatonico (o neopitagorico), di cui si sa molto poco, ma che influì moltissimo sul discepolo di Plotino. Il commento coglie i riferimenti alle credenze cosmologiche antiche, dal mito della cavità del Fedone platonico alle tradizioni pitagoriche e parmenidee, dalle speculazioni misteriche di Iside e di Mitra alle dottrine di Zoroastro, che risultava legato anche al mito di Er narrato nella Repubblica di Platone. Fino a illustrare le teorie sulla Via Lattea «apparsa fin da tempi immemorabili via dei morti o degli spiriti, o più esattamente un sentiero celeste che collega il mondo divino a quello terrestre». Sebbene di origine più antica, «fu soprattutto il pitagorico Numenio – osserva Simonini – a propagare la credenza caldeo-iraniana del percorso planetario delle anime e della risalita delle anime giuste fino alla Via Lattea».
Porfirio poi torna a esaminare l’olivo citato nel primo verso del passo analizzato (102): «Non si tratta di una pianta germogliata lì per caso: essa abbraccia e dà unità all’intero enigma dell’antro». L’olivo è simbolo della saggezza della dea Atena, e la saggezza «ha un significato rilevante – commenta Simonini – nell’etica di Porfirio, che sviluppa con originalità spunti plotiniani». Il filosofo la definisce come «pensiero che conduce l’anima verso l’alto»: l’incontro con la saggezza quindi «è anche incontrare o ritornare a se stessi, purificarsi». Porfirio in conclusione cita i discepoli di Numenio che «ritennero che Odisseo per Omero fosse nell’Odissea l’immagine di colui che passa attraverso tutti gli stadi della generazione per ritornare in tal modo tra coloro che sono estranei a ogni flutto e inesperti del mare» (secondo la profezia di Tiresia in Odissea XI, 122-123). Gli «stadi della generazione» richiamano ancora una volta, secondo dottrine platoniche e pitagoriche e tenendo conto del simbolo mitraico della scala a sette porte, le peripezie dell’anima nel cosmo alla ricerca della vera patria. «Ora si inquadra meglio – osserva Simonini – la digressione sul thema mundi, l’oroscopo del mondo: esso è l’inizio ma anche il termine delle peregrinazioni cosmiche dell’anima e delle sue metensomatosi». Omero, conclude Porfirio, «ha nascosto l’immagine di realtà più divine sotto la finzione di una favola».

Molte tradizioni, un unico sapere, le domande di sempre

Questa rapida sintesi, per quanto appaia corposa, non rende pienamente ragione della grande quantità di tradizioni analizzate nel commento di quest’operetta (testo e traduzione occupano 25 pagine ciascuno, il commento ben 162). Dall’indice degli autori moderni citati emergono non solo filologi classici e studiosi del mondo antico, ma anche filosofi e storici delle religioni. Per non parlare delle fonti, che spaziano da un ampio numero di opere letterarie greche e latine classiche e dagli ovvi scolii omerici (compresi commentatatori più tardi come Eustazio) ai frammenti degli orfici, dai testi della letteratura vedica ai passi biblici, fino a molti autori cristiani e padri della Chiesa. La scomparsa della curatrice prima della pubblicazione rende forse ragione di un paio di punti non chiarissimi; non molto apprezzabile mi pare la scelta editoriale di trascrivere le parole greche in caratteri latini.
L’interesse che suscita questo testo non deriva tanto dalla sua qualità letteraria, quanto dalla sua polytropia, quella versatilità di cui è simbolo lo stesso Odisseo (vedi Odissea I, 1). Laura Simonini vede in questo testo «una particolare esemplificazione della polytropia letteraria: il dramma dell’anima è raccontato nei molti modi dei sophoi, come attraverso gli infiniti rivoli di un unico, grande “sapere”. Porfirio afferma programmaticamente il suo ricorso alla tradizione: con l’aiuto degli antichi e con le proprie capacità egli cerca di rin-tracciare il cammino che porta alla comprensione, alla verità; con quegli antichi che sono un tesoro di saggezza. E non solo gli antichi e i teologi della tradizione greca, ma un insieme di culture e di tradizioni che abbracciano tutto il mondo dell’epoca: egiziani, caldei, romani, gnostici, ermetici, mitraisti, le scritture bibliche». Una interpretazione con una molteplicità di piani e di significati quali poteva compiere un dotto pagano – e fieramente anticristiano – della tarda antichità, nella ricerca – peraltro senza tempo e senza confini culturali o religiosi – delle risposte ai misteri dell’esistenza.

Questa presentazione è un piccolo tributo a un’insegnante appassionata, che ha contribuito negli anni liceali a farmi amare la lingua e la letteratura greche, e in particolare le opere teatrali.