I mille volti di Atene e la fame di giustizia di Manzoni

Un viaggio attraverso i secoli che ha vissuto Atene e due articoli su Alessandro Manzoni – di cui nel 2023 ricorre il 150° della morte – hanno trovato spazio sulle pagine culturali dei quotidiani di domenica 15 gennaio.

Accompagnare un visitatore ad Atene svelando la stratigrafia della città lungo i secoli è il compito che si è assunto Giorgio Ieranò nel suo libro Atene. Il racconto di una città che appare recensito sia dal Corriere della Sera, sia dal supplemento culturale “Domenica” del Sole-24Ore. Su quest’ultimo, Cinzia Dal Maso («L’Acropoli oltre l’Acropoli») scrive che si tratta di «una guida sentimentale ai luoghi che hanno fatto la sua storia, per scoprire la città vera che ha mille anime oltre il suo intramontabile mito». Nel libro di Ieranò (che insegna Letteratura greca all’Università di Trento), scrive ancora Del Maso, «ogni capitolo intreccia miti ancestrali e storie antiche con la vita moderna e contemporanea, e rende così il senso profondo della riscoperta moderna della città antica in tutte le sue sfaccettature e contraddizioni». In definitiva, «un libro che si divora come un romanzo».

Sul Corriere della Sera, Mauro Bonazzi («Miti e storia, tesori e razzie. Com’è difficile essere Atene») esamina il libro di Ieranò fotografando la storia della città attraverso alcune tappe chiave: la distruzione che ne fecero i persiani nel 480 a.C., l’assedio dei veneziani capitanati da Francesco Morosini nel 1687 (con il bombardamento che ha semidistrutto il Partenone), e la razzia dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli, Lord Elgin, che all’inizio dell’Ottocento portò a Londra molte delle sculture rimaste sul tempio che domina l’Acropoli. Se il mito di Atene nasce con Pericle, scrive Bonazzi, esso rinasce – e potremmo dire si consolida – nell’Ottocento. Un’epoca in cui la Grecia tornata indipendente viene governata dal re Ottone I di Baviera che si affida ad alcuni architetti nordici, Theophil Hansen e Ernst Ziller, per dare un nuovo volto alla capitale. Da «città colorata, variopinta, balcanica», Atene «si sbianca: quasi tutti i quartieri centrali vengono rasi al suolo. Al loro posto sorgono edifici neoclassici, bianchi e marmorei». E se effettivamente l’aspetto di Atene dall’alto oggi è prevalentemente bianco, o chiaro, come appare arrivando in aereo o dai punti di osservazione panoramici (Licabetto, Filopappo, la stessa Acropoli), lo stesso non si può dire delle sue strade vivaci della Plaka o intorno a Monastiraki.

Restando al tema dei marmi del Partenone, è tornata di attualità la disputa tra il governo greco e quello britannico per la restituzione delle statue e dei fregi custoditi oggi al British Museum di Londra. Le trattative vanno avanti da tempo, e nelle scorse settimane, alcune notizie apparse sulla stampa britannica davano per possibile un accordo sulla base di un «prestito di lunga durata» o addirittura «permanente». Tuttavia, da un lato il governo greco ha ribadito che non riconosce altro che la restituzione di quanto portato via da Lord Elgin, dall’altro il ministro della Cultura del Regno Unito, Michelle Donelan, ha poi ribadito che non c’è alcuna intenzione di restituire qualcosa. Vedremo se la disputa, avviata almeno a partire dall’azione di Melina Merkouri, ministro della Cultura della Grecia alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, avrà una soluzione. Certo è che non si può più dire che i preziosi reperti ad Atene non troverebbero una collocazione adeguata: il moderno Museo dell’Acropoli (inaugurato nel 2009) ha dedicato al Partenone l’intero ultimo piano, con una ricostruzione in scala reale del tempio, addirittura orientato in modo da essere parallelo all’originale, che si staglia maestoso dietro le vetrate. Nel modello al Museo dell’Acropoli sono esposti tutte le sculture, i fregi e le metope disponibili, lasciando lo spazio per quelle, appunto, mancanti perché custodite a Londra.

Altro tema è l’opera di Alessandro Manzoni. Sul Foglio di sabato 14-domenica 15 Edoardo Rialti approfitta della pubblicazione di una nuova versione in inglese dei Promessi Sposi, per opera di Michael F. Moore, per svolgere una riflessione su come il romanzo sia stato recepito dalla società italiana («In America si traducono i Promessi sposi che ancora dividono l’Italia»). Innanzi tutto fa sua una battuta di Gesualdo Bufalino: «Come con Dio, i conti col Manzoni non si chiudono mai…» e osserva che «il suo peso sulle generazioni successive resta ancora oggi una delle coordinate fondamentali per valutare direzioni e scelte della scrittura italiana, e dell’identità nazionale stessa». Poi Rialti ricorda che «una prima difficoltà sta nel mettere semplicemente a fuoco lo spazio che I promessi sposi hanno occupato nell’orizzonte collettivo. Esso è tanto vasto che… tutti credono di conoscere già Manzoni, perché in fondo ci sono nati dentro, e la complessità e l’audacia della sua operazione risultano così apparentemente innocui, addomesticati». E da Gino Tellini raccoglie l’osservazione che «la cruda, quanto tragica, requisitoria di Manzoni contro l’inerzia intellettuale, contro la distorta amministrazione della giustizia, contro gli abusi e i soprusi del potere, si contrabbanda per mitezza ironica, per sorridente e blanda indulgenza». Ricordo a questo proposito ancora la lezione del mio insegnante di italiano al liceo, Paolo Paolini, che sottolineava la grande novità etica e culturale del romanzo manzoniano. E lamentava che fosse in parte sottostimato nell’immaginario collettivo perché era stato guastato dal ricordo dell’apprendimento svolto a scuola. Un’idea che, Rialti riferisce, aveva anche Umberto Eco, che suggeriva ai ragazzi di leggere il romanzo «liberandolo dalle pastoie scolastiche». Affrontando poi la traduzione inglese, Rialti sottolinea che emerge la «sottile e magnifica complessità» dell’italiano manzoniano. E si augura che «anche in Italia si torni a discutere, fuori dai convegni accademici, sul peso che ancora oggi Manzoni esercita sui nostri tentativi letterari». E conclude, su un altro piano, che Μanzoni mantiene «una prospettiva metafisica dell’esistenza», con domande che nella società italiana contemporanea «sembrano non potersi più porre nello stesso modo, se si pongono affattο».

Ancora a una vicenda manzoniana è dedicato un ampio articolo sul Corriere della Sera di domenica 15 gennaio: «Via l’infamia della Colonna». Gianni Santucci riferisce dell’iniziativa di Casa del Manzoni, fatta propria dall’Ordine degli avvocati e accolta dalla Corte d’Appello per apporre a Palazzo di Giustizia di Milano una targa commemorativa alla memoria di Gian Giacomo Mora, processato nel 1630 con l’accusa di essere un untore, cioè uno che spargeva il contagio della peste, e per questo torturato e condannato a morte (con Guglielmo Piazza). E anche dopo essere stato orrendamente ucciso, la giustizia dell’epoca, dopo averne raso al suolo la casa, fece erigere al suo posto una colonna che ricordasse la vicenda. Colonna che Manzoni prese a simbolo delle iniquità commesse stravolgendo la giustizia nella Storia della colonna infame, pubblicata in appendice ai Promessi sposi nell’edizione definitiva del 1840-42. Questo il testo della targa che verrà collocata – inaugurazione il prossimo 31 gennaio – accanto a quella per il giudice Guido Galli (ucciso dai terroristi il 19 marzo 1980): «Milano erigeva nel 1630 e conservava fino al 1778 un monumento di esecrazione e di infamia verso un umile cittadino di nome Gian Giacomo Mora. A lui e agli innocenti vittime in ogni tempo dei pregiudizi e dei fanatismi restituiscono per sempre dignità e onore i responsabili difensori della giustizia fedeli alla illuminata lezione di Pietro Verri e Cesare Beccaria eletta a codice di umanità dalla coscienza morale e civile di Alessandro Manzoni». Ai temi della giustizia, e agli effetti del suo uso distorto, Manzoni era particolarmente sensibile. Basta ricordare un passo del Fermo e Lucia: «I provocatori, i soperchianti, tutti quelli che in ogni modo invadono i diritti altrui, sono rei non solo del male che fanno, ma del pervertimento a cui portano gli animi di coloro che offendono». Santucci cita anche la spiegazione che Manzoni diede dell’ accecamento dei giudici: aver fatto una certezza di una superstizione: che il contagio potesse essere sparso con un unguento malefico. Da qui una giustizia deviata da «rabbia contro pericoli oscuri», «rabbia resa spietata da lunga paura». Manzoni puntualizzava che «tali cagioni non furono pur troppo particolari di un’epoca». Lo abbiamo visto nella recente pandemia da Covid-19. Senza giungere agli orrori del processo secentesco, paura e irrazionalità sono stati alla base dei toni da caccia all’untore e dello stravolgimento del buon senso che hanno caratterizzato molte decisioni delle autorità, anche ai piani più alti.

Nella stessa pagina del Corriere viene ricordata la recente edizione critica della Ventisettana dei Promessi Sposi, curata da Donatella Martinelli per il Centro nazionale di studi manzoniani (diretto da Angelo Stella).

Letteratura e valori morali, l’opera critica di Paolo Paolini

Paolini

Coprono un arco vasto di secoli i saggi di Paolo Paolini (1940-2003) raccolti in Studi di letteratura italiana (volume pubblicato da Cisalpino nel 2010 a cura di Claudio Milanini e Donato Pirovano) e tutta la sua vita professionale e accademica, dal 1966 (estratto dalla tesi di laurea) al 2004. Sono studi che, proprio per l’ampiezza temporale degli autori esaminati, permettono di ricostruire con buona approssimazione – e restarne ammirati – la vastità della cultura umanistica di un docente affabile e generoso.

A differenza della scelta dei curatori, che hanno deciso di disporre i contributi nell’ordine cronologico degli autori trattati (da Machiavelli al critico tedesco Heinrich Wölfflin), ho preferito leggerli secondo l’anno di pubblicazione. Pagina dopo pagina, mi risuonava nella mente la voce di Paolini, mio professore di italiano al liceo, le inflessioni, le garbate ironie di cui erano ricche le sue spiegazioni: aveva ereditato humour britannico e toscana (senese) arguzia, e se ne serviva per rendere godibili e preziose le lezioni, sostenute da conoscenze ampie e approfondite. Quando leggo (pag. 186) che «il meglio» di Cesare Cantù narratore si riconosce e racchiude in «realismo e moralità», cioè quel «sistema di estetica e di poetica che da Manzoni si allarga nella narrativa del nostro Romanticismo, con recuperi di moralità pariniana e generalmente lombarda», credo che, opportunamente declinate, queste caratteristiche si adattino bene anche a definire la sua personalità di docente, che metteva a disposizione degli allievi tutte le sue risorse culturali e che incitava a servirsene: spremete i vostri insegnanti, era uno dei suoi consigli.

Nel primo saggio, dedicato alle teorie critico-figurative di Heinrich Wölfflin applicate al passaggio dal Rinascimento al Barocco e a come sono state recepite (o piuttosto rifiutate) in Italia, lo stile di scrittura di Paolini risulta più faticoso degli altri testi: forse perché è un lavoro tratto dalla tesi di laurea, forse anche perché la materia stessa è piuttosto complessa. Non ricordo citazioni di questo critico a lezione, ma Paolini metteva una grande cura nel collocare le opere letterarie nel loro contesto storico (ci aveva incuriosito parlandoci del volume di Giovanni Getto, Storia delle storie letterarie). E ci presentò i chiaroscuri del Barocco senza bollarlo a priori come forma artistica di serie b.

I primi saggi sugli autori contenuti nel volume risalgono al 1983 e sono dedicati ad Arrigo Boito, un “minore” a cui Paolini aveva già prestato attenzione con il contributo Manzoni e Boito, un’ammirazione travagliata nel volume miscellaneo curato da Renzo Negri, Il Vegliardo e gli anticristi. Studi su Manzoni e la Scapigliatura, pubblicato nel 1978 da Vita e Pensiero. Nei tre saggi riuniti in questo volume, Paolini esamina le conoscenza di Boito in fatto di letterature straniere e di letteratura italiana, e dimostra – dati alla mano – che la nostra tradizione letteraria era tutt’altro che trascurata dallo scapigliato. Ne nota l’interesse per la metrica, con un tentativo di versi alla greca che precedono le odi barbare di Giosuè Carducci. Per le letterature straniere, la parte del leone spetta a quella francese, ma senza dimenticare la grande ispirazione del Faust di Goethe, trasposto nel suo Mefistofele. Nel saggio dedicato all’opera teatrale (nel 1997, per omogeneità lo anticipo qui) Paolini indica la propria preferenza per la versione originaria, quella bocciata dal pubblico nel 1868, rispetto alla «riduzione» del 1875: «La prova di un ripiegamento, di una concessione ai gusti del pubblico tradizionalista e dei critici filistei, sostanzialmente di una rinuncia dovuta a perdita di fiducia».

Al 1988 risale il saggio su Cesare Cantù narratore, un autore esaminato con la consueta acribia, che lo porta a esprimere – oltre al giudizio critico sopra riportato – una sostanziale bocciatura stilistica. Ancora un minore, Ciro di Pers, viene analizzato con precisione (sempre 1988) sia dal punto di vista contenutistico che stilistico-metrico, diventando un esempio di riabilitazione artistica – dopo la condanna dell’antologia di Benedetto Croce sui Lirici marinisti del 1910 («una crestomazia alla rovescia») – come dimostra il giudizio finale: «Uno dei poeti più interessanti del nostro Seicento».

Un piccolo salto di anni, siamo al 1995, e trovo il lavoro sul capitolo XIX dei Promessi Sposi, quello del dialogo tra il padre provinciale e il conte zio, che porta all’allontanamento da Pescarenico di fra Cristoforo. Ma devo riconoscere che le riflessioni qui espresse erano già nella mente di Paolini quindici anni prima, quando ne fece oggetto di una memorabile lezione al liceo. Il lamento sulla corruzione che la scuola provocava anche di un capolavoro come quello manzoniano (osservazione che attira l’attenzione del curatore Milanini nella prefazione) era stato occasione di ilarità generale nella classe. Di questo studio mi piace sottolineare ancora il richiamo all’etica: «Dopo la denunzia gravissima che queste pagine contengono della corruzione morale e politica della società italiana (una costante che non riguarda solo il Seicento, puntualizza Paolini) come si fa a prendere il Manzoni per un conservatore e il suo libro per reazionario?» E sottolinea la carica autenticamente rivoluzionaria di queste pagine, di quella sola rivoluzione che può decidere tutto, quella delle coscienze. E conclude l’analisi: «Il cap. XIX, con la ricognizione del male nella politica e nella società, documenta che la grandezza del Manzoni come uomo e come scrittore si colloca appunto nella convergenza di una lucida dimensione intellettuale e di una risentita coscienza etica».

L’accuratissima analisi metrica e stilistica dei madrigali di Torquato Tasso e di Giambattista Marino (saggio del 1998), permette al critico di dimostrare che – a parte l’ovvio riferimento al magistero di Francesco Petrarca – i poeti barocchi filtravano la tradizione poetica attraverso l’esperienza tardorinascimentale del Tasso. Di questo testo mi pare importante segnalare una nota, segno dell’apertura culturale e delle capacità interpretative di Paolini: «A me pare che la figuratività manieristica e barocca costituisca spesso un’anticipazione della moderna tecnica cinematografica; elemento comune è la spettacolarità, come tendenza dell’immagine ad accamparsi in primo piano, facendo a meno della mediazione intellettualistica o del giudizio etico, a farsi insomma essa stessa messaggio, non veicolo di un messaggio».

Più complesso lo studio sugli animali nelle opere di Giacomo Leopardi, pubblicato nel 2000 ma tra gli atti di un convegno del 1998. È lo studio più corposo di tutto il libro: Paolini – esaminando un’amplissimo numero di scritti, dalle riflessioni del contino dodicenne allo Zibaldone e alle ultime poesie – analizza la compresenza di tre componenti: osservazione diretta della realtà, valore simbolico-allegorico e tradizione letteraria, che Leopardi padroneggiava fin nei testi meno famosi (come il Cinegetico di Senofonte). Se la tendenza che emerge, in un’analisi cronologica dei testi, «è verso una considerazione omnicomprensiva di tutti gli esseri viventi come votati all’infelicità», lo stesso Paolini deve riconoscere che non si riesce (suo obiettivo dichiarato) a «ricostruire in dimensione cronologica il tracciato delle opinioni leopardiane». L’analisi peraltro rivela anche alcune aporie nel pessimismo del poeta-filosofo: nell’attribuzione di pensiero alla materia (p. 111) o nella polemica antiplatonica sull’innatismo (p. 124). Il che mi conferma che è preferibile leggere Leopardi come grande poeta piuttosto che apprezzarne il pensiero di filosofo.

Nel saggio sul Principe di Niccolò Machiavelli (anno 2000) Paolini esamina la scelta di comporre l’opera come trattato e non come dialogo, una forma che «recupera la fiducia antica greco-latina nella fruttuosità dell’interscambio tra domande e risposte da cui può derivare la verità» alla maniera socratica (interessante l’osservazione machiavelliana sull’importanza di porre le domande giuste, un consiglio che vale anche per le interviste dei giornalisti). Qui nella smania di istruire il principe e spingerlo all’azione per liberare l’Italia dai barbari, osserva Paolini, Machiavelli «tende a mostrarsi convinto di essere arrivato a possedere la verità» anche se nell’argomentazione appare «un dialogo latente ma serrato», che «nonostante il carattere fortemente assertivo degli enunciati machiavelliani» rivela ancora «perplessità e incertezze». Al contrario nelle opere successive, come l’Arte della guerra, «la struttura del dialogo finisce per essere poco più che un espediente retorico e letterario, in quanto in esse l’autore è così convinto delle proprie idee da non ammettere vero contraddittorio». Paolini spiega come «cominci a entrare in crisi l’antica fiducia di molti scrittori di dialoghi, soprattutto del Quattrocento, convinti che la verità possa (debba) essere cercata insieme, tra uomini di cultura, e giunga alla fine di una insostituibile ricerca comune, che è anch’essa un valore, come la verità raggiunta».

L’evidente simpatia con cui Paolini guarda a Benvenuto Cellini (studio pubblicato nel 2000) non gli impedisce però di notare le debolezze formali delle sue Rime, e di una in particolare – da provetto pianista – non sa capacitarsi: «Non posso fare a meno di chiedermi come sia stato possibile che uno come lui, che da giovanotto aveva studiato musica, da adulto, scrivendo versi, incorra in vistose ipermetrie e sia incapace di sentire a orecchio se un endecasillabo suona bene o è irregolare».

Concludendo l’ordine cronologico, ecco lo studio (uscito postumo nel 2004) sulla botanica manzoniana. Anche in questo caso, la scrupolosa analisi di Paolini parte delle poesie prima della conversione per passare agli Inni sacri e all’Adelchi e finire con alcuni passi dei Promessi Sposi. Mi limito alle osservazioni sul romanzo, già abbondanti. Innanzi tutto il critico segnala che «Manzoni confronta il destino degli uomini con quello dei vegetali cogliendo le analogie strette, quasi l’assimilabilità». Due gli esempi principali: Renzo che si perde nel bosco durante la fuga da Milano (cap. XVII) e la descrizione della vigna di Renzo (cap. XXXIII). Nel primo caso «la vegetazione abbandonata a se stessa fa paura proprio perché sottratta ad ogni controllo, divenuta estranea all’uomo, anzi ostile». Del secondo passo (anch’esso oggetto di una bella lezione in classe al liceo) Paolini non solo esamina con accuratezza le fonti: oltre ai brani scritturistici di Isaia e dei Vangeli, e ad alcuni classici come Cicerone e Virgilio, individua gli scrittori secenteschi Paolo Segneri e Daniello Bartoli per «certe minuziose e lavoratissime descrizioni» e un testo sfuggito ai commentatori come la Proposta di Vincenzo Monti. Ma, a livello di significato, Paolini concorda con Giorgio Bàrberi Squarotti per indicare il passo come «uno straordinario esempio di botanica volta al morale». Non solo le colpe degli uomini causano l’abbandono della natura in uno stato degradato, come suggeriva l’illustre critico, ma – aggiunge Paolini – «la natura vegetale così abbandonata a se stessa e degradata è anche un segno e un exemplum da meditare su che cosa può diventare l’umanità stessa se si allontana dal progetto divino: quelle piante insomma siamo noi».

A conclusione noto un singolare contrasto e un parallelismo. Paolini aveva analizzato le presenze animali in Leopardi, valutandole più significative di quelle vegetali e osservando che anche nella Ginestra, «unico titolo dedicato a una pianta sono più numerose le presenze animali che quelle vegetali». Segnala che viceversa la natura «animale soffre di una strana rimozione dal mondo dei versi manzoniani» mentre, come si è appena visto, sono numerosi i segni della passione del romanziere lombardo per la botanica, interesse che lo occupava anche concretamente, nel parco della villa di Brusuglio. Per entrambi, Paolini indica la possibilità di analizzare su tre livelli la presenza del mondo animale o vegetale: una attenta osservazione diretta, l’uso delle fonti letterarie e il significato simbolico-allegorico.

L’amato Dante

Se si può avanzare una critica alla silloge pubblicata da Cisalpino è la mancanza di uno studio dedicato a Dante Alighieri, l’autore più amato da Paolini, che conosceva a memoria la Divina Commedia. Ho voluto rimediare, andando a leggere il saggio Dante di fronte ai classici latini. Quattro schede che apre il volume miscellaneo Le varie fila. Studi di letteratura italiana in onore di Emilio Bigi (a cura di Fabio Danelon, Hermann Grosse e Cristina Zampese) pubblicato nel 1997 dalla casa editrice Principato.

La ricerca delle fonti latine nella Commedia vanta una lunga storia. Nelle quattro schede sui personaggi di Casella, Caronte, Caco e Stazio, Paolini è molto accurato nel riconoscere il riutilizzo di immagini, temi e anche aspetti fonico-metrici che Dante desume da un solo autore o da un insieme di suggestioni. Il più presente è ovviamente Virgilio, ma anche Ovidio delle Metamorfosi, Lucano e Stazio tra i poeti, e Livio e Agostino nella prosa hanno parte nelle osservazioni di queste “quattro schede”. Nel puntuale argomentare del critico mi piace segnalare un paio di suggestioni: innanzi tutto la dimostrazione – attraverso precisi richiami – che Annibal Caro, nella sua traduzione dell’Eneide (1560-66), mostra di “filtrare” il testo virgiliano attraverso l’esempio e il riutilizzo che ne aveva fatto Dante. In secondo luogo, vista l’assenza di Stazio nel Limbo e – viceversa – i molteplici richiami al poeta epico latino a partire da Inferno XIV, Paolini suppone che la sua conoscenza da parte di Dante «sia stata approfondita successivamente a quei primi canti (in particolare al IV) in modo sempre più intenso e coinvolgente, come dimostrano la fruizione ripetuta e compiaciuta già nell’Inferno di episodi della Tebaide e dell’Achilleide». E che Stazio sia da considerare un poeta grande quanto i sommi incontrati nel Limbo (Omero, Orazio, Ovidio e Lucano) lo rivela anche il gioco di rime senno:fenno:cenno di Inf. IV 98-102 esattamente invertite in Purg. XXII 23-27. Siamo all’inizio del discorso di Stazio in cui viene celebrato solennemente Virgilio, non solo come poeta, ma come ispiratore della sua conversione, che gli garantisce la salvezza eterna.

Nel saggio dantesco, che ho citato solo sommariamente ma che è ricco di approfondimenti, sento sia il profondo studio che il professor Paolini aveva dedicato al nostro sommo poeta, sia la passione che sapeva trasmettere nelle sue lezioni.

Perché il nostro mondo tecnologico non può fare a meno dei classici

20180403_184317Di classici si parla spesso, a intervalli ricorrenti, ripetendo interrogativi antichi di secoli sull’opportunità di continuare a dedicare loro spazio, rispetto alla possibilità di privilegiare – soprattutto a scuola – argomenti e materie più vicine all’attualità, ritenute più utili per il mercato del lavoro. Nel dibattito si mescolano due aspetti: conoscenza delle lingue classiche (sostanzialmente latino e greco) e conoscenza dei testi classici, anche se è evidente che, abolendo o limitando la conoscenza della lingua, si restringerebbe anche la possibilità di apprezzare testi e messaggi delle letterature classiche. Sul fronte della lingua non sono mancati i difensori: per citare solo i più recenti, Andrea Marcolongo per il greco e Nicola Gardini per il latino. Invece ai contenuti, alla conoscenza dei classici in quanto patrimonio di cultura è prevalentemente dedicato  l’agile volume Ritorno ai classici. Dieci saggi, edito lo scorso anno da Vita & Pensiero, che riunisce articoli di autori diversi, pubblicati tra il 2005 e il 2017 sulla rivista Vita&Pensiero (con prefazione di Alessandro Zaccuri) talora allargando lo sguardo fino agli autori delle letterature moderne. Storici. filosofi, letterati, poeti, insegnanti, ma anche un biblista e due scienziati: tutti sostanzialmente concordi nel ritenere un bene per la nostra società conoscere opere scritte da alcuni degli ingegni più alti che l’umanità abbia avuto e tenere in considerazione i valori che hanno espresso. Che ci sia sempre stato chi vuole fare tabula rasa del passato è dimostrato da Cicerone, che sosteneva (Orator 34, 120) che non conoscere ciò che è accaduto prima di noi significa rimanere eterni bambini. In tempi molto più recenti, Italo Calvino nel suo famoso articolo «Perché leggere i classici» (1981) proponeva ben 14 definizioni e concludeva che «la sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici». Mi piace però aggiungere la definizione di testo classico che proponeva già nel 1980 l’italianista Paolo Paolini, che fu anche mio professore al liceo: «Un libro che a ogni lettura rivela nuovi significati, nuovi aspetti e nuove sfumature, dà nuove risposte, in definitiva regala nuova bellezza». Parole che prefiguravano la definizione numero sei di Calvino: «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire».

Nel volume di Vita&Pensiero si parte con il saggio del cardinale Gianfranco Ravasi, che esamina l’incontro tra classici (greci e latini) e Nuovo Testamento. Lungi dal volerli contrapporre, Ravasi segnala – sintetizzando osservazioni di Giovanni Paolo II – che «la Bibbia si presenta modello di inculturazione o acculturazione sia a livello linguistico, sia in ambito letterario (si pensi ai generi letterari), sia nell’orizzonte ideale. E su questa via s’incamminò la tradizione cristiana».

L’italianista Claudio Scarpati osserva che «i classici contengono figure, meditazioni, vicende attraverso cui le generazioni che ci hanno preceduto sono passate, hanno tentato di decifrare il mondo e di penetrare nel groviglio degli interrogativi che l’uomo si pone quando è lucido e libero». Ed esorta ogni insegnante a non demordere nel proporre i testi classici: «Se concede agli studenti la stima che meritano, può ritenerli degni di andare con il suo aiuto incontro a testi che hanno sollecitato l’attenzione di chi li ha letti in passato e ha trovato in essi qualcosa di rilevante per la propria esistenza. Sono i testi che parlano, più di colui che li propone».

La storica Cinzia Bearzot ritiene che del patrimonio della cività occidentale (fatto di concetti, valori e discipline) «è necessario alimentare la memoria per mantenere viva, attraverso di essa, un’identità consapevole». Riprendendo concetti già di Antonio Gramsci la studiosa spiega che «senza la memoria del passato, il presente diviene incomprensibile», e «non c’è identità senza conoscenza del proprio passato e senza un confronto critico con esso». La conoscenza del greco e del latino «è uno strumento imprescindibile di confronto interculturale, che permette di accedere a un patrimonio immenso di testi e di penetrare criticamente nel pensiero e nella cultura degli antichi, individuando le continuità e riconoscendo le alterità, senza accontentarci di una conoscenza superficiale degli elementi costitutivi della nostra tradizione culturale».

Il poeta Valerio Magrelli propone di ritornare ai classici in modo più libero, per scelta e non per dovere scolastico. Ma aggiunge che bisognerebbe ritradurre i classici. Traduzioni che datano a quaranta, cinquant’anni fa non sono più percepibili: il salto linguistico è troppo ampio: «Sarebbe straordinario se la scuola riattivasse tutta l’ampiezza dello spettro espressivo della letteratura greca e latina. Sono convinto che si otterrebbe, da parte dei ragazzi, una risposta entusiastica».

Il filosofo Dario Antiseri, richiamando la teoria ermeneutica di Hans-Georg Gadamer, sottolinea che «tutta la ricerca scientifica avanza sul sentiero delle congetture e delle confutazioni, procede per trial and error». E poiché si impara dall’errore «si comprende l’urgente necessità di una didattica che punti sui problemi più che sugli esercizi, che insista sullo sfruttamento pedagogico dell’errore e che sempre in vista della costruzione di menti critiche, investa su pratiche didattiche come: il tema argomentativo, versioni di greco e di latino, il riassunto, esperienze di storiografia locale». Tutte «preziose pratiche ermeneutiche e, dunque autentiche pratiche di tipo scientifico».

L’umanista Carlo Carena, che alla sua veneranda età mostra di apprezzare i benefici dello strumento Internet, non manca però di ammonire che in un tempo che sembra freneticamente lanciato in avanti «il classico ha bisogno per eccellenza di ascolto e di riflessione, è fermo nella sua costituzione, tanto profonda è la sedimentazione della tradizione e del mestiere presenti nelle sue pagine; tanto complesso e vasto è il suo modello antropologico».

Da scienziato, Alberto Oliverio ammonisce che «l’entusiasmo nei confronti della tecnologia […] non può comportare un’ignoranza dei valori insiti in una cultura classica. La lettura dei classici greci e latini consente infatti un’approfondita comprensione dei rapporti umani, della politica, dei valori». La cultura classica è importante anche per scienziati e tecnologi – avverte – «il cui pensiero non può essere monodirezionale». Allo stesso tempo suggerisce di superare la separazione tra le «due culture» trascinando il lettore «nei campi della scienza attraverso il cavallo di Troia della scrittura creativa, coinvolgendolo emotivamente in trame e vicende che derivano da un ambito indubbiamente poco noto ai profani qual è il mondo della scienze e delle tecnologie».

Paola Mastrocola, insegnante e scrittrice, difende l’importanza della conoscenza delle parole, con la loro «ricchezza polisemica e simbolica»: «Vorrei che i ragazzi non perdessero la capacità di capire e usare le parole. Ecco perché vorrei che studiassero latino e greco, in tanti, il maggior numero possibile» e che «al centro ci fosse sempre la traduzione, la sfida più difficile». Nello specifico, «il latino e il greco mi sembrano lo strumento ideale per acquisire quell’attenzione alle sfumature lessicali, all’etimologia, ai legami logici, all’architettura delle frasi, alle sottigliezze infinite del senso, insomma tutto ciò che ci consente di “capire” davvero», non solo un testo greco, ma qualsiasi libro.

La grecista Antonietta Porro osserva che la tradizione non è «un motore immobile» e «la nostra tradizione classica ha generato opere d’arte, letteratura, forme di pensiero diverse nel tempo, perché essa è stata modificata dalla sua ricezione, cioè dalla relazione con il tempo, con la storia». Quanto al liceo classico, accostare le civiltà antiche senza la conoscenza della lingua, nasconde l’insidia di abolirne di fatto lo studio: «La lingua è, nel caso delle scienze dell’antichità, lo strumento ineludibile per introdursi alla civiltà ed è testimonianza essa stessa della mentalità che la esprime».

Infine il fisico Guido Tonelli ribadisce che «una formazione basata sulle traduzioni dal greco e dal latino addestri meglio la mente duttile dei giovani all’uso implacabile della logica; che è lo strumento principe con cui si sviluppano discipline che solo apparentemente sembrano così diverse fra loro, come la filosofia e la fisica». E aggiunge: «Di cultura umanistica c’è bisogno per far progredire la società, per definirne gli scopi, e per dare un senso e umanizzare lo stesso processo scientifico». Concludendo: «Oggi la scienza progredisce a ritmo incalzante. Chi allora, se non i filosofi, gli umanisti, gli artisti, potrà dare senso all’esistenza umana nell’epoca del dominio della scienza e della tecnologia?».

Parole che mi sembrano da sottoscrivere pienamente, anche se probabilmente il dibattito è destinato a non terminare mai.