I mille volti di Atene e la fame di giustizia di Manzoni

Un viaggio attraverso i secoli che ha vissuto Atene e due articoli su Alessandro Manzoni – di cui nel 2023 ricorre il 150° della morte – hanno trovato spazio sulle pagine culturali dei quotidiani di domenica 15 gennaio.

Accompagnare un visitatore ad Atene svelando la stratigrafia della città lungo i secoli è il compito che si è assunto Giorgio Ieranò nel suo libro Atene. Il racconto di una città che appare recensito sia dal Corriere della Sera, sia dal supplemento culturale “Domenica” del Sole-24Ore. Su quest’ultimo, Cinzia Dal Maso («L’Acropoli oltre l’Acropoli») scrive che si tratta di «una guida sentimentale ai luoghi che hanno fatto la sua storia, per scoprire la città vera che ha mille anime oltre il suo intramontabile mito». Nel libro di Ieranò (che insegna Letteratura greca all’Università di Trento), scrive ancora Del Maso, «ogni capitolo intreccia miti ancestrali e storie antiche con la vita moderna e contemporanea, e rende così il senso profondo della riscoperta moderna della città antica in tutte le sue sfaccettature e contraddizioni». In definitiva, «un libro che si divora come un romanzo».

Sul Corriere della Sera, Mauro Bonazzi («Miti e storia, tesori e razzie. Com’è difficile essere Atene») esamina il libro di Ieranò fotografando la storia della città attraverso alcune tappe chiave: la distruzione che ne fecero i persiani nel 480 a.C., l’assedio dei veneziani capitanati da Francesco Morosini nel 1687 (con il bombardamento che ha semidistrutto il Partenone), e la razzia dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli, Lord Elgin, che all’inizio dell’Ottocento portò a Londra molte delle sculture rimaste sul tempio che domina l’Acropoli. Se il mito di Atene nasce con Pericle, scrive Bonazzi, esso rinasce – e potremmo dire si consolida – nell’Ottocento. Un’epoca in cui la Grecia tornata indipendente viene governata dal re Ottone I di Baviera che si affida ad alcuni architetti nordici, Theophil Hansen e Ernst Ziller, per dare un nuovo volto alla capitale. Da «città colorata, variopinta, balcanica», Atene «si sbianca: quasi tutti i quartieri centrali vengono rasi al suolo. Al loro posto sorgono edifici neoclassici, bianchi e marmorei». E se effettivamente l’aspetto di Atene dall’alto oggi è prevalentemente bianco, o chiaro, come appare arrivando in aereo o dai punti di osservazione panoramici (Licabetto, Filopappo, la stessa Acropoli), lo stesso non si può dire delle sue strade vivaci della Plaka o intorno a Monastiraki.

Restando al tema dei marmi del Partenone, è tornata di attualità la disputa tra il governo greco e quello britannico per la restituzione delle statue e dei fregi custoditi oggi al British Museum di Londra. Le trattative vanno avanti da tempo, e nelle scorse settimane, alcune notizie apparse sulla stampa britannica davano per possibile un accordo sulla base di un «prestito di lunga durata» o addirittura «permanente». Tuttavia, da un lato il governo greco ha ribadito che non riconosce altro che la restituzione di quanto portato via da Lord Elgin, dall’altro il ministro della Cultura del Regno Unito, Michelle Donelan, ha poi ribadito che non c’è alcuna intenzione di restituire qualcosa. Vedremo se la disputa, avviata almeno a partire dall’azione di Melina Merkouri, ministro della Cultura della Grecia alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, avrà una soluzione. Certo è che non si può più dire che i preziosi reperti ad Atene non troverebbero una collocazione adeguata: il moderno Museo dell’Acropoli (inaugurato nel 2009) ha dedicato al Partenone l’intero ultimo piano, con una ricostruzione in scala reale del tempio, addirittura orientato in modo da essere parallelo all’originale, che si staglia maestoso dietro le vetrate. Nel modello al Museo dell’Acropoli sono esposti tutte le sculture, i fregi e le metope disponibili, lasciando lo spazio per quelle, appunto, mancanti perché custodite a Londra.

Altro tema è l’opera di Alessandro Manzoni. Sul Foglio di sabato 14-domenica 15 Edoardo Rialti approfitta della pubblicazione di una nuova versione in inglese dei Promessi Sposi, per opera di Michael F. Moore, per svolgere una riflessione su come il romanzo sia stato recepito dalla società italiana («In America si traducono i Promessi sposi che ancora dividono l’Italia»). Innanzi tutto fa sua una battuta di Gesualdo Bufalino: «Come con Dio, i conti col Manzoni non si chiudono mai…» e osserva che «il suo peso sulle generazioni successive resta ancora oggi una delle coordinate fondamentali per valutare direzioni e scelte della scrittura italiana, e dell’identità nazionale stessa». Poi Rialti ricorda che «una prima difficoltà sta nel mettere semplicemente a fuoco lo spazio che I promessi sposi hanno occupato nell’orizzonte collettivo. Esso è tanto vasto che… tutti credono di conoscere già Manzoni, perché in fondo ci sono nati dentro, e la complessità e l’audacia della sua operazione risultano così apparentemente innocui, addomesticati». E da Gino Tellini raccoglie l’osservazione che «la cruda, quanto tragica, requisitoria di Manzoni contro l’inerzia intellettuale, contro la distorta amministrazione della giustizia, contro gli abusi e i soprusi del potere, si contrabbanda per mitezza ironica, per sorridente e blanda indulgenza». Ricordo a questo proposito ancora la lezione del mio insegnante di italiano al liceo, Paolo Paolini, che sottolineava la grande novità etica e culturale del romanzo manzoniano. E lamentava che fosse in parte sottostimato nell’immaginario collettivo perché era stato guastato dal ricordo dell’apprendimento svolto a scuola. Un’idea che, Rialti riferisce, aveva anche Umberto Eco, che suggeriva ai ragazzi di leggere il romanzo «liberandolo dalle pastoie scolastiche». Affrontando poi la traduzione inglese, Rialti sottolinea che emerge la «sottile e magnifica complessità» dell’italiano manzoniano. E si augura che «anche in Italia si torni a discutere, fuori dai convegni accademici, sul peso che ancora oggi Manzoni esercita sui nostri tentativi letterari». E conclude, su un altro piano, che Μanzoni mantiene «una prospettiva metafisica dell’esistenza», con domande che nella società italiana contemporanea «sembrano non potersi più porre nello stesso modo, se si pongono affattο».

Ancora a una vicenda manzoniana è dedicato un ampio articolo sul Corriere della Sera di domenica 15 gennaio: «Via l’infamia della Colonna». Gianni Santucci riferisce dell’iniziativa di Casa del Manzoni, fatta propria dall’Ordine degli avvocati e accolta dalla Corte d’Appello per apporre a Palazzo di Giustizia di Milano una targa commemorativa alla memoria di Gian Giacomo Mora, processato nel 1630 con l’accusa di essere un untore, cioè uno che spargeva il contagio della peste, e per questo torturato e condannato a morte (con Guglielmo Piazza). E anche dopo essere stato orrendamente ucciso, la giustizia dell’epoca, dopo averne raso al suolo la casa, fece erigere al suo posto una colonna che ricordasse la vicenda. Colonna che Manzoni prese a simbolo delle iniquità commesse stravolgendo la giustizia nella Storia della colonna infame, pubblicata in appendice ai Promessi sposi nell’edizione definitiva del 1840-42. Questo il testo della targa che verrà collocata – inaugurazione il prossimo 31 gennaio – accanto a quella per il giudice Guido Galli (ucciso dai terroristi il 19 marzo 1980): «Milano erigeva nel 1630 e conservava fino al 1778 un monumento di esecrazione e di infamia verso un umile cittadino di nome Gian Giacomo Mora. A lui e agli innocenti vittime in ogni tempo dei pregiudizi e dei fanatismi restituiscono per sempre dignità e onore i responsabili difensori della giustizia fedeli alla illuminata lezione di Pietro Verri e Cesare Beccaria eletta a codice di umanità dalla coscienza morale e civile di Alessandro Manzoni». Ai temi della giustizia, e agli effetti del suo uso distorto, Manzoni era particolarmente sensibile. Basta ricordare un passo del Fermo e Lucia: «I provocatori, i soperchianti, tutti quelli che in ogni modo invadono i diritti altrui, sono rei non solo del male che fanno, ma del pervertimento a cui portano gli animi di coloro che offendono». Santucci cita anche la spiegazione che Manzoni diede dell’ accecamento dei giudici: aver fatto una certezza di una superstizione: che il contagio potesse essere sparso con un unguento malefico. Da qui una giustizia deviata da «rabbia contro pericoli oscuri», «rabbia resa spietata da lunga paura». Manzoni puntualizzava che «tali cagioni non furono pur troppo particolari di un’epoca». Lo abbiamo visto nella recente pandemia da Covid-19. Senza giungere agli orrori del processo secentesco, paura e irrazionalità sono stati alla base dei toni da caccia all’untore e dello stravolgimento del buon senso che hanno caratterizzato molte decisioni delle autorità, anche ai piani più alti.

Nella stessa pagina del Corriere viene ricordata la recente edizione critica della Ventisettana dei Promessi Sposi, curata da Donatella Martinelli per il Centro nazionale di studi manzoniani (diretto da Angelo Stella).

Il Partenone resta al suo posto

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Il Partenone, Denis Zagorodniuc on Pexels.com

Il dibattito suscitato dalla proposta di “cambiare nome” al Partenone di Atene lanciata sulle pagine dell’American Journal of Archeology dall’archeologo olandese Janric van Rookhuijzen si arricchisce di una voce. Sulla Domenica del Sole-24 Ore del 29 marzo compare un articolo di Emanuele Papi, direttore della Scuola archeologica di Atene, che sin dal titolo (Il Partenone c’è sempre stato) fa capire di non essere d’accordo con la proposta dello studioso olandese. Osservato che «la topografia e gli edifici» di Atene «cambiano spesso nome e posizione, questioni tormentate che riempiono menti, bocche e biblioteche di mezzo mondo», Papi esamina la «tempesta… scatenata da uno scettico ed eretico olandese», anche se può apparire una disputa per pochi esperti della materia, «per il fatto che il Partenone appartiene al “canone occidentale” delle meraviglie del mondo antico ed è diventato un luogo comune ubiquo e planetario». Confermato dal fatto che «ogni anno 2 milioni di viaggiatori ascendono all’Acropoli, una media di quasi 5mila al giorno con picchi di 20mila». 

Van Rookhuijzen, riassume Papi, sostiene che il Partenone è tale «solo a partire della metà del IV secolo a.C.,» e avrebbe indicato un posto per vergini «non meglio specificate». Gli inventari del tesoro degli Ateniesi, compilati fra il 434 e il 303 a.C. indicano «i nomi di una mezza dozzina di stanze che funzionavano da cassaforte di Stato per gli oggetti preziosi offerti dai devoti, insieme a monete, attrezzi liturgici, cimeli e spoglie dei nemici». Nell’identificare ciascuna stanza, scrive Papi, van Rookjhuizen indica la stanza chiamata Parthenon, che compare negli elenchi scritti nel 434, non dentro il Partenone, «ma preferibilmente nel vano occidentale dell’Eretto». Soltanto dopo, secondo lo studioso olandese, «il Parthenon cambiò domicilio e si trasferì a pochi metri nel Partenone, dando il nome a tutto l’edificio». 

L’obiezione di Papi parte da un dato: «Il Partenone fu costruito tra il 447 e il 432 ed era in piedi quando è nominato negli inventari del 434, mentre la fabbrica dell’Eretto fu inaugurata nel 421, terminò intorno al 406, ed era dunque un contenitore ancora inesistente» (impossibile per ora, scrive Papi, retrodatare il cantiere). La conclusione del direttore della Scuola archeologica italiana di Atene è che «anche l’Eretteo dovrebbe mantenere posizione e nome. Così lo chiama Pausania, un ben informato greco-orientale che nel II secolo scrisse in stile notarile un vademecum di tutta la Grecia». «L’edificio… era un condominio di dèi, mitici personaggi e loro parenti, e anche un raccoglitore di prodigi». Tanto rumore per nulla, conclude Papi, mentre ci informa che sull’Eretteo «van Rookhuijzen promette un’altra puntata, ma per il momento resta al solito posto insieme al Partenone». La discussione quindi è appena cominciata. 

Il vero Partenone… è l’Eretteo?

L’Eretteo sull’acropoli di Atene

Tanta Grecia antica sulle pagine culturali dei giorni scorsi, che la quarantena da coronavirus fa gustare a più riprese. L’articolo più interessante – pubblicato su La Lettura di domenica 15 marzo – mi è parso il dialogo che Mauro Bonazzi (docente di Storia della filosofia antica all’Università di Milano) intrattiene con l’archeologo olandese Janric van Rookhuijzen, sostenitore di una tesi che rivoluziona le nostre conoscenze sulla acropoli di Atene. In un articolo pubblicato a gennaio sull’American Journal of Archeology (e anticipato nelle sue linee essenziali da Antonio Carioti sul Corriere della Sera del 18 dicembre scorso) lo studioso dell’Università di Leida (Olanda) ha esposto il frutto delle sue ricerche ed è giunto alla conclusione che il grande tempio che domina l’acropoli di Atene non si chiamasse Partenone ma “Hekatompedon”, cioè tempio dei cento piedi. E che il vero Partenone, cioè il tempio in cui veniva custodito il tesoro più prezioso dedicato alla dea Atena, fosse in realtà quello che viene chiamato Eretteo.
Saremmo stati fuorviati dalla testimonianza di Pausania, che nel secondo secolo d.C. descrivendo l’acropoli parla del grande tempio – che conteneva la statua criselefantina di Atena, opera di Fidia – come di quello «che chiamano Partenone» (Paus. I, 24, 5). «Ma il suo resoconto contrasta con le testimonianze più antiche – obietta van Rookhuijzen – che risalgono al V-IV secolo a.C. Numerose iscrizioni di pietra, contenenti documenti ufficiali, distinguono chiaramente l’Hekatompedon dal Partenone». «Per esclusione, non resta che concludere – sostiene il ricercatore olandese – che il Partenone va identificato con il tempio che oggi chiamiamo Eretteo, con la sua celebre Loggia delle Cariatidi». Che troverebbe anche una migliore giustificazione nel nome, visto che parthenos in greco significa ragazza, vergine. E quel tempio, nella sua parte occidentale, avrebbe contenuto «parti del tesoro ateniese».  «Questa ricostruzione trova ulteriori conferme – conclude van Rookhuijzen – nei documenti antichi (che parlano di quel tesoro: c’erano ad esempio spade persiane o strumenti musicali) e corrisponde molto meglio a quanto osserviamo». L’ipotesi è affascinante e inquietante al tempo stesso, come ogni proposta innovativa che capovolge tradizioni consolidate, e non ho la competenza specifica né la disponibilità delle fonti antiche su cui si fonda l’archeologo olandese. Osservo solo che Pausania (I, 26, 5) dice che c’è «un edificio (oikema) chiamato Eretteo» e che la nota del commento di Domenico Mussi e Luigi Beschi (Pausania, Guida della Grecia, libro I, L’Attica, edizione Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori) riconosce che la topografia degli ambienti dell’Eretteo è tuttora oggetto di controversie tra gli studiosi. Aggiungo che il sito del Museo dell’Acropoli di Atene indica come Hekatompedon il tempio che sarebbe sorto prima e nel luogo del Partenone, che ne avrebbe preso il posto. Ovviamente Pausania non avrebbe potuto citarlo nel II d.C. Segnalo infine che il 16 febbraio scorso (sul supplemento Domenica del Sole-24 Ore) è comparsa un’interessante recensione di Marco Carminati al libro di Giovanni Margisenu Il costo del Partenone. Appalti e affari dell’arte greca (Salerno editrice, pp. 172, 15 euro) in cui il docente di storia greca all’Università di Sassari mostra come per costruire questo tempio maestoso l’Atene di Pericle non avesse badato a spese. 

La visione greca della vita tra Platone e Aristotele

E ancora sul supplemento Domenica del Sole-24 Ore del 15 marzo si trovano due interessanti articoli relativi alla cultura greca. Piero Boitani recensisce il libro di Mauro Bonazzi (sì, l’intervistatore di van Rookhuijzen) Creature di un sol giorno. I greci e il mistero dell’esistenza (Einaudi, pp. 156, 12,50 euro): «Un vorticoso percorso, esemplare nella sua chiarissima discussione – scrive Boitani –, attraverso alcuni momenti fondamentali dell’antica sapienza greca: il Simposio e il Fedro di Platone, l’Etica nicomachea di Aristotele, gli scritti di Epicuro, il celebre discorso di Pericle in Tucidide». Ma anche «un volo attraverso la poesia, da Pindaro a Wallace Stevens, con un solido ancoraggio in Omero», passando per Lucrezio, Dante, Leopardi ed Eliot. E un’analisi del «discorso moderno sulla fragilità (greca) dell’uomo» in particolare quello affidato a intellettuali ebrei in fuga dal nazismo: Simone Weil, Rachel Bespaloff, Hannah Arendt, Erich Auerbach, Walter Benjamin. 
Sullo stesso numero della Domenica, Gaspare Polizzi si occupa ancora di etica platonica e aristotelica recensendo due volumi di Arianna Fermani (docente di Storia della filosofia greca e romana all’Università di Macerata) Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele (Edizioni Università di Macerata, pp. 353, 14 euro) e Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani (Morcelliana, pp. 357, 29 euro). Scrive Polizzi: «Se “la felicità è il fine ultimo di ogni esistenza”, il dialogo con Platone e Aristotele… diviene imprescindibile, perché nessuno meglio dei due massimi filosofi greci ha ragionato sulla radice di una domanda oggi spesso ritenuta vana, forse “pericolosa”, perché apre all’abisso del senso incognito della vita, ma “in cui ne va della vita stessa”». Quanto al secondo libro, Fermano «riconosce che “l’etica di Aristotele è forse la sola etica greca per la quale non esistono solo buoni e cattivi” e che purtuttavia mette in gioco uno spettro ampio di riflessione filosofica, ben oltre i Greci, con Tommaso d’Aquino, Spinoza, Nietzsche, Freud, Arendt, Ricoeur, per concluderne, con Pierre Aubenque, uno dei maggior studiosi di Aristotele, deceduto lo scorso 23 febbraio, che “il mondo riscopre oggi ciò che i Greci sospettavano più di duemila anni fa […] che la tentazione d’assoluto che i greci chiamavano ybris, è la fonte perenne delle sofferenze umane”».