Covid-19, in Italia poca attenzione alla prevenzione. Occorre cambiare rotta

Ripubblico qui due miei articoli, usciti su Avvenire domenica 19 aprile e giovedì 2 aprile 2020: il primo esamina con alcuni esperti la situazione di impreparazione in cui è stato colto il nostro sistema sanitario e socio-assistenziale dalla pandemia di coronavirus. Il mancato aggiornamento di un Piano pandemico efficace e la generale sottovalutazione del pericolo incombente tra le maggiori criticità. Il secondo è un’intervista che indicava alcune strategie per recuperare il tempo perduto.

Quali lezioni trarre dall’emergenza Covid 19 per la tutela della salute pubblica? Come hanno risposto le Regioni alle necessità di gestione del sistema sanitario? Quali priorità in un Paese come l’Italia, alle prese con difficoltà di bilancio?Innanzitutto i dati non sono sempre chiari. «Nessuno sa se il paziente uno di Codogno fosse in realtà il paziente dieci, cento o mille – osserva Giovanni Corrao, docente di Statistica medica all’Università di Milano Bicocca –. Nella maggior parte delle malattie infettive vediamo solo la parte emersa dell’iceberg, cioè le persone che si riversano sul servizio sanitario per una cura perché hanno sintomi gravi». Ma nel caso del Sars-CoV-2 c’è stata una complicazione: «Abbiamo scoperto che il virus è trasmissibile prima della comparsa dei sintomi, e questo era del tutto imprevedibile – aggiunge Giovanni Capelli, docente di Igiene generale applicata all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale –. Anche l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) si è mossa in ritardo, forse erano convinti che fosse qualcosa di simile alla Sars, ma un indice di diffusione così alto non si vedeva forse dalla Spagnola del 1918». Di fronte a un contagio che avanza, serve un Piano pandemico, che era stato avviato in Italia dopo la Sars del 2003-04 e rivisto in occasione della pandemia di H1N1 del 2009: «Il nostro però (aggiornato nel 2013 e nel 2016) è troppo generico – puntualizza Americo Cicchetti, direttore dell’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari dell’Università Cattolica (Altems) –. Un Piano pandemico dovrebbe essere elaborato con livelli di dettaglio tali che possano rappresentare linee di indirizzo immediatamente operative per le regioni, dovrebbe chiarire in maniera molto puntuale quali sono le strutture organizzative da mettere in campo e che cosa deve essere rafforzato rispetto alla normale dotazione, altrimenti è poco utile».

Il Paese ha una generale disattenzione alla prevenzione: «Innanzi tutto ravanò disabituati alle malattie infettive. Poi è più facile che si ringrazi il chirurgo che toglie il tumore – osserva Capelli – che il medico che fa vaccinazioni. Del resto abbiamo uno dei tassi più bassi in Europa di personale sanitario vaccinato contro l’influenza». «Inoltre nel nostro Paese, e specie in Lombardia, sono stati trascurati da decenni i laboratori di sanità pubblica, che tutelano la salute della popolazione – aggiunge Corrao – in favore di una medicina di precisione, che guarda all’individuo ed è costosissima».

Quando il contagio si è diffuso, ciascuna regione ha reagito come ha saputo, spiega Cicchetti: «In Altems abbiamo predisposto report settimanali per analizzare come hanno risposto i modelli organizzativi regionali (con focus su Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte, Lazio e Marche) e come si stanno adattando, cercando di fornire la soluzione migliore alle medesime indicazioni, fornite dal ministero della Salute e dall’Istituto superiore di sanità. Ogni Regione si è basata su ciò che aveva: la Lombardia un modello molto ospedalocentrico, di alta specializzazione; il Veneto con le Unità complesse di cure primarie (Uccp) puntando sull’assistenza domiciliare e la ricerca proattiva; l’Emilia-Romagna un po’ a metà tra ospedale e territorio, utilizzando le Case della salute».

Le risposte, e la loro efficacia, cambiano anche in relazione all’incidenza dei contagi, spiega Cicchetti: «In Lombardia si è arrivati a 0,61% dei casi sulla popolazione regionale, nel Lazio siamo allo 0,09%. È incomparabile il modo in cui è stato sotto pressione il sistema lombardo rispetto a quello laziale: la Lombardia ha risposto secondo quello che sapeva fare in una situazione che comunque era molto più grave rispetto a quella di tutte le altre regioni». «Stime dell’Istituto superiore di sanità su cartelle a campione – precisa Capelli – ipotizzano che è venuto a contatto con il virus il 10% della popolazione. Ma il sovraccarico ospedaliero ha funzionato da moltiplicatore. Il confinamento di Codogno si è dimostrato uno strumento efficace, ma si riusciva a chiudere subito la Lombardia?». Un altro strumento sono le Unità speciali di continuità assistenziale (Usca) previste dal decreto dell’8 marzo nella misura di una ogni 50mila abitanti: «Sono gruppi di medici, presi da servizi meno impegnati, che vanno a domicilio – chiarisce Cicchetti –, per governare le cure intermedie, la transizione tra ospedale e casa e fare in modo che persone con sintomi o convalescenti possano essere gestite a domicilio. Restano monitorate, anche con tamponi, senza andare in ospedale». In Lombardia ne sono state attivate 44, ma ne serviranno 200.

Le misure di sanità pubblica, negli ultimi 20 anni, si sono spesso scontrate con il nodo risorse: «Spinti dalle necessità di maggiore efficienza dettate dal ministero dell’Economia – spiega Cicchetti –abbiamo cercato di far girare il motore del Servizio sanitario a un numero di giri altissimo senza aumentare la cilindrata, anzi riducendola un po’. Però se si spinge al limite, c’è il rischio che in un’emergenza (una salita, un sorpasso) il motore non ce la faccia più. Invece bisogna lasciare un piccolo margine: per paura di riempirli male o non riempirli, abbiamo ridotto i posti letto fino ad averne 3,7 per milione di abitanti e 5mila osti in terapia intensiva; la Germania, che ha 20 milioni di abitanti più di noi, ha il doppio dei posti letto e 28mila in terapia intensiva. I posti letto possono essere gestiti in modo appropriato anziché cancellarli, e tornano utili proprio nelle emergenze (epidemie, terremoti, alluvioni)». «Spero che questa pandemia – aggiunge Corrao – dimostri che di una sanità pubblica, universalistica, non si può fare a meno». «Ora non serve – conclude Capelli – la caccia all’untore, ma capire che gli errori costano e non vanno ripetuti. Avere fretta di riaprire attività inutili significa rischiare un’altra ondata».

«È il momento di programmare il futuro»

«Al netto della grande dedizione e professionalità che il personale sanitario ha mostrato e continua a mostrare nella cura dei malati di Covid-19, da questa pandemia dobbiamo trarre molte lezioni. E per uscirne dobbiamo già oggi prevedere una serie di interventi che invertano una rotta che ci ha portato ad affrontare l’emergenza senza la necessaria preparazione». Americo Cicchetti, direttore dell’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari (Altems) dell’Università Cattolica del Sacro Cuuore, teme che i rischi per la salute non saranno finiti dopo l’emergenza, e pensa che si debba cominciare a predisporre già ora un piano per la ripresa.

Che lezioni si possono trarre dall’epidemia di Covid-19?

La crisi si è innestata in un momento di debolezza del Ssn già provato da anni di decrescita della spesa e lo tsunami è arrivato anche nelle Regioni in cui il sistema era migliore perché aveva già raggiunto livelli di efficienza che lo avevano portato al limite. La conseguenza è che la risposta è stata scoordinata e la reazione lenta anche perché non avevamo un piano pronto e credibile. In Italia il piano per la pandemia influenzale, da utilizzare in casi come questo, è del 2007 ed è stato solo aggiornato marginalmente nel 2016. Il Gruppo tecnico consultivo nazionale sulle vaccinazioni (di cui faccio parte), con la responsabilità della strategia per le malattie infettive, si è riunito una volta sola dopo che è stato ricostituito nel 2018 e non ha mai trattato questo tema.

Hanno pesato il blocco del turn over e i piani di rientro?

La spesa sanitaria è cresciuta tra il 2000 e il 2005 di circa il 6% l’anno, e di circa il 3% fino al 2011, perché erano partiti i piani di rientro del debito nelle Regioni. Dal 2011 è cresciuta – in media – meno dell’1% l’anno. Negli ultimi 5 anni è cresciuta di circa un miliardo l’anno, cioè meno dell’inflazione: quindi è come se si fosse ridotta. Questo ha pesato soprattutto nelle regioni sottoposte ai piani di rientro, quasi tutto il Centro-Sud, ma ha avuto effetti anche al Nord. In questi stessi anni, la spesa sanitaria è cresciuta intorno al 4% l’anno in Paesi quali Francia, Germania e Regno Unito. Dal 2021 entreranno in vigore nuovi indicatori per i Livelli essenziali di assistenza (Lea), perché sono cambiati i bisogni: il numero di over 65 da seguire in assistenza domiciliare, i posti letto in lungodegenza per anziani disabili, o il tasso di copertura degli screening per tumori. Questi nuovi Lea, oggi, non li rispetterebbero 9 Regioni su 20.

Quali problemi per la sanità dopo la crisi del Covid-19?

Una grande quantità di interventi e ricoveri programmati e ora rinviati. Ho esaminato i dati del ministero della Salute sulle schede di dimissione: i ricoveri in ospedali per acuti nel 2018 sono stati 7,9 milioni, da marzo a giugno ne perderemo un milione, con 520mila interventi chirurgici. Da luglio si dovranno recuperare: si allungheranno le liste d’attesa e ci sarà pressione sul sistema sanitario. Ricordiamo che non tutti i malati oncologici continuano i trattamenti, perché i pazienti più fragili è bene che non vadano in ospedale. L’Associazione italiana di oncologia medica segnala che vengono sospese le immunoterapie oncologiche ai malati di Covid-19, perché si teme che possano mettere a rischio il sistema immunitario di tali pazienti.

Come evitare danni ulteriori alla salute della popolazione?

Alcuni provvedimenti sono già stati emanati e sono opportuni. Riguardano il personale del Ssn che potrà essere rinforzato, si spera non solo per l’emergenza ma in modo strutturale. Anche le Unità speciali di continuità assistenziale (Usca) previste dal Decreto legge 14/2020 sono strutture purtroppo non attive ancora in tutte le Regioni, ma sono un presidio che potrebbe essere utile anche per il futuro. È necessario mettere in conto un’accelerazione dei ritmi di funzionamento delle sale operatorie con sedute non più di 8 ore ma di 14, aumentare le équipe, compresi gli infermieri. Stesso ragionamento per le radiologie o i laboratori di analisi. Per un certo periodo alcune strutture e tecnologie (l’alta diagnostica) dovranno funzionare h24 per recuperare il tempo perduto. Tutto ciò è possibile con le adeguate risorse, ma anche con adeguata programmazione e preparazione. È il momento di programmare il futuro.

Disabili, la battaglia per i diritti è ancora lunga

220px-Handicapped_Accessible_sign.svgUn catalogo, una serie nutrita di esempi di come le persone con disabilità – congenita, acquisita o provocata – siano state nel corso dei secoli il più delle volte maltrattate, quando non perseguitate o addirittura uccise, sotto i diversi cieli e nelle differenti epoche. Con l’aggiunta di luminosi esempi di individui che le hanno invece considerate per quello che sono: persone umane con la stessa dignità di tutti. Mi pare questo, in estrema sintesi, il contenuto di Diversi, il volume di Gian Antonio Stella, pubblicato da Solferino (la proposta editoriale del Corriere della Sera). Poco? Tanto? Non saprei. Certamente l’autore mostra un evidente disgusto per le discriminazioni e talvolta le violenze a cui i disabili sono stati e sono spesso sottoposti. Ma il sottotitolo del volume è del tutto fuorviante: La lunga battaglia dei disabili per cambiare la storia. Questa fine virtuosa non si riscontra né nel libro, né – ahimè – nella realtà. 

Una carrellata, dunque, di persone con disabilità di tutti i tipi, fisiche o mentali, e un panorama piuttosto variegato di atteggiamenti che loro riserva le società. Perché se è vero che «dall’antichità a oggi è cambiato il mondo», lo stesso Stella subito dopo aggiunge «meno però di quanto ci raccontiamo». Si avvicendano quindi storie di nani, di persone colpite dalle più varie malformazioni congenite o da disabilità psichiche, ma anche la storia di mutilati per chiedere elemosina o dei castrati per cantare con la voce bianca: con testimonianze a volte affidabili o contemporanee, altre volte aneddotiche o leggendarie. E un inevitabile ampio spazio dedicato all’eliminazione programmatica dei disabili portato avanti con Aktion T4 durante il nazismo.  

Stella si sofferma anche sugli aspetti numerici della disabilità: secondo stime dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) le persone disabili sarebbero oltre un miliardo. In Italia circa 4 milioni e mezzo, cui sono stati destinati – nel 2016 – circa 28 miliardi di euro, il 5,8 per cento del totale della spesa per la protezione sociale, l’1,7 per cento del pil. Ma il problema non è solo economico, anche se le risorse sono una necessità. Il problema è la «cultura dello scarto», come la definisce papa Francesco (di cui Stella cita l’Evangelii gaudium): «Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare». 

«Sarebbero migliaia, le storie da raccontare, per capire come la disabilità sia stata vissuta per secoli e secoli. Come sia stato difficile il percorso dei disabili per cambiare la storia». Questo assunto dell’autore, che dà il via alle decine di mini racconti, è però quanto mai discutibile. Non solo Stella stesso documenta come esistano tuttora molti pregiudizi, spesso coperti dall’ipocrisia del linguaggio politicamente corretto. Non basta infatti inorridire di fronte agli esempi di sevizie di cui sono stati vittime nel corso dei secoli le persone con malformazioni, che non solo rendevano loro impossibile il lavoro, ma che richiedevano moltissime cure. O stupirsi delle condizioni di isolamento cui venivano destinati i lebbrosi, vittime di una malattia contagiosa e per millenni senza cura: come ha dimostrato la recente pandemia, di fronte a una patologia trasmissibile, la società cerca di preservarsi più che badare al singolo individuo. Né risulta particolarmente utile sorridere delle spiegazioni più strane che nei secoli si sono offerte per giustificare le nascite “imperfette”, dalle colpe dei genitori alle implicazioni teologiche della presenza del male nel mondo.

Manca del tutto una riflessione storica, che segni come il progresso nel considerare di pari dignità e diritti tutti gli esseri umani resta ancora troppo spesso sulla carta. Ma è difficile dire che questo processo sia frutto di una battaglia combattuta dai disabili, quanto dalla riflessione dell’umanità nel corso degli ultimi decenni soprattutto. E con molte eccezioni. Si poteva richiamare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) che, dopo gli orrori dell’ultima guerra, stabilisce che «ogni individuo ha diritto alla vita». O la classificazione internazionale della funzionalità (Icf), il paradigma adottato dall’Oms per stabilire gli interventi da attuare nell’ambiente per ridurre la condizione di disabilità, un testo non a caso osteggiato da alcuni Paesi che non intendono essere impegnati a ridurre barriere (non solo architettoniche) e adottare facilitatori. O ancora la Convenzione dei diritti delle persone con disabilità (2006), peraltro contraddetta platealmente dalla piaga dell’aborto, che in molti Stati permette di eliminare i nascituri nel grembo materno. E anzi, quando se ne scopre qualche disabilità, spesso la legislazione è ancora più spietata, come in Gran Bretagna, dove la soppressione del bambino – se disabile – è permessa fino alla nascita. Così come le manipolazioni rese possibili dalla fecondazione assistita hanno favorito il diffondersi di pratiche eugenetiche, sfacciatamente difese da Peter Singer, ma tacitamente accettate e adottate da molti Stati, compreso il nostro. Discorsi eugenetici “liberali”, frutto della più o meno libera convinzione dei cittadini, si sono sentiti in Italia nel 2005 in occasione dei referendum sulla legge 40, ma tuttora emergono quando viene rivendicato il “diritto” al figlio sano. E proprio alcune categorie di disabili, per esempio le persone con sindrome di Down, aldilà degli esempi anche edificanti ricordati da Stella (tra cui l’amore di Charles De Gaulle per la figlia Anne), sono bersaglio privilegiato di questa esclusione dal diritto alla vita, il primo e fondamentale diritto che una società dovrebbe garantire a tutti i suoi cittadini, specie ai più deboli.

Citare – come fa Stella – alcuni esempi di persone straordinarie, come Henry Toulouse-Lautrec, Giacomo Leopardi, Michel Petrucciani o Stephen Hawking, che si sono distinte nel mondo nonostante disabilità fisiche molto gravi, non basta alla causa dei disabili, non dimostra che hanno vinto la battaglia «per cambiare la storia». Il libro resta un catalogo variopinto: il progresso della società nell’accoglienza di ogni essere umano, che pure in parte c’è stato, è però ben lontano dall’essere consolidato ed essere diventato patrimonio comune. E avrebbe richiesto altri approfondimenti.

Naldini: bimbi “modificati”, l’ora di fermarsi

Diciotto scienziati su Nature hanno lanciato un appello per chiedere di sospendere l’uso delle tecniche di gene editing per far nascere bambini modificati nel loro genoma (una traduzione italiane del testo è sul sito della rivista Le Scienze). Luigi Naldini, direttore dell’Istituto SR-Tiget di Milano, è l’unico italiano a far parte del gruppo e nell’intervista pubblicata ieri su Avvenire spiega le ragioni di questa scelta.

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Luigi Naldini

«Si tratta di un’assunzione di responsabilità da parte degli scienziati, che capiscono di non poter decidere da soli su temi che riguardano l’intera società. E nello stesso tempo si vuole stigmatizzare un atteggiamento “eticamente disinvolto” che può creare nell’opinione pubblica sconcerto e diffidenza nei confronti della scienza». Luigi Naldini, direttore dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica (SR-Tiget) di Milano, è tra i 18 scienziati firmatari dell’appello – pubblicato su Nature – per una moratoria sull’uso clinico dell’editing genetico per far nascere bambini modificati nel loro genoma. Naldini è l’unico italiano a far parte di un gruppo di lavoro internazionale che ha stilato le prime linee guida sull’uso del gene editing con la potente tecnologia del Crispr/ Cas9. A suscitare la richiesta di moratoria è stato soprattutto il caso delle gemelline fatte nascere con il Dna modificato in laboratorio per migliorare la resistenza all’infezione da Hiv: un “esperimento” condotto dal biologo cinese He Jiankui a Shenzen, che ha trovato il biasimo unanime della comunità scientifica internazionale, e della sua stessa università.

Chi sono e perché hanno ritenuto di dover intervenire gli scienziati che hanno chiesto la moratoria?

È un gruppo di scienziati che ha preso l’iniziativa autonomamente, senza “investiture”, ma che rappresenta il fulcro dell’avanzamento tecnologico, che gravita principalmente intorno a Boston (Stati Uniti). Sono tutti ricercatori “in prima linea”, molti autori o sviluppatori di queste tecniche biotecnologiche, come Emmanuelle Charpentier, che ha contribuito a scoprire il Crispr/Cas9, o Feng Zhang; o Eric Lander, il direttore del Broad Institute. Altri sono bioeticisti, oppure ricercatori (come il sottoscritto) attivi nel gene editing sul fronte clinico o della ricerca, ma tutti nel campo somatico, cioè per correggere malattie di individui già nati: un ambito di applicazione che nessuno vuole fermare. Hanno deciso di intervenire per rispondere a quanto successo in Cina con la nascita delle gemelline nel novembre scorso. Questo ricercatore si è mosso in modo spregiudicato: ora è stato “condannato” ma il caso ha evidenziato che la rete di controllo ha maglie troppo larghe, perché la comunità degli scienziati aveva già invitato alla prudenza e a non applicare il gene editing per far nascere bambini, sia per motivi scientifici, relativi alla sicurezza, sia per motivi etici, non ancora affrontati dalla società.

Scienza ed etica: quali sono i benefici attesi e quali le incognite di questa tecnica sull’uomo? E perché un ricercatore pensa di lavorare per un miglioramento genetico o un potenziamento delle facoltà umane?

La tecnica di per sé ha una grande promessa, perché ci permette di intervenire in modo preciso e mirato sul genoma per correggere alcune mutazioni: nella maggior parte dei laboratori che operano sulle cellule somatiche si lavora con cautela alla sperimentazione sull’uomo per curare una malattia, inattivando un gene o correggendo una mutazione genetica. È una forma di terapia genica avanzata complessa, un ambito non controverso, non toccato dalla moratoria. Le cose cambiano se pensiamo di applicare la tecnica alla linea germinale (ovociti e spermatozoi) o agli embrioni, perché non interveniamo su una malattia ma su quello che sarà il corredo genetico di un nascituro e decidiamo noi di modificarne alcune componenti: nella migliore delle ipotesi per prevenire la trasmissione di un gene-malattia, ma in Cina sono arrivati a inattivare un gene perché potrebbe dare un vantaggio rispetto all’infezione di un virus. È un intervento non supportato dalla scienza, esce da una logica di prudenza. Se quel gene c’è nel genoma probabilmente serve anche per altre cose, che non conosciamo. E se uno scienziato vuole modificare il genoma umano mi sembra un dottor Stranamore che opera con presunzione (hybris, avrebbero detto i greci), che vuole ignorare i limiti delle conoscenze scientifiche. Sul potenziamento, bisogna distinguere: nelle terapie si cerca di rendere più forte una cellula, per esempio del sistema immunitario contro il tumore, come con la terapia Car-T, cellule prelevate dal paziente e reinfuse dopo averle modificate in laboratorio. Lo stesso non si può fare per potenziare l’intero sistema immunitario, che risulterebbe senza freni. E così, correggere un difetto genetico che impedisce a un bambino di crescere può avere un significato, ma potenziare il genoma della linea ereditaria mi sembra oggi fuori da una logica scientifica.

Perché nell’appello prospettate il coinvolgimento degli Stati? E quello dell’opinione pubblica? La gente ne sa poco o nulla: come può costruirsi un giudizio fondato e non solo emotivo, o condizionato dal business?

Il potere decisionale e normativo appartiene agli Stati. Non sono i comitati scientifici a poter decidere se certe operazioni sono lecite o meno. Ci sono legislazioni (come quella italiana, ma non è l’unica) che vietano la ricerca sugli embrioni, anche se è importante continuare a seguire il dibattito. La chiamata di apertura alla società è un’assunzione di responsabilità, ma anche di umiltà, da parte della comunità scientifica, che accetta che su questi temi non possa decidere la tecnica («si fa perché si può fare») ma neanche gli scienziati da soli, che hanno i loro conflitti di interesse. Sono d’accordo sulle difficoltà di interpretare la pubblica opinione: si tratta di coinvolgere gruppi e rappresentanti di interessi diversi nella società, per costruire un meccanismo di consenso più allargato, che non riguardi solo gli scienziati. Una posizione che forse non tutti i ricercatori condividono.

Nella ricerca sono presenti interessi commerciali ingenti, e il vostro appello ammette passati fallimenti, come sul bando alla clonazione: la moratoria funzionerà, questa volta?

Proprio nell’area di Boston su queste tecnologie c’è un grosso investimento industriale, ma finalizzato al gene editing in campo terapeutico, con le cellule somatiche. Quel mondo tecnologico è il primo a sconsigliare di toccare la linea germinale, perché teme di suscitare reazioni negative nella società – dal punto di vista etico – che portino a legislazioni capaci di bloccare ogni esperimento, come è accaduto in alcuni Stati con gli Ogm in agricoltura. Il mondo industriale tecnologico è necessario perché servono risorse e capacità. Quanto alla clonazione, è vero che non si è arrivati a un divieto formale, ma quel dibattito ha creato una forte stigmatizzazione di ogni tentativo di realizzarla. Non è più stata nell’agenda di nessuno la clonazione terapeutica di un essere umano. Nel nostro caso, non siamo tutelati al 100 per cento, ma i Paesi hanno tutti una posizione fortemente contraria a un uso del gene editing per far nascere esseri umani modificati geneticamente. E il dibattito degli scienziati, delle agenzie internazionali come l’Organizzazione mondiale della sanità, e degli Stati contribuisce a tenere alta l’attenzione per evitare simili derive.