«Medici al centro delle riforme post pandemia»

Filippo Anelli, presidente nazionale degli Ordini dei medici, sottolinea la necessità di valorizzare le competenze dei professionisti per utilizzare bene le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). La mia intervista è comparsa su Avvenire domenica 6 giugno

«Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) non basta puntare sulle strutture, bisogna valorizzare le professionalità, senza stravolgere le competenze. E il Paese ha bisogno di più medici specializzati, si è visto bene con la pandemia». Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), concorda che la campagna vaccinale anti Covid-19, se diventerà annuale, dovrà andare sul territorio: «Come accade per la vaccinazione antinfluenzale. Ma i medici andranno supportati, per il carico di lavoro extra sanitario che richiede».

La vaccinazione anti Covid-19 sta funzionando, basterà a portarci fuori dall’emergenza?

La vaccinazione ha ridotto il contagio, abbattuto la mortalità e ci ha aiutato a uscire dalla fase critica. Lo avevamo visto già per i medici: dopo che sono stati vaccinati tra gennaio e febbraio, abbiamo assistito a un crollo della mortalità da marzo. Non sappiamo però ancora esattamente quanto duri l’immunità: la campagna è iniziata a fine dicembre. Però vediamo che il green pass è già stato prolungato da 6 a 9 mesi, e quello europeo varrà un anno: significa che i primi studi hanno dato risultati migliori di quanto si era pensato.

Se occorrerà una terza dose, la faranno i medici negli ambulatori?

Sulla terza dose, al momento, non ci sono certezze: la natura di un virus che muta suggerisce di essere prudenti e di adottare strategie di vaccinazione annuale. Per quanto il piano vaccinale basato sugli hub abbia funzionato (a parte la necessità di “inseguire” i soggetti fragili con l’aiuto dei medici di famiglia), è chiaro che, in caso di richiami annuali, la gestione non potrà più essere emergenziale, ma dovrà basarsi su servizi sanitari del territorio. Da un lato occorre che i medici “dirottati” sull’emergenza Covid tornino alle loro attività ordinarie per rispondere alla “pandemia silenziosa”: liste di attesa che si allungano, diagnosi tardive, difficoltà di accesso alle prestazioni. Dall’altro non bastano i dipartimenti di prevenzione delle Asl: è ragionevole prevedere il coinvolgimento dei medici di medicina generale (mmg). Tuttavia il carico di lavoro extra sanitario che i vaccini anti Covid comportano (organizzare e chiamare i pazienti) fa sì che si debbano prevedere adeguati “rinforzi”. Inoltre rispetto al vaccino antinfluenzale, monodose e conservato per sei mesi nei normali frigoriferi, quelli anti Covid a mRna sono in flaconi polidose, 6 per Pfizer e 10 per Moderna, da utilizzare interamente una volta aperti.

Ci sono stati medici che non hanno voluto vaccinarsi. È ragionevole che ci sia un obbligo per il personale sanitario?

Su circa 460mila medici, i “no vax” sono pochissimi. Sull’obbligo vaccinale del personale sanitario c’è una sentenza dalla Corte Costituzionale (137/2019) che ha riconosciuto valida una legge della Regione Puglia che lo prevedeva per chi lavora in alcuni reparti. La Consulta ha stabilito che per un operatore sanitario una protezione come il vaccino rappresenta non un “obbligo” ma un “requisito” per svolgere l’attività, anche in termini di sicurezza del lavoro per sé e per i pazienti (ci sono professioni per le quali la vaccinazione antitetanica è un requisito). Avevamo lamentato la mancanza dei dispositivi di protezione individuale all’inizio della pandemia: oggi la vaccinazione si dimostra il miglior presidio per la sicurezza.

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) prevede 20 miliardi per la sanità. Quali i suggerimenti della Fnomceo?

Il Pnrr è uno strumento teso a colmare le disuguaglianze e le carenze di carattere strutturale. Prevede, per esempio, 4 miliardi per rinnovare le apparecchiature obsolete. Poi risorse per l’ammodernamento tecnologico, il fascicolo sanitario elettronico, la messa in sicurezza degli ospedali secondo la normativa antisismica. Mi pare però che manchi altrettanto investimento sulle professioni. Si parla di case di comunità, ospedali di comunità, assistenza territoriale, ma i professionisti restano ai margini: non è possibile una riforma del Servizio sanitario nazionale (Ssn), soprattutto sul piano territoriale, se non si coinvolge chi deve metterla in atto. Per potenziare l’assistenza primaria, non basta fare le case della comunità, occorre che i medici possano lavorare in équipe con assistente di studio, infermiere, ostetrica, terapisti, psicologi, cioè integrando le professionalità. Siamo contrari allo slittamento delle competenze, cioè a dare i compiti del medico ad altri professionisti: significa abbassare la qualità dell’assistenza. Esiste anche un problema di governance. Bisogna evitare che il modello delle aziende sanitarie serva solo per contenere i budget: di recente il presidente della Consulta ha ribadito che i diritti di salute non possono essere sacrificati per esigenze di bilancio. Nella misura 6 del Pnrr questo tema è accennato, ma solo in termini di principio.

Che cosa proponete dunque?

Sulla scia del dibattito negli Stati generali della Fnomceo, accanto al Pnrr abbiamo lanciato la questione medica, cioè la necessità di definire con precisione i confini della professione. Il medico fa diagnosi e terapia. Se l’infermiere si specializza ben venga, così come altri terapisti, ma senza invasioni di campo. Occorre valorizzare le competenze di professionisti che devono lavorare insieme, e non in conflitto: se nelle case della salute ci saranno équipe multifunzionali, è opportuno che le competenze siano ben definite. E poi manca personale. L’abbiamo visto nella pandemia: non basta raddoppiare i respiratori per le terapie intensive, se per farli funzionare non abbiamo un numero sufficiente di anestesisti rianimatori. Ma per ovviare alla carenza di medici, occorre un’adeguata programmazione.

Si riferisce al cosiddetto “imbuto formativo”?

Sì, tutti i medici devono avere la possibilità di trovare un percorso formativo post laurea: una scuola di specialità o il percorso della medicina generale. È un atto di giustizia nei confronti dei giovani. Servirebbe che fosse stabilito per legge, perché nessuno sia penalizzato e magari scelga di espatriare, causando un danno non solo economico al Paese. Il Pnrr ha stanziato 4mila borse post-laurea per le specialità e 2mila per la medicina generale, ma deve diventare un provvedimento duraturo e non occasionale.

Nel Pnrr è anche accennata la possibilità che i mmg diventino dipendenti del Ssn. Una prospettiva praticabile?

Mi pare che sia una questione più ideologica che pratica. Da quando esisteva il medico condotto a oggi è sempre stato salvaguardato il diritto del cittadino di scegliere il proprio medico. Recentemente uno studio sul British medical journal ha mostrato che seguire per lungo tempo un paziente migliora gli indici di sopravvivenza. La scelta della persona a cui affidare la propria salute sviluppa un importante legame di fiducia che valorizza anche l’autodeterminazione del paziente e la tutela della sua dignità. All’interno del Ssn, la scelta del medico si è realizzata solo con l’intramoenia, che non mi pare una soluzione perfetta dal punto di vista della giustizia sociale.

C’è un gene di speranza per l’Alzheimer

La ricerca condotta da un team italiano svela il ruolo nello sviluppo dei neuroni svolto da una proteina finora ignota, una scoperta che potrebbe avere importanza anche per gli studi sulla più comune forma di demenza. La mia intervista al professor Fabio Benfenati, pubblicata oggi su Avvenire

Benfenati Fabio, Research Director of Neuroscience and Brain Technologies at IIT.
Fabio Benfenati

La ricerca scientifica in ambito neu­rologico è tra le più complesse e delicate: studia malattie neurode­generative che compromettono le funzioni cerebrali, con effetti a vol­te devastanti, ma trova enormi difficoltà a individuare molecole veramente effi­caci. Per questo è da salutare con inte­resse la scoperta di un team multidisciplinare italiano che ha individuato un ge­ne e una proteina (il lavoro è pubblica­to su Cell Reports) che sono implicati nel­lo sviluppo neuronale e che potrebbero avere un ruolo nella patogenesi della malattia di Alzheimer. Proprio per la forma di demenza più comune si è registrata nei giorni scorsi la rinuncia del colosso far­maceutico Pfizer a proseguire le ricerche (anche il ministro della Salute Beatrice Lorenzin si è detta preoccupata). Il neu­rologo Fabio Benfenati, responsabile del Centro di neuroscienze e tecnologie sinaptiche dell’Istituto italiano di tecno­logia (Iit) di Genova, spiega il significa­to di questo studio – in collaborazione tra Iit di Genova, Università di Genova (Silvia Giovedì) e Università Vita-Salute San Raffaele di Milano (Flavia Valtorta) – e gli ostacoli che motivano le mosse delle aziende farmaceutiche. «Obietti­vamente è molto difficile trovare farma­ci efficaci per la cura delle patologie neu­rologiche – osserva Benfenati, che inse­gna Neurofisiologia all’Università di Ge­nova –, di molecole ce ne sono vera­mente poche, e gli enormi costi della ri­cerca non vengono ripagati».

La vostra ricerca porta qualche spe­ranza negli studi sulle malattie neurologiche. Come è nata?

È partita da una collaborazione con un gruppo americano di bioinformatica che metteva in relazione prodotti genici sco­nosciuti con funzioni possibili, che de­vono però essere valutate sperimental­mente. Di questo gene APache non si sa­peva nulla e quindi non entrava nean­che negli screening genici: abbiamo vi­sto che è espresso solo dai neuroni, e con una serie di studi di localizzazione e funzionali abbiamo visto che è una proteina molto importante per il traffi­co di membrana, cioè l’attività che le cel­lule svolgono incessantemente durante la crescita e nella trasmissione sinaptica. Il traffico di membrana è un’attività con­tinua nei neuroni, sia durante lo svilup­po per crescere le complesse arborizza­zioni che formano i circuiti nervosi, sia nel trasferimento delle informazioni in cui vescicole di neurotrasmettitore ven­gono rilasciate a frequenze talora altis­sime.

Dove intervengono il gene e la protei­na che avete studiato?

Quando un neurone nasce è una cellu­la sferica, poi comincia a emettere pro­lungamenti come fossero rami di un al­bero: questi processi, guidati dalla cre­scita del citoscheletro (lo scheletro cel­lulare), implicano aggiunta di membra­na. I neuroni, sia in vitro sia nei vari stra­ti della corteccia, se sono privati di que­sta proteina vanno incontro a processi abortivi, e hanno difficoltà a elaborare i prolungamenti. Nei neuroni maturi i neurotrasmettitori sono contenuti in ve­scicole sinaptiche che devono fondersi con la membrana cellulare per liberare il proprio contenuto, e la cui membra­na deve poi essere rimossa dalla mem­brana cellulare per formare nuove vesci­cole. In questo traffico di membrana A-Pache interviene nei processi che servo­no a rigenerare le vescicole, interagendo con la proteina adattatrice AP2 alfa, che serve al recupero delle vescicole. 

Cosa succede se manca?

Stiamo studiando se muta­zioni a carico del gene APa­che possano causare patologie dello sviluppo cerebrale, co­me encefalopatie epilettiche. E poiché APache è molto im­portante per la sopravvivenza dei neuroni, stiamo studian­do se nelle patologie neuro­degenerative ci sono altera­zioni primarie di questa pro­teina. Dati preliminari su tes­suti umani di malattia di Alzheimer mo­strano effettivamente diminuzioni neilivelli di questa proteina.

Pfizer ha deciso di rinunciare alle ri­cerche sull’Alzheimer. Cosa ne pensa?

Stupisce perché era una delle aziende con la ricerca più avanzata. Altre indus­trie, come Roche o Gsk, avevano già li­mitato notevolmente gli investimenti nel campo delle neuroscienze. Tra il tempo e i finanziamenti necessari per la ricerca di molecole efficaci per il sistema nervoso e quello necessario per le sperimenta­zioni di fase I, II e III passano almeno die­ci anni, mentre la durata del brevetto non supera i venti anni. Evidentemente per un ente profit il tempo per lo sfrut­tamento economico non è sufficiente per ripagare gli enormi costi della ricer­ca, anche se la diffusione di queste pa­tologie è in grande aumento.

Studi come il vostro possono far in­vertire la rotta?

In effetti la ricerca sul sistema nervoso ri­schia di essere sviluppata per lo più in ambito accademico (università ed enti di ricerca) da realtà che tuttavia non pos­sono sostituire la ricerca industriale. Pos­sono stimolarla e fornire spunti, ma lo sviluppo industriale delle nuove terapie, che include i lunghi processi di speri­mentazione nell’animale e nell’uomo, può essere sostenuto solo dalle aziende farmaceutiche. Peccato che in Italia i finanziamenti per la ricerca di base e pre­clinica siano molto scarsi e che vi sia po­ca sinergia tra industria e accademia.