«I Nasko hanno salvato migliaia di bambini»

Il presidente di Federvita Lombardia, Paolo Picco, e il direttore del Centro di aiuto alla vita “Mangiagalli” di Milano, Paola Bonzi, tornano a difendere l’utilità dei fondi Nasko, che la giunta regionale lombarda vorrebbe riservare solo a chi ha la residenza in Lombardia da almeno cinque anni. Questo è il mio articolo, scritto in collaborazione con il collega Lorenzo Rosoli, pubblicato sulle pagine milanesi di Avvenire dello scorso 17 aprile.

siglacavI fondi Nasko aiutano a prevenire una par­te degli aborti. E non sono le straniere a “toglierli” alle italiane. Non solo: se ci so­no menzogne forse sono «quelle delle istitu­zioni che si limitano ad analizzare fredda­mente dati statistici». Non si fa attendere la replica dei Centri di aiuto alla vita al nuovo at­tacco dell’assessore regionale al Welfare Cri­stina Cantù ai fondi Nasko, istituiti nel 2010 per scoraggiare il ricorso all’aborto per moti­vi economici. L’assessore leghista – che in­tende rivedere i criteri d’accesso ai fondi – vorrebbe inserire la residenza in Lombardia da almeno 5 anni, per ridurre la quota di stra­niere che vi hanno accesso. Un criterio con­testato sia dai Centri di aiuto alla vita, sia dal­la Caritas ambrosiana. Di fronte all’ultima u­scita dell’assessore («I fondi Nasko non fan­no calare gli aborti») sono tornati a far senti­re la loro voce Paola Bonzi, direttore del Cav Mangiagalli, e Paolo Picco, presidente di Fe­dervita Lombardia. Quella frase «mi è arrivata come un pesante pugno allo stomaco», confessa Paola Bonzi in una lettera aperta a Cantù. «I colloqui svol­ti dagli operatori del Cav Mangiagalli dicono chiaramente che molte donne hanno potu­to cambiare idea grazie al tempo, allo spazio e agli aiuto loro dedicati, portando così avanti la loro gravidanza». Dall’apertura del Cav di via della Commenda «abbiamo ascoltato più di 19mila donne, e fino al 31 dicembre 2013 sono nati 16.663 bambini». «I nostri dati – prosegue la lettera – dicono che, se aiutate, le u­tenti decise a interrompere la gravidanza pos­sono anche cambiare idea». Ma, ricorda Bon­zi, un compagno di partito dell’assessore Cantù ha affermato «che le donne possono mentire per ottenere l’aiuto» anche presen­tando un certificato medico falso. Una affer­mazione che scatena la secca risposta della donna impegnata da oltre 30 anni a salvare vite umane. «Di bugie stiamo parlando, ma non di quelle delle donne povere, forse di quelle del­le istituzioni che si limitano ad analizzare fred­damente i dati statistici».

Picco allarga il discorso. «Dai dati emerge che sono circa 10mila l’anno gli aborti di donne lombarde. In tre anni quindi 30mila aborti. E solo 1.500 italiane hanno avuto accesso ai fondi Nasko. La domanda è: e le altre? Quan­te donne avrebbero avuto diritto (per condi­zioni economiche) ad accedere al Nasko e non sono state indirizzate correttamente? O non se ne sono interessate, pur conoscendo­lo, perché condizionate da un contesto che non valorizza la maternità e l’arrivo di un figlio?». Il problema, sottolinea Picco, «non so­no le straniere. Del resto la stessa legge 194 (art. 5) dice che in presenza di problemi eco­nomici la donna deve essere aiutata “a ri­muovere le cause che la porterebbero alla in­terruzione della gravidanza”». Ancora più cri­ticabile l’affermazione dell’assessore riguar­do il “bruciare milioni di euro in battaglie so­lo ideologiche”: «In Lombardia – osserva Pic­co – si fanno 17mila aborti l’anno. Non so­no un successo, sono un problema: umano, non cattolico. Per il danno e il dolore dei bambini non nati, dei loro genitori e della so­cietà, immersa nell’inverno demografico: i sei milioni di giovani non nati in Italia dal 1978 a oggi sarebbero un volano di futuro per il nostro Paese».

Vita nascente, serve aiuto. Istituzioni indifferenti

Quinta e ultima puntata nel viaggio tra i Centri di aiuto alla vita della lombardi, con intervista a tre componenti del consiglio direttivo di FederVita Lombardia, bilancio finale del presidente Paolo Picco e due storie, tra le centinaia che i volontari dei Cav incontrano. Gli articoli sono stati pubblicati il 14 luglio scorso sulle pagine milanesi di Avvenire.

siglacavIl viaggio in un campione di Centri di aiuto alla vita della Lombardia (sono 58 in tutta la regione) ha evidenziato l’impegno e gli sforzi generosi di tantissimi volontari. Ma ha anche fatto emergere che della prevenzione dell’aborto e dell’attività in difesa della vita nascente c’è ancora e sempre bisogno. Ne parliamo con alcuni esponenti del consiglio direttivo di Federvita Lombardia: il vicepresidente Fabrizio Sala (responsabile del Mpv a Macherio), Maria Lantieri Guana (presidente del Cav di Capriolo) e Angiola Sala Lussignoli (presidente del Cav di Pisogne). 

Trentacinque anni dopo la legge 194 i Cav testimoniano che prevenire l’aborto è possibile. Come si vince l’assuefazione della società e, talvolta, l’inerzia delle istituzioni?

Fabrizio: è l’anonimato che rende più facili assuefazione e inerzia. L’attività dei Cav e del Movimento per la vita è un richiamo per abbassare la “soglia del dolore” che la società ha alzato. Certamente è necessario essere sempre presenti, continuare a “battere il chiodo”, sia entrando nelle scuole sia promuovendo cultura della vita. Rilevo poi che la politica (anche a livello locale) tende spesso a presentare tutti i problemi come priorità, col risultato di non prendere posizione sui temi cruciali.

Maria: l’impegno tenace e perseverante da parte del Movimento per la vita e dei Cav testimoniano la possibilità di prevenire l’aborto e vincere l’assuefazione della società, ma non ci si deve fermare. Nel nostro territorio è progressivamente aumentata l’attenzione delle istituzioni e dei cittadini ai problemi della vita nascente e l’obiezione di coscienza da parte dei sanitari è in aumento.

Angiola: serve anche l’attività culturale, per esempio la raccolta firme a favore dell’iniziativa europea “Uno di noi”.

La presenza dei volontari negli ospedali (o nei consultori) è faticosa ma qualificante. Quanto è cruciale essere presenti dove gli aborti si fanno (o si decidono)?

Fabrizio: i volontari del Cav negli ospedali o nei consultori sono un po’ come il vigile di quartiere, che deve essere presente al momento giusto per tutelare i cittadini. Certamente poi le realtà possono essere diverse, e caso per caso ci saranno spazi di manovra differenti, ma la presenza in quei luoghi è importante.

Maria: essere presenti là dove l’aborto si decide o si fa è molto faticoso. Da parte degli operatori del Cav è indispensabile una grande disponibilità a impegnarsi, anche in presenza di disillusioni e insuccessi. Naturalmente sono necessarie una preparazione e una professionalità adeguate ad affrontare situazioni che, comunque si risolvano, sono sempre critiche. Ci conforta però la richiesta, che talvolta giunge dagli stessi responsabili sanitari, di più presenze di volontari Cav.

Angiola: l’aborto si può evitare quando la mamma sente che non la lasceremo sola e che i suoi problemi diventano anche nostri per risolverli per quanto possibile, e camminare insieme.

La crisi economica incide soprattutto sugli strati sociali più poveri, in particolare gli stranieri. I Cav non si tirano indietro, ma c’è il rischio di essere “dirottati” su forme di assistenza alla maternità, che sono di competenza degli enti pubblici?

Fabrizio: l’attività di aiuto è venuta spontanea, ma certamente c’è un po’ il rischio di annacquare l’attività primaria. Occorre vigilare per non perdere la dimensione di Cav: non limitarsi a dare sollievo, trascurando un ascolto vero che va al nocciolo della questione aborto. Anche perché attività di assistenza è svolta anche da altri enti, ma quello che fanno i Cav in favore della vita nascente, non lo fa nessun altro.

Maria: gli enti pubblici con i quali collaboriamo fanno la loro parte, ma le mamme vengono al Cav anche perché vi trovano persone che percorrono al loro fianco un “pezzo di strada” che in quel momento appare particolarmente faticoso e arduo e le aiutano a portarne il peso.

Angiola: del resto, quando da noi giungono donne con tanti problemi, che hanno accolto la nascita del loro figlio ma che sono in difficoltà a provvedere al suo mantenimento, non possiamo non stabilire anche con loro un programma di aiuto.

La collaborazione con Servizi sociali e Asl, anche per i progetti Nasko, ha reso necessaria una “professionalità” sempre maggiore dei volontari. È servita a vincere una diffidenza spesso “ideologica” verso i Cav?

Fabrizio: certamente i fondi Nasko, oltre al bene in sé, sono stati un’occasione per entrare in relazione: è stata aperta una porta. L’ideologia fa ancora la sua parte, ma in molte Asl e consultori hanno riconosciuto la professionalità dei volontari, gente che lavora bene in favore della mamma e del bambino.

Maria: all’inizio i rapporti con i singoli operatori, non tutti dalla parte della vita, sono stati vissuti con alcune difficoltà e incomprensioni, poi superate con il progredire della reciproca conoscenza. Ne sono scaturiti risultati decisamente favorevoli alla difesa della vita nascente.

Angiola: I progetti regionali a favore della maternità e il progetto Nasko ci hanno dato l’opportunità di essere “visibili” presso la Asl di Breno e la Asl di Lovere e con i quattro consultori pubblici di zona. Ci siamo sentite accolte e in perfetta sintonia con figure di alto profilo professionale, concordi con il nostro operato a favore della vita.

 

Sono 4.391 i bimbi nati nel 2012

Nel bilancio su un indagine a campione non può mancare una panoramica che a partire dalle ragioni ideali, dia conto dei numeri complessivi dell’attività svolta dai Centri di aiuto alla vita. Che ci vengono presentati da Paolo Picco, presidente di Federvita Lombardia: «Credo che argomenti come le motivazioni, gli attori, le destinatarie dell’attività di aiuto, siano stati trattati per bene, illustrando le diverse esperienze di Cav operanti in grosse città oppure in piccoli centri, di lungo corso oppure recenti, con sede cittadina oppure ospedaliera». Si è trattato di «storie variegate, ma con un unico punto di riferimento: il concepito – “uno di noi” – e sua madre, in una unità esistenziale inscindibile, che dà il senso e il valore dell’impegno».

Che proporzioni ha questo impegno? «I 58 Cav della Lombardia – spiega Picco – rappresentano circa un sesto dei Cav italiani, che sono 338. Anche nelle altre regioni esiste un’analoga varietà di situazioni, come quella riscontrata nei Cav lombardi. Oltre tutto, i 338 Cav sono in crescita, anno dopo anno, segno di una sensibilità che non scompare nel tempo o nell’assuefazione».

Per quel che riguarda la sola Lombardia «negli ultimi tre anni, i bambini che abbiamo visto nascere da madri assistite dai Cav sono stati 3.994 (anno 2010), poi 4.247 (nel 2011), 4.391 (nel 2012). Per ognuno di essi, c’è stato un incontro iniziale con la madre, seguito nella maggior parte dei casi da molti altri incontri. A questi numeri ne vanno aggiunti altrettanti: quelli con le madri che vengono seguite anche dopo la nascita del bambino, in un rapporto che va al di là della semplice fornitura di servizi ma che spesso (e forse sempre!) diventa un profondo rapporto di fiducia e di amicizia con le operatrici del Cav, che rimane anche quando è superata la fase di  “emergenza”. Anche questo, l’amicizia, è uno degli aspetti che caratterizzano l’attività dei Cav, e che ne testimoniano l’oggettiva validità sociale». Allargando per un attimo lo sguardo all’Italia si tratta di circa 10mila bambini nati nell’anno 2012, con le loro madri. E va ricordato anche il particolare impegno che alcune donne richiedono: basta pensare che «circa il 70% sono straniere», le italiane hanno spesso situazioni molto difficili, e tutte «incontrano l’accoglienza dei Cav indipendentemente dalla loro origine o dalla loro situazione personale». Non si può infatti dimenticare «la molteplicità degli interventi, di carattere morale, psicologico, spesso medico, talvolta legale, tutti però basati sull’accoglienza della persona, con il suo vissuto e i suoi problemi».

Risulta evidente che «i Cav rappresentano anche un’occasione forse unica per un impegno volontaristico certo non facile, ma dove capacità ed esperienze personali, anche di carattere professionale, possono trovare una realizzazione pratica profondamente gratificante».

 

Giulia: lui non era pronto e mi propose l’aborto. La volontaria mi disse di ascoltare il mio cuore

Una parola giusta, detta al momento opportuno, può determinare una svolta decisiva per salvare una vita. È quanto è successo a Giulia (il nome è di fantasia), una ventenne che grazie a una volontaria del Cav di Alzano Lombardo (Bergamo) ha rinunciato all’aborto.

La conoscenza comincia in discoteca: «Abitavamo a due ore di distanza, il tempo per stare insieme era sempre troppo poco, ma da parte di entrambi c’erano buoni propositi. Passano i mesi, lui pare un angelo, mille chiamate anche nel mezzo della notte per dirmi “mi manchi”, faceva chilometri per vedermi, mi porta a conoscere la mamma».

Quando si materializza la gravidanza, a Giulia casca il mondo addosso: «Mille cose mi girano per la testa, mille domande e paure… E a lui? Come glielo avrei detto? E la sua reazione? Era un periodo di crisi e questo mi spaventava ancora di più». Il ragazzo, 22 anni, cerca di sfuggire l’incontro diventa freddo e distante, ma – dopo due settimane – non può evitare di venire a saperlo: «Dice che non è pronto, ci conosciamo poco, siamo lontani, non abbiamo lavori stabili… Il suo consiglio è: abortisci». Lui sparisce «e io – si interroga Giulia – mi ritrovo a pensare e ripensare a cosa avrei dovuto fare». Trova il coraggio di parlarne a casa, nessuna terribile reazione: «Mi dicono di scegliere quello che ritenevo giusto per me».

Va in ospedale per chiedere l’aborto, ma dopo l’ecografia «scoppia in me un pianto, non riesco a fermarlo. Esco dall’ambulatorio e incontro una volontaria del Centro di aiuto alla vita, che non conosco ma che mi dice: “Non avere fretta, ascolta il tuo pianto, parliamo…”. Inizia un lungo colloquio «su ciò che mi stava succedendo e dentro di me qualcosa cambiava, la volontaria mi disse: “Ascolta le tue lacrime, ti parlano, sono la voce del tuo cuore, non prendere decisioni affrettate e irrimediabili”». Tuttavia Giulia sembra cedere: «A vent’anni senza una stabilità economica e sentimentale come avrei fatto?».

Il giorno stabilito per l’intervento «in ospedale, tremavo e piangevo. Quando mi sono vista la barella davanti e mi hanno detto: “Toccherebbe a te”, non ce l’ho fatta. Ho esitato ancora per un po’, piangevo… Ma alla fine ho deciso di seguire il cuore e me ne sono tornata a casa col mio bambino in pancia».

 

Mario: non volevo perdere mio figlio. E la mia ragazza ha accettato l’aiuto del Cav

Gli uomini spesso, nelle storie che i Cav intercettano, non fanno una bella figura. Non è infrequente che istighino la donna all’aborto, con minacce o vere e proprie violenze; o più semplicemente, la lascino sola nella decisione, magari… sparendo letteralmente dalla circolazione. Per questo assume maggior valore la vicenda di un giovane nigeriano, che chiameremo Mario, che si è battuto con tutte le sue forze per salvare la vita di suo figlio, anche se si trovava lontano.

Il giovane, 25 anni, giunto in Italia, viene accolto in casa da una famiglia di connazionali. Qui si innamora, ricambiato, della figlia – ancora minorenne – dei suoi ospiti. Da questo fatto nascono forti dissapori, perché i genitori non giudicano positivamente la relazione tra i due a causa della differenza di età tra i giovani. Mario quindi è costretto ad allontanarsi e a cambiare regione. Giunto a Castiglione delle Stiviere (Mantova), continua però a frequentare Anna (la chiameremo così), di nascosto dalla famiglia di lei.

Quando, dopo alcuni mesi, la ragazza rimane incinta, la situazione sembra volgere al peggio. Ma il ragazzo non vuole rassegnarsi : «Crede di avere solo l’aborto a disposizione – riferisce Mario agli operatori del Cav cui si rivolge disperato – perché i suoi non ne vorranno sapere». In effetti, agli occhi della ragazza l’opposizione della famiglia è totale, e lei, ancora studentessa, anche se maggiorenne, sembra in un vicolo cieco.

«Ricordiamo bene – riferiscono i volontari del Cav – la difficoltà del colloquio, con Mario che la chiamava con il cellulare e poi ce la passava. Abbiamo speso le parole migliori che potessimo avere e intanto abbiamo attivato ogni risorsa, anche della Caritas, per permettere a Mario di trovare una soluzione abitativa adeguata e migliorare la sua condizione lavorativa».

Il delicato aiuto a distanza, via telefono, ha successo. «È stato bello sapere che Anna avrebbe accettato l’aiuto che potevamo offrirle e avrebbe tenuto il figlio che portava in grembo». La ragazza quindi, dopo gli esami di maturità, si trasferisce a Castiglione, dove dà alla luce una bambina. E sopporta anche di essere rifiutata dalla sua famiglia d’origine. Mario ha trovato lavoro e casa più adeguata e ora i due vivono con la loro bambina.

«I Cav non abbandoneranno mai le donne, ma le istituzioni non possono sottrarsi ai loro doveri»

Nella terza puntata del viaggio tra i Centri di aiuto alla vita della Lombardia compaiono i due Cav di Brescia, e quelli di Crema e di Mantova. Paolo Picco, presidente di FederVita Lombardia, ricorda che «la salvaguardia della vita umana dovrebbe essere compito dello Stato». Gli articoli sono stati pubblicati sulle pagine milanesi di Avvenire lo scorso 23 giugno. (Nella foto la piazza Lega Lombarda, su cui si affaccia la sede del Cav di Mantova.)

mantova cav«I Centri di aiuto alla vita non si sottraggono mai all’impegno di aiutare le donne in difficoltà a causa di una gravidanza. E ci si aspetterebbe un analogo impegno anche dalle istituzioni pubbliche». Paolo Picco, presidente di FederVita Lombardia, conferma un fatto emerso dalle parole dei volontari di numerosi Cav: si assiste a un frequente ritirarsi da parte di servizi sociali e di uffici pubblici dal sostegno alle persone in difficoltà. Non solo per bilanci sempre più risicati, ma spesso per divergenze ideologiche, qualche servizio pubblico conta sul Cav come su un’agenzia non solo per la difesa della vita nascente, ma di assistenza alla maternità per le persone più bisognose. Questa non è propriamente sussidiarietà, aggiunge Picco: «I Cav non hanno carattere d’impresa. Nella maggior parte dei casi intervengono in emergenza, a tutela della vita del nascituro, nella consapevolezza che madre e figlio non vanno mai considerati uno contro l’altro. Ma la salvaguardia della vita umana dovrebbe essere un compito dello Stato, perché ne è il fondamento, e delle sue istituzioni, perché il rispetto per la vita umana è il fondamento di tutti i diritti. Purtroppo talvolta si riscontra indifferenza, latitanza, o abbandono. Ecco allora che i Cav svolgono un’attività che va oltre la sussidiarietà, diventando supplenza e concreta testimonianza».

 

A Brescia il Centro di aiuto alla vita si ingrandisce, anzi raddoppia

Accanto a tanti Centri di aiuto alla vita che vantano una lunga storia, ce ne sono altri che sono “neonati”: è il caso del Cav “Il dono”, avviato ufficialmente nel giugno 2012 nel quartiere Sanpolino di Brescia (una ventina i soci, un po’ meno i volontari). «Invece di ingrandire il primo Cav presente nel centro storico – spiega don Maurizio Funazzi – con il rischio di dare minore attenzione alla persona, si è preferito aprirne un altro in una zona più periferica, appena sorta, con molte famiglie povere. Un Cav sostenuto da un’unità pastorale formata da tre parrocchie».

La circoscrizione del Comune di Brescia ha dato la disponibilità di alcuni ambienti per alcuni giorni la settimana; buona è la collaborazione con un paio di consultori del privato sociale e di 4-5 consultori pubblici sparsi sul territorio cittadino e non solo. Il Cav non ha uno sportello proprio in ospedale, ma opera in collaborazione con la cappellania ospedaliera, un’altra organizzazione di volontariato presente agli Spedali Civili che possono indicare la presenza – sul territorio – del Centro di aiuto alla vita. In questo primo anno, riferisce la volontaria Lucia, si sono rivolte al Cav “Il dono” poco più di cento donne, la metà proveniente proprio dalla cappellania ospedaliera. Quasi i tre quarti erano straniere (perlopiù africane), ma le italiane presentano spesso vissuti problematici: «Grande rilevanza ha il problema abitativo – osservano le volontarie Concetta e Rosalba –. Molte persone hanno perso il lavoro, non riescono più a pagare l’affitto e vengono sfrattati, oppure – se si tratta di studentesse – devono lasciare i collegi se rimangono incinte». «I beni che offriamo – sottolinea la presidente del Cav, Mariangela Bertoli – provengono dalla generosità di donatori, quindi dobbiamo utilizzarli al meglio. Abbiamo fatto convenzioni, con una farmacia e un supermercato, e le volontarie (che fanno anche corsi di aggiornamento) cercano anche di educare le donne a un uso razionale delle risorse: il pannolino non si usa fino a tre anni, imparare l’italiano è utile per orientarsi meglio nel nostro Paese. Ma quando ci cercano, ci trovano 24 ore su 24». Dove possibile, è stata operata una divisione del territorio cittadino tra i due Cav secondo le circoscrizioni, «ma ovviamente si privilegiano le necessità delle persone». Il Cav “storico” del centro cittadino, riferisce il presidente Gabriele Zanola, privilegia ora l’assistenza economica e materiale alle donne: «Ma se arriva qualcuna a rischio aborto, non ci tiriamo indietro». Spesso il problema abitativo è molto pressante: «Per ragazze madri e donne maltrattate o cacciate di casa cerchiamo soluzioni con case di accoglienza, sia a Brescia, sia a Capriolo, presso le Suore poverelle o le Suore di Maria Bambina, oppure le Dorotee. «Tre anni fa avevamo avuto un forte finanziamento dal Comune – aggiunge Zanola – ma in cambio davamo assistenza a tutte le donne alle prese con la maternità. Poi il fondo si è progressivamente ridotto e ora è chiuso». Ma i bisogni non sono calati.

L’attività di aiuto porta a imbattersi in episodi incredibili: «Ricordo il caso di un’infermiera – dice Zanola –, che era incerta se tenere il bambino: era convinta a metà e cercava un segno che le facesse prendere la decisione. Le capitò di distrarsi mentre guidava e di passare lentamente con il rosso a un semaforo. Si scontrò con un’altra auto, da cui scese una donna visibilmente incinta che le gridò: “Ma volevi farmi abortire?”. L’infermiera rimase talmente colpita che rinunciò all’aborto e tenne il bambino».

 

All’ospedale di Crema, il Cav è presenza importante

Presenza in ospedale, collaborazione con i consultori, controlli settimanali delle donne assistite con i loro bambini. E una culla per la vita tecnologicamente avanzata. Sono i fiori all’occhiello dell’attività del Centro di aiuto alla vita di Crema (Cremona). «Siamo nati nel 1979 – racconta la presidente Rosa Rita Assandri – per coprire le esigenze nella tutela della vita nascente del territorio della diocesi di Crema. Ma il raggio di azione si è allargato, soprattutto grazie alla presenza in ospedale. I Cav sono nati per dare una possibilità di vera scelta a una donna tentata di abortire: e la vera scelta è possibile solo se hai a disposizione almeno due soluzioni. Oggi accogliamo anche mamme con neonati e donne gravide con problemi, anche se non a rischio aborto. Nel 2012 abbiamo accolto 151 mamme».

Dalle origini è molto cambiata la tipologia delle donne che si rivolgono al Cav, dove operano circa 25 volontari: «In origine assistevamo l’80 per cento di italiane e il 20 di straniere, attualmente è l’inverso. Tra le immigrate, prevalgono quelle provenienti da Romania, Marocco e Nigeria». Buona la collaborazione con i consultori, soprattutto quello pubblico della Asl e quello diocesano accreditato “Insieme”: «Oltre ai Nasko, abbiamo partecipato a due bandi e abbiamo ottenuto finanziamenti per due progetti dalla Regione». «Ma per completare le domande dei progetti – aggiunge la volontaria Alice Comandulli, ex dipendente di un’azienda informatica – sono richieste competenze tecnologiche non indifferenti». L’assistenza alle mamme con bambini avviene ogni venerdì del mese presso la Casa della carità: «Ogni gruppo di mamme viene una volta al mese: trova non solo i volontari che distribuiscono alimenti e indumenti, ma anche la nostra pediatra Luciana Lombardi, storica volontaria, che visita i bambini se serve». La pediatra, insieme con il marito – ex primario di pediatria – Ugo Serra, è all’origine dell’iniziativa della culla per la vita, che è stata aperta nel 2008 presso le suore del Buon Pastore: «È dotata di sensori sofisticati, e ha tutte le più moderne tecnologie».

«Certamente la crisi economica morde (i mutui pesano e la disoccupazione è in crescita) – conclude la presidente –, ma crediamo che la nostra presenza, sia nel consultorio sia in ospedale, possa essere un segnale importante contro una mentalità che inclina all’aborto troppo facilmente».

 

«Mantova, i nostri progetti Speranza per evitare l’aborto»

Grande attenzione al mondo giovanile, accoglienza residenziale di donne in particolare difficoltà con i loro bambini, progetto “Speranza”. Sono alcune delle caratteristiche del Centro di aiuto alla vita di Mantova, che sta per aprire un punto di ascolto anche all’ospedale cittadino “Carlo Poma”. «Il nostro Cav è nato nel 1981, sull’onda della campagna per il referendum contro la legge 194 – racconta la presidente Marzia Monelli –. Attualmente possiamo contare su una cinquantina di volontari e soci. La maggior parte delle donne che incontriamo, circa l’80 per cento, sono straniere, ma in quest’ultimo anno sono in aumento le italiane». Da oltre quindici anni, racconta una delle vicepresidenti Maria Luisa Costa, è stato sviluppato un ampio progetto per i giovani: «Ci è stato chiesto di dedicarci a fornire loro informazioni e assistenza. Abbiamo quindi aperto un centro di ascolto telefonico (0376.225959), che raccoglie le problematiche e le domande dei giovani (che chiamano da tutta Italia)». Il servizio è stato avviato dopo corsi di formazione per gli operatori: «Recentemente abbiamo ampliato la nostra azione con altri mezzi in uso tra i giovani: sms, chat, facebook». Questa attività ha avviato un circolo virtuoso anche per incontri e assemblee nelle scuole: «Da un lato conosciamo meglio le necessità degli adolescenti – continua Maria Luisa Costa – dall’altro sappiamo come entrare in comunicazione con loro. Infatti i temi affrontati in chat e al telefono sono i più vari, ma al 90 per cento riguardano una sfera etica».

Importante è la collaborazione con altri enti del territorio: «Sia con le Caritas, sia con i Servizi sociali, sia con i consultori – precisa la presidente –. Questo ci permette sia di confrontarci sulla risposta più adatta da fornire a chi chiede aiuto, sia di lavorare “in rete”. Anche per quel che riguarda l’accoglienza residenziale di mamme (e figli) in particolari situazioni di difficoltà». A questo scopo, il Cav può contare su un appartamento di prima accoglienza presso il Gradaro, in collaborazione con le suore oblate dei poveri, e di sei alloggi nella Casa di Mamma Isa (nei pressi dell’ospedale) di proprietà della Fondazione Bruno Traverso, dove sono ospitate donne per offrire opportunità di un percorso di autonomia, su richiesta dei Comuni di Mantova e della provincia. «Speriamo di poter ampliare questa offerta – dice Marzia Monelli –. Infatti nella nostra futura nuova sede (come l’attuale messa a disposizione dalla curia mantovana) ci sono tre ambienti, già celle delle suore, che potrebbero essere trasformate in minialloggi per situazioni di emergenza da violenza o abbandono».

Sul fronte più “caldo” del sostegno alle donne tentate di abortire, oltre ai fondi Nasko e ai Progetti Gemma, il Cav di Mantova ha lanciato il Progetto Speranza: «Si tratta di fondi che eroghiamo noi, grazie al sostegno dei nostri benefattori: una somma equivalente agli altri (160 euro per 18 mesi), ma che possiamo avviare con velocità». Già siglata una convenzione con l’azienda ospedaliera “Carlo Poma”: «Abbiamo partecipato alla formazione per affiancare gli operatori del Pronto soccorso a riconoscere i casi di violenza. Apriremo uno sportello presso il reparto di Ginecologia per offrire aiuto alle donne in difficoltà per una gravidanza».

 

I Centri di aiuto alla vita, risorsa per la società

L’introduzione all’indagine sui Cav lombardi, con le opinioni di Paolo Picco, presidente di Federvita Lombardia. Di seguito i primi tre Cav presi in esame: quelli di Cernusco sul Naviglio, Busto Arsizio e Bergamo. Gli articoli sono stati  pubblicati sulle pagine milanesi di Avvenire lo scorso 8 giugno, ma la Giornata nazionale per la vita in programma domenica prossima, 2 febbraio, offre l’occasione per riprendere la serie di articoli.

mpvIl valore di una testimonianza, che è doveroso conoscere, e auspicabilmente apprezzare e favorire. Questo il significato di una panoramica sui Centri di aiuto alla vita in Lombardia, che avviamo oggi. «Noi documentiamo che in una cultura che dice che quanto una donna decide di abortire non c’è nulla da fare, in realtà – nel massimo rispetto della libertà – è possibile offrire loro un aiuto ed evitare il dramma dell’aborto. E in questo modo renderle felici». È l’opinione – fondata sui fatti – di Paolo Picco, presidente di Federvita Lombardia, il coordinamento regionale dei 58 Centri di aiuto lombardi (e di 40 sedi del Movimento per la vita e di 17 case di accoglienza).

A confermare che l’azione delle centinaia e centinaia di volontari sparsi per la tutta la regione (ma anche nel resto del Paese) è vissuta come un bene e un vantaggio per le donne, c’è una frase, che molte volontarie ripetono: «Abbiamo talvolta incontrato donne alle prese con il trauma dell’aborto, e cerchiamo di aiutarle. Ma nessuna di quelle che ha tenuto il suo bambino è tornata da noi rimproverandoci. Tutte sono soddisfatte di avere il loro bambino».

La Lombardia non vanta solo primati economici. Nella regione più popolosa d’Italia, si è registrato nel 2012 il maggior numero di bambini nati grazie all’aiuto dei Cav (48 ogni 100mila abitanti) sia di gestanti assistite (76 ogni 100mila abitanti). «Il ruolo dei Cav in Lombardia – continua Picco – è consolidato anche da una diffusa buona collaborazione con le strutture pubbliche, consultori familiari, enti ospedalieri, Asl (pur permanendo singoli casi problematici, legati a situazioni locali)». E nel sistema di welfare ha dato finora ottima prova di sé «favorendo l’attività delle organizzazioni di volontariato (in generale, e non soltanto dei Cav): legge 23/99, bandi annuali, infine i Progetti Nasko e i Cresco. Già nella legge 23/99 – sottolinea Picco – c’era una particolare attenzione al concepito, che veniva dichiarato “componente della famiglia”: una affermazione di principio non da poco, e in questa ottica vanno inquadrati anche i successivi provvedimenti di supporto».

Numerosi sono i Cav lombardi con una lunga storia alle spalle, di due o tre decenni: «La testimonianza dei Cav – aggiunge Picco – sta rendendo evidente che la difesa della vita nascente è qualcosa di realmente possibile e praticabile, anche nelle condizioni di difficoltà nelle quali la donna si viene a trovare». «Certamente molta strada è ancora da fare – conclude Picco –, ma la direttrice è l’idea che la difesa della vita nascente non è mai contro la donna che sta diventando madre, anzi ne è una valorizzazione, ed è compito precipuo delle istituzioni pubbliche: il volontariato fa la sua parte, indica una strada, dimostra la fattibilità».

Restano le molte difficoltà economiche, accresciuta dalla crisi generale: e «anche i fondi Nasko scontano qualche difficoltà ulteriore dalle nuove linee guida, ma necessarie per garantire serietà, che sono state introdotte quest’anno. La situazione è ancora in divenire, cioè richiederà ancora – in tempi da definirsi – qualche correzione di rotta. Il problema è che hanno allungato i tempi di concessione, cosa in sé negativa soprattutto in condizioni di urgenza».

A Cernusco una casa di accoglienza per superare le emergenze

Anche una piccola casa di accoglienza caratterizza il Centro di aiuto alla vita di Cernusco sul Naviglio, nato nel lontano 1989 dall’impegno di alcune volontarie che facevano parte del Centro italiano femminile (Cif) e ospitato in un locale di proprietà del vicino ospedale. «Si tratta di un appartamento concessoci in comodato d’uso gratuito dalla parrocchia nel 2000 – spiega la presidente Isolina Cavenago – dove possiamo ospitare fino a quattro persone: una famiglia o due mamme con il proprio bambino». La permanenza dura circa sei mesi, fino a quando è superata la situazione di emergenza: «Ma non mettiamo in strada nessuno» puntualizza la socia fondatrice Adriana Guzzi. Che aggiunge: «Le ospiti sono seguite da una socia volontaria che è anche infermiera. E hanno periodici colloqui nella sede del Cav. Finora sono stati ospitati 17 bambini con le loro mamme». Si tratta, come è facile intuire, di persone in situazioni di povertà estrema, prive di lavoro e di alloggio, talora maltrattate. La maggior parte delle donne che si rivolgono al Cav di Cernusco – dove prestano la loro opera circa 24 operatori – sono straniere (in crescita albanesi e romeni, prevalenti i sudamericani da Ecuador e Peru, molti anche i nordafricani da Marocco, Egitto e Tunisia), e provengono da tutto il decanato, quindi anche dai Comuni di Pioltello, Cologno, Bussero, Carugate, Cassina de’ Pecchi, Segrate, per un totale di 19 parrocchie. «È un bacino grande, nell’hinterland di Milano, una zona di intensa immigrazione, ma dove gli stranieri, con la crisi economica, sono i primi a perdere il posto o a essere sottopagati, spesso dalle cooperative di lavoro (pulizie, carico e scarico, fornitura personale)», sottolineano le volontarie. Ma in quest’ultimo periodo le difficoltà economiche sono crescenti anche per gli italiani, e questo emerge anche dall’aumento di connazionali che bussano alla porta del Cav. Il bilancio “morale” del 2012 parla di 111 bambini aiutati a nascere e 163 aiutati a crescere; oltre ad aiuti a 274 famiglie e 1.500 incontri effettuati (il primo contatto è per appuntamento, telefonando al numero 02.92.36.03.43). Le risorse per assistere anche 150 famiglie al mese (un lavoro svolto in stretta collaborazione con le Caritas del territorio) vengono dal’impegno dei soci, dal 5 per mille (in calo), e dai banchi vendita delle primule in occasione della Giornata della vita o delle rose in occasione della festa della mamma; oltre a elargizioni di Comune e banche.

Il Cav di Busto presente all’ospedale: e un terzo delle gestanti non abortisce più

Da un lato una buona collaborazione con i medici e il personale dell’ospedale, dall’altro la constatazione che i bisogni crescenti per la crisi economica vengono sempre meno coperti dagli enti pubblici, che subiscono il taglio dei fondi sociali. Il Centro di aiuto alla vita di Busto Arsizio (Varese) è nato nel 1989: «Avevamo avviato un percorso di riflessione – racconta il presidente Antonio Pellegatta – dopo che una nostra amica, infermiera in ospedale, aveva incontrato le donne ricoverate il giorno prima dell’aborto. Ci siamo interrogati su come rendere fattivo l’impegno che ci aveva caratterizzato in occasione del referendum sulla legge 194. E abbiamo mosso i primi passi anche grazie alla spinta del nostro decano Claudio Livetti, allora prevosto di Busto». Un’attività in crescendo, che nel 2012 ha portato ad assistere 102 gestanti, e ad aiutare la nascita di 70 bambini. La maggioranza (circa l’80 per cento) sono straniere, «per lo più da Marocco, Costa d’Avorio, Ecuador, Peru. Una situazione che invece si pareggia per l’accesso ai fondi Nasko, dove le italiane sono la metà» riferiscono le volontarie Piera, Giovanna e Sofia. «Abbiamo da poco rinnovato per la terza volta la convenzione con l’ospedale – aggiunge Antonio Pellegatta, che è pediatra – e la collaborazione è andata migliorando con il tempo. Il primario ci ha rivelato di recente che un terzo delle donne che si erano presentate per chiedere l’interruzione della gravidanza, poi non sono tornate per eseguirla». Difficoltà crescenti sono figlie della dissoluzione delle tradizioni, che colpisce anche comunità immigrate, e che le difficoltà economiche acuiscono. «È in aumento il ricorso all’aborto anche tra i musulmani perché qui i bambini sono un costo maggiore che nei loro Paesi d’origine– riferiscono le volontarie –. Crescono anche i casi di gravidanze tra giovani italiane (non solo minorenni) spesso in condizioni sociali precarie». Quest’anno è diventato più difficile accedere ai fondi Nasko, che devono essere obbligatoriamente richiesti da un consultorio accreditato: «Non sempre c’è la dovuta sollecitudine nel rispondere ai bisogni», segnalano le volontarie. E quando mancano i fondi pubblici, si cerca la collaborazione con le strutture ecclesiali, Caritas e San Vincenzo (che gestisce una strutture di accoglienza per madri con figli minori) Varie le forme di finanziamento: accanto alla vendita delle primule per la Giornata della vita davanti alle chiese dei decanati di Busto e Valle Olona, figurano la festa della birra che coinvolge i giovani a settembre e il mercatino dell’usato.

«A Bergamo abbiamo inventato buoni alimentari e farmaceutici»

L a crisi del tessile nelle valli bergamasche ha gettato nel baratro della disoccupazione molte famiglie, straniere e italiane. E al Centro di aiuto alla vita di Bergamo (attivo dal 1980, l’epoca del referendum sulla legge 194) ne hanno sentito immediato contraccolpo, con un aumento delle richieste di aiuto, sia per gestanti sia per neomamme sia per interi nuclei familiari. «Cerchiamo di capire i problemi che ci presentano, fare analisi dei bisogni e trovare soluzioni» spiega Anna Rava Daini, presidente del Cav che impiega una quarantina di volontari. Ogni nuova utente viene ricevuta da un’operatrice, che apre una scheda e rimane il punto di riferimento nei successivi incontri. I casi vengono portati in discussione al consiglio direttivo, che decide l’aiuto più appropriato. Le schede personali (anonimizzate) servono anche per presentare richieste di aiuto e finanziamento agli enti pubblici, dal Comune alla Provincia. Il Centro di aiuto alla vita di Bergamo può contare anche sull’aiuto della Caritas e della Fondazione Mia (Congregazione della Misericordia Maggiore di Bergamo). «Partecipiamo a bandi regionali o provinciali – riferisce Anna Daini – bussiamo alla porta dei benefattori, ma le necessità sono sempre in crescita: e nel 2012 abbiamo seguito 745 donne, di cui 461 gestanti in difficoltà, e sono nati 321 bambini». Solo il 10% sono italiane; tra le straniere prevalgono di gran lunga le marocchine (un quarto del totale). Il Cav ha aperto anche uno sportello di ascolto agli Ospedali Riuniti di Bergamo e uno al consultorio della Asl: «Cerchiamo di essere presenti, con discrezione, per offrire una possibilità in più alle donne». Spesso però, funziona più il passaparola, soprattutto tra le straniere: «Abbiamo dovuto verificare l’aumento di richieste di aiuto per fasi successive al primo trimestre di gravidanza. La povertà porta a non sapere come cavarsela di fronte alle spese di mantenimento del bambino». Anche se non è la missione principale dei Cav, «interveniamo come possiamo anche in questi casi, con due strumenti particolari: il voucher alimentare e quello farmaceutico». Si tratta di buoni – rispettivamente di 50 e 20 euro – che vengono consegnati per fare la spesa in due esercizi convenzionati: un supermercato coop e la farmacia dell’ospedale.Tutto rendicontato perché gli aiuti vadano davvero a coprire i bisogni primari».