A vent’anni dall’approvazione della Convenzione di Oviedo, si svolge a Roma lunedì 18 dicembre un convegno focalizzato sul divieto di profitto dal corpo umano. Un’introduzione al tema con la riflessione di alcuni relatori nel mio articolo pubblicato giovedì 14 dicembre su Avvenire
Vent’anni fa gli Stati membri del Consiglio d’Europa «consapevoli delle azioni che potrebbero mettere in pericolo la dignità umana da un uso improprio della biologia e della medicina» approvarono la Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, più spesso citata come Convenzione di Oviedo. Si tratta di un testo più specifico della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (promossa dall’Onu) e di altre Convenzioni che si sono susseguite nei quasi 70 anni di storia del Consiglio d’Europa. Tra i punti caratterizzanti la difesa della dignità umana, la Convenzione di Oviedo sottolinea a più riprese la necessità del consenso della persona (malato, donatore di cellule, organi o tessuti, oppure soggetto sottoposto alla ricerca medico-scientifica); e chiede di guardare in un’ottica di equità alle cure sanitarie. In particolare l’articolo 21 – che vieta che il corpo umano e le sue parti diventino fonte di profitto – sarà oggetto, lunedì prossimo, di un convegno organizzato a Roma dall’Istituto superiore di sanità (Iss), in collaborazione con Centro nazionale trapianti e Centro nazionale sangue. Proprio nel campo della donazione di organi e sangue, l’auspicio a «diffondere la cultura della donazione volontaria» espresso da Carlo Petrini, direttore dell’Unità di Bioetica dell’Iss, vuole prevenire il rischio «dello sfruttamento delle categorie più vulnerabili». E il principio di guardare al bene della società è in linea con le parole di papa Francesco, nel messaggio per la prossima Giornata mondiale del malato: «Far entrare la cura della salute nell’ambito del mercato» finisce «per scartare i poveri». La Convenzione di Oviedo peraltro non è stata ratificata da tutti gli Stati del Consiglio d’Europa: anche l’Italia, che pure l’ha sottoscritta non ha completato l’iter, nonostante «nel 2012 il Comitato nazionale per la bioetica abbia fatto un appello in tal senso», ricorda Petrini.
Trarre profitto dal corpo umano ha conseguenze negative per la società, spiega Lorenzo D’Avack, presidente vicario del Comitato nazionale per la bioetica, attraverso gli esempi della vendita di un rene e del contratto di maternità surrogata: «Perché il donatore sarà disposto a vendere il suo rene? Perché una donna sarà pronta a vendere il frutto del suo ventre?». In entrambe i casi si passa da «venditori poveri» ad «acquirenti ricchi». L’indisponibilità del corpo va difesa non «sulla base di un’etica universale e astratta » ma per la «costruzione di una giustizia sociale nelle società complesse » che «richiede che una serie di beni siano sottratti al mercato». «Anche se c’è un accordo generale sul divieto di trarre profitto dalla donazione di materiale biologico di origine umana (a partire dal sangue), recepito dall’articolo 21 della Convenzione di Oviedo – spiega il giurista Alberto Gambino, presidente nazionale di Scienza & Vita – quello che crea una dialettica, sono le culture di riferimento dei singoli ordinamenti nei quali il principio va ad attuarsi». Infatti in alcuni ordinamenti nazionali non si escludono rimborsi spese «che in taluni casi sono più ampi della mera presentazione di ricevute e spese sostenute». Per esempio «in Germania, permeata da un’etica protestante che valorizza la persona anche in relazione al lavoro che svolge vede con maggiore rigore la necessità di un rimborso che colmi le rinunce che si fanno per la propria attività che viene sospesa. In altri Paesi come Francia, Italia o Spagna è più forte un’etica cattolica legata alla cultura della solidarietà e che vede la gratuità strettamente legata alla cultura del dono».
Osserva Paola Binetti (deputato di Idea, che lunedì parlerà della cultura del dono in questa legislatura): «Anche nella Convenzione di Oviedo il dono del proprio corpo passa dal presupposto della libertà, della dignità personale e della gratuità. Non c’è dono senza libertà: i protagonisti sono i soggetti stessi; e al dono viene collegata la nozione di gratuità. Nella Convenzione di Oviedo la dignità di una vita umana è infinita anche quando è provata dal dolore, dalla malattia, dalla disabilità. Mentre dalla compravendita la logica del dono viene capovolta». Peraltro la Convenzione di Oviedo non è stata sufficiente a evitare alcune sentenze perlomeno discutibili per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani. «La giurisprudenza non prende decisioni direttamente sugli articoli della Convenzione di Oviedo – chiarisce Gambino – , ma su articoli di diritto interno “rafforzati” con altri della Convenzione. La sua forza è che comunque ha rappresentato un orizzonte comune, la debolezza è che all’interno delle singole giurisdizioni non ha avuto mai la forza di rappresentare l’unica fonte normativa». «Esiste il problema che questi accordi su principi generali – aggiunge D’Avack – non sono norme del tutto vincolanti dal punto di vista giuridico. E forse, nonostante i protocolli aggiuntivi, la Convenzione di Oviedo avrebbe bisogno di un aggiornamento ». «Credo – chiarisce D’Avack – che oggi si dovrebbe parlare più che di bioetica di tecnoetica, tanti sono stati in questi 20 anni gli avanzamenti della tecnologia e tanto è il peso che ha assunto nelle attività umane. La Convenzione è pensata sul presupposto che la scienza è un grande utile per la società, ma è anche un rischio perché può mettere in discussione la dignità dell’uomo». E anche se «secondo alcune correnti scientiste comitati etici e Convenzioni sono limiti impropri verso lo sviluppo della scienza, ritengo che la società debba tutelare le persone più vulnerabili».