Tumori, così si curano in gravidanza

A mese dalla morte di Caterina Morelli, che aveva scoperto durante la gravidanza di avere un tumore, tanta gente si è stretta intorno alla famiglia alla Messa di suffragio celebrata a Firenze nella chiesa Beata Vergine Maria Regina della pace, come ha riferito ieri Andrea Fagioli su Avvenire. Accanto, sul tema delle terapie attualmente adottate, è pubblicato il mio articolo in cui parlano gli oncologi Fedro Peccatori e Giovanni Scambia. Di seguito, ripubblico un mio articolo sullo stesso tema, uscito anni fa su Avvenire: innegabili i progressi compiuti in materia.   

nastro rosa«Caterina ha effettuato le cure per la sua malattia e ha combattuto per la sua vita, così come per quella del figlio. Purtroppo il suo tumore si è manifestato subito in modo molto aggressivo, con un alto rischio di recidiva, che si è poi presentata tre anni dopo la nascita del suo bambino. Ed è vissuta a lungo perché ha fatto tutto quanto è possibile per rallentare il progredire della malattia». Fedro Peccatori, direttore dell’Unità di onco-fertilità dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo) di Milano, ha conosciuto e avuto in cura la mamma morta un mese fa a Firenze: «Mai si era posto il dilemma se interrompere la gravidanza, che credo non avrebbe preso in considerazione, anche per le sue convinzioni religiose. Era medico e sapeva rischi e vantaggi delle terapie, cui si è sottoposta: intervento chirurgico e poi chemioterapia; dopo il parto, le cure standard del caso». Come ormai si fa regolarmente: «Il trattamento – conferma Giovanni Scambia, ginecologo oncologo e direttore scientifico dell’Irccs Policlinico universitario “A. Gemelli” di Roma – dovrebbe essere quanto più simile a quello proposto a pazienti non in gravidanza, quando possibile, con adattamenti e precauzioni specifiche atte a preservare la salute della madre e del feto».

L’evenienza di ammalarsi di tumore «capita a circa una donna incinta su mille, circa 500-600 casi l’anno in Italia » precisa Peccatori. «Uno studio condotto recentemente in Italia ha confermato i dati della letteratura internazionale. I tipi più frequenti sono il cancro al seno, il melanoma, il tumore alla tiroide e i linfomi. Un dato che corrisponde a quello della popolazione di pari età non gravida: il fatto di aspettare un figlio non aumenta il rischio di sviluppare tumori ». «Probabilmente – aggiunge Scambia – questa incidenza è destinata ad aumentare nel tempo visto il continuo aumento dell’età media delle gravidanze».

Tuttavia l’evoluzione della malattia non sembra subire variazioni a causa della gravidanza. «Da studi che abbiamo condotto con il sequenziamento genico sul tumore della mammella (il più frequente) si riscontra qualche differenza biologica se la donna è gravida o no, ma non cambiano la prognosi e la possibilità di essere curata». «Un ampio studio di coorte – osserva Scambia – che ha confrontato 516 donne in gravidanza e 42.511 pazienti non gravide con cancro di età compresa tra 16 e 49 anni, non ha mostrato differenze nel rischio di morte causa-specifica».

L’iter delle cure non cambia, anche se «le pazienti devono essere gestite eaccompagnate da un team multidisciplinare che include un ostetrico e un neonatologo oltre al team di oncologia – puntualizza Scambia – per valutare adeguatamente potenziali benefici materni e possibili rischi fetali ». «Generalmente la chirurgia si può fare a qualunque epoca gestazionale, se però siamo verso la fine della gravidanza è meglio far nascere prima il bambino – precisa Peccatori –. La chemioterapia ha il limite di poter provocare malformazioni al feto se effettuata nel primo trimestre: di solito allo Ieo siamo prudenti e non iniziamo prima delle 14-16 settimane di gestazione, quando gli organi del feto si sono formati e devono solo crescere ». «Esiste un rischio aumentato di parto prematuro e ritardo della crescita fetale – aggiunge Scambia –. Esistono studi sul tipo di regime chemioterapico e sui dosaggi che possono essere utilizzati in sicurezza in gravidanza». Infine «la radioterapia, quasi mai trattamento esclusivo del tumore, viene effettuata dopo il parto – spiega Peccatori –. Su terapia ormonale e terapia target i dati non sono molti, e si preferisce effettuarle dopo la nascita del bimbo». «La scelta del trattamento – riassume Scambia – dipende da numerosi fattori, come l’epoca della gravidanza al momento della diagnosi e dallo stadio della malattia». La necessità di anticipare il parto dipende dalla salute della donna: «Si cerca di portare la gravidanza a termine – precisa Peccatori – perché il bambino prematuro è soggetto a maggiori complicanze. Ma si interviene in presenza di rari casi di un deterioramento delle condizioni cliniche della paziente o della necessità di terapie particolarmente aggressive. Quasi mai però siamo in presenza del dubbio sulla necessità di interrompere la gravidanza. Per due motivi: l’aborto non cambia la prognosi della malattia e l’attesa per la chemioterapia dopo la diagnosi istologica e la chirurgia è di un paio di mesi, tanto quanto basta per essere fuori dal periodo a rischio per il feto». «Il messaggio più importante è che oggi si può generalmente curare la mamma senza mettere a rischio la salute del bambino», conclude Peccatori.

 

«È una medicina dell’impegno»

Questo l’articolo, uscito il 9 dicembre 2006 su Avvenire, che era accompagnato da due storie a lieto fine.

Quando giunge agli onori della cronaca, il caso di una donna incinta che rinuncia a curare un tumore per far nascere il proprio bambino suscita sempre emozione. Viene additata spesso come una eroina o, secondo altre prospettive di giudizio, come una incosciente. Non dovrebbe essere difficile però immaginare il tormento e l’angoscia che possono assalire una giovane donna che passa improvvisamente dalla trepida speranza che sostiene i suoi sogni sul figlio che attende al disorientamento per una diagnosi che spaventa. E di conseguenza, anche lo sconcerto di familiari e amici alle prese con una situazione che dalla (facile) condivisione della gioia deve tramutarsi nel (difficile) sostegno in un cammino faticoso, che mette a dura prova nervi e sentimenti. Tra il consiglio – umano e asettico e magari di qualche medico – di pensare prima alla propria salute, e la consapevolezza della madre di non essere più sola, di non poter facilmente «dimenticare» il piccolo essere che sente muoversi nel suo grembo. Peraltro la cura del tumore in gravidanza, pur delicata, è un compito che trova i suoi specialisti: i medici che vi si dedicano con competenza e passione, sono consci del fatto che salvare una vita, in quelle circostanze, equivale a salvarne due. E forse anche di più.

Il cancro complica una gravidanza su mille, dicono gli studi epidemiologici. Se si considera che in Italia nascono ogni anno circa 500mila bambini, si comprende che anche dal punto di vista delle cifre, il fenomeno è tutt’altro che marginale. Per affrontarlo con buone speranze di successo occorrono però competenze mediche multidisciplinari e tutte di alto livello. «Possiamo definirla medicina dell’impegno» osserva Sara De Carolis, ginecologa ricercatrice dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e autrice di un lavoro relativo a 32 donne colpite da tumore in gravidanza (pubblicato quest’anno sulla rivista scientifica «Anticancer Research»). Medicina dell’impegno non solo a curare ma anche a sfatare alcuni pregiudizi: per esempio che la donna in gravidanza non possa essere sottoposta non solo a cure, ma nemmeno ad accertamenti diagnostici. Le 32 pazienti sono state seguite (fino a un anno dopo il parto, così come i neonati) presso il Policlinico «Gemelli» di Roma, nel Dipartimento che non a caso si chiama «per la tutela della salute della donna e della vita nascente», diretto dal professor Salvatore Mancuso. I tumori incontrati sono stati perlopiù leucemie e malattie del sangue (undici) e carcinomi della mammella (sette); meno frequenti i tumori all’ovaio, alla cervice uterina, al cervello, al colon; casi singoli di melanoma, tumore alla lingua, alla cistifellea e allo stomaco. I risultati parlano del 97% di bambini nati vivi, 82% di parti prematuri, 9% di malformazioni fetali e 3% (un caso) di morte del neonato. Tre donne (il 9%) sono morte durante il puerperio a causa del progredire della malattia. «La terapia di una donna gravida malata di tumore – spiega Sara De Carolis – non presenta opzioni diverse dal solito: le armi sono sempre chirurgia, radioterapia e chemioterapia.

Dopo avere valutato quale sarebbe la cura migliore se la donna non fosse gravida, viene decisa una strategia che tiene in considerazione il fatto che alcune terapie possono avere ripercussioni sul feto. Talvolta la scelta migliore è un dilemma, che abbiamo sempre risolto con il consenso informato della paziente». Da questo punto di vista, i casi più difficili sono quelli in cui il tumore si manifesta nel primo trimestre di gravidanza, quando può porsi la scelta tra un intervento immediato per indicazioni materne
e uno ritardato per indicazioni fetali: «La formazione degli organi è completa dopo 13 settimane – continua la dottoressa – ed è chiaro che riuscire a rimandare cure radioterapiche o chemioterapiche al secondo trimestre permette di evitare i maggiori rischi al feto». Allo stesso tempo poter anticipare il parto permette di trattare prima la madre: «Nonostante i nati prematuri corrano qualche rischio di salute in più, il livello dell’assistenza in centri di terapia intensiva neonatale come il nostro è ormai tale da non
spaventare eccessivamente».

Per una presa in carico ottimale della paziente ci vogliono comunque molte competenze: «La scoperta del cancro in gravidanza – sottolinea Sara De Carolis – richiede un team collaborativo e multidisciplinare che includa specialisti in ostetricia, chirurgia, oncologia, radioterapia, neonatologia, psicologia e, talvolta, bioetica». E che possa vantare un significativo numero di casi trattati, anche perché non esistono trial clinici cui riferirsi. Così come non esistono dati sul fatto che la gravidanza influenzi la biologia, la storia naturale, la prognosi o il trattamento del cancro materno. «Stiamo cercando di istituire – rivela la ginecologa – un registro dei tumori in gravidanza in Italia per avere più dati». Un mito da sfatare, che può essere causa di gravi conseguenze, è che la donna in gravidanza non possa essere sottoposta a nessun trattamento: «Sotto controllo medico e con le cautele del caso – puntualizza la dottoressa De Carolis – ma occorre ribadire la necessità di un impegno attento: in due delle tre donne che sono morte il cancro è stato scoperto a uno stadio già avanzato, ma era da tempo che lamentavano disturbi. Eppure esami diagnostici come gastroscopia o rettoscopia sarebbero stati possibili senza rischi per il feto. Così come un’eventuale mammografia in caso di sospetto tumore al seno».

«Grandi speranze dalla terapia genica, ma attenzione al dilagare dei test»

Un rapido sguardo alle prospettive che offre oggi la genetica nella mia intervista a Maurizio Genuardi, docente dell’Università Cattolica e presidente della Società italiana di genetica umana, pubblicata mercoledì 5 dicembre sulle pagine di Avvenire.

fiori_dnaSperanza o incubo. Da quan­do nel 1953 è stata chiarita la struttura del Dna, la geneti­ca è sempre in primo piano tra le terapie innovative, ma ha anche spalancato le porte a prospettive inquietan­ti. Ne parliamo con Maurizio Genuardi, docente di Genetica medica all’Università Cattolica e direttore dell’Unità di Genetica medica dell’Irccs Poli­clinico Gemelli di Ro­ma, e presidente della Società italiana di ge­netica umana (Sigu).

Quali prospettive ha oggi la genetica?

Offre una conoscenza sempre più approfondita dei meccanismi bio­logici del corpo umano, inclusi quelli che sono alla base delle ma­lattie. Grazie alla lettura del patri­monio genetico, sappiamo che co­sa fa la maggior parte dei nostri cir­ca 20mila geni. E conosciamo le cause genetiche di una buona par­te delle malattie ereditarie. La prevenzione basata sui fattori di ri­schio genetici è “mirata”, induce ad adottare strumenti più strin­genti per le persone a ri­schio più alto. Un e­sempio: il 5% dei tumo­ri al seno nasce in don­ne che hanno una mu­tazione dei geni Brca1 o Brca2. Se identificate grazie a esami genetici, possiamo consigliare loro di fare controlli più frequenti e accurati ed eventualmente inter­venti chirurgici preventivi. Il ver­sante preoccupante è l’uso della scoperta per selezionare in epoca prenatale gli embrioni che non presentano la mutazione e quindi non sono a rischio di ammalarsi.

C’è il rischio di un abuso dei test genetici?

Il Progetto Genoma ha facilitato la scoperta di geni che sono causa o predispongono alle malattie. I te­st sono utili quando ci indirizzano verso strategie mirate di preven­zione o di terapia. Problemi sor­gono da test genetici per malattie per le quali ancora non esistono strumenti preventivi o terapeuti­ci, per esempio sclerosi laterale a­miotrofica o Parkinson. E non tut­ti i test sono accurati: avere il fat­tore di predisposizione non signi­fica ammalarsi e alcuni fattori ge­netici hanno un peso specifico molto basso. Questo vale per mol­te malattie, tra cui patologie car­diovascolari, diabete e molte altre, comprese quelle infettive, perché da fattori genetici dipende la mag­giore o minore resistenza a batte­ri e virus. La diffusione dei test ge­netici rischia di ridurre tutto a tec­nicismi con risposte fuorvianti, se non ingannevoli. In particolare, quelli diretti al consumatore (ven­duti su Internet, in farmacia o in istituti di bellezza) possono por­tare a misure di prevenzione o te­rapie non giustificate.

Quali risultati può portare la te­rapia genica?

Dopo grandi speranze, 30 anni fa, tutto si è quasi bloccato per gravi reazioni avverse in pa­zienti con fibrosi cisti­ca. Ma molti hanno continuato a lavorare e si sono ottenuti risulta­ti con alcune malattie, come l’immunodefi­cienza tipo Ada-Scid e l’atrofia muscolare spi­nale (Sma1). Sui tumo­ri siamo a buon punto con manipolazioni genetiche del sistema immunitario: è il caso delle Car-T cells, terapia applicata al Bambino Gesù di Ro­ma. Credo che nessuno possa pre­vedere i tempi per avere risultati concreti per specifiche malattie.

Fino a che punto ci si può spin­gere nel manipolare il genoma?

Pioniere nel campo è stato l’ita­loamericano Mario Capecchi (pre­mio Nobel 2007), che ha inventa­to il ‘gene targeting’ cioè la mo­difica mirata di singoli geni, usa­to a scopo sperimentale in animali di laboratorio. Gli studi si sono e­voluti fino al Cri­spr/ Cas9: la “forbice molecolare” taglia in punti precisi del geno­ma e consente modifi­che in modo mirato ed efficace che, in pro­spettiva, possono cu­rare malattie geneti­che. L’uso sull’embrio­ne – possibile dal pun­to di vista tecnico – è bandito nella grandissima parte dei Paesi occidentali perché non sappiamo ancora gli effetti colla­terali, i danni potenziali di queste manipolazioni, che talvolta agi­scono in maniera diversa da come ipotizziamo.

Giornata del malato, l’impegno del prendersi cura

Ieri si è svolta la Giornata mondiale del malato. Su Avvenire il mio articolo (pubblicato l’8 febbraio nella sezione è vita) con il parere di alcuni rappresentanti della sanità cattolica che declinano il messaggio di papa Francesco, volto a sollecitare, nelle istituzioni sanitarie cristiane e più in generale nei cristiani che operano nella sanità, uno sguardo attento ai più poveri, evitando i rischi dell’aziendalismo

curareLa «vocazione materna della Chiesa verso le persone biso­gnose e i malati si è concretizzata, nella sua storia bimille­naria, in una ricchissima serie di iniziative a favore dei malati». Lo ricorda papa Francesco nel messag­gio per la XXVI Giornata mondiale del malato, domenica 11 febbraio, ri­volgendosi in particolare alle istitu­zioni sanitarie di ispirazione cristia­na. Le quali, sottolinea, operano sia «nei Paesi dove esistono sistemi di sanità pubblica sufficienti» sia in quelli dove «i sistemi sanitari sono insufficienti o inesistenti», in cui la Chiesa come «ospedale da campo» è talora l’unica a fornire cure alle po­polazioni. Dal passato, scrive il Papa, dobbiamo imparare generosità, crea­tività, impegno nella ricerca. Stando però in guardia a «preservare gli o­spedali cattolici dal rischio dell’a­ziendalismo » che finisce «per scarta­re i poveri». L’attenzione al rispetto della persona e della dignità del ma­lato deve essere propria «anche dei cristiani che operano nelle strutture pubbliche».

Il messaggio interpella gli operatori sanitari cristiani, in particolare ospe­dali e case di cura dell’Associazione religiosa istituti socio-sanitari (Aris): «Mi ha colpito molto – osserva padre Virginio Bebber, presidente dell’A­ris – l’indicazione di avvicinarsi al malato con cuore di madre. Che ri­corda quanto aveva già detto France­sco al Convegno ecclesiale naziona­le di Firenze nel 2015. Le nostre isti­tuzioni devono essere molto vicine al­l’uomo malato, come una madre che sa piegarsi al proprio figlio ammala­to ». Vale a dire far sentire la vicinan­za «non solamente di un’istituzione ma anche della comunità cristiana. Ecco allora gli “ospedali da campo” aperti a tutti». Con questo «calore u­mano forte – continua padre Bebber – si riesce a superare il senso dell’a­ziendalismo. Anche se la nostra a­zione per essere efficace ed efficiente non può sprecare risorse, dobbiamo evitare di avere strutture in deficit di bilancio, altrimenti non riusciamo a dare servizio all’uomo malato».

«Anche recente­mente papa Fran­cesco ha parlato di economia e cuore, cioè buona gestio­ne fatta con amore – osserva Mario Piccinini, amminis­tratore delegato dell’ospedale Sacro Cuore di Negrar (Verona) dell’Ope­ra Don Calabria –. Il nostro è un o­spedale religioso convenzionato con la sanità pubblica: quindi dobbiamo tenere presenti le leggi sanitarie na­zionali e quelle del controllo di ge­stione e coniugarle con i messaggi del nostro fondatore». «Don Calabria – continua Piccinini – diceva che l’o­spedale deve essere mantenuto al­l’altezza dei tempi. Il che significa buona organizzazione, buona gestione, capacità di vedere il futuro e di anticiparlo, se pos­sibile. E diceva che la prima Provvi­denza è la testa sul collo. Ma diceva anche che il mala­to, dopo Dio, è il nostro vero padro­ne: quindi cerchia­mo di offrire al pa­ziente la migliore prestazione sani­taria, dal punto di vista sia profes­sionale sia umano. Ben vengano at­trezzature e tecnologie, ma vogliamo un rapporto preferenziale con il pa­ziente: curiamo non la malattia ma la persona».

Dal nord al sud uguali ispirazione e impegno. «L’Ospedale Miulli è un en­te ecclesiastico a sé stante, di cui il ve­scovo di Altamura-Gravina­Acquaviva delle Fonti è “governato­re” – spiega il delegato vescovile mon­signor Mimmo Laddaga – come di­sposto nel Settecento dall’avvocato Francesco Miulli. Ma l’organizzazio­ne è come quella di un ospedale pubblico ». «Il Papa – aggiunge Laddaga – distingue tra Paesi che hanno un si­stema sanitario e quelli che non ce l’hanno. Noi viviamo un’ambivalen­za, perché spesso al Sud l’assistenza sanitaria non è assicurata dal Servi­zio sanitario: il territorio subisce un’alta migrazione di persone che vanno a curarsi a Roma o al Nord. Al Sud sono spesso gli ospedali religio­si (e penso anche a San Giovanni Ro­tondo) a garantire alla povera gente la più alta qualità di cura possibile». Al Miulli «dobbiamo essere ancora più bravi e oculati nella gestione per investire nella sanità locale. E per mantenerci al passo con le ri­cerche più avanzate siamo in con­tatto con il Policlinico Gemelli e l’Università Cattolica per imple­mentare i nostri protocolli dal punto di vista scientifico».

Alla periferia di Roma opera invece l’ospedale «Madre Giuseppina Van­nini » gestito dalle Figlie di san Ca­millo. «Il Papa mette in risalto la com­passione di Gesù per l’uomo sofferente – sottolinea suor Filomena Pi­scitelli, coordinatrice del corso di lau­rea in Infermieristica, di cui l’ospe­dale è sede in convenzione con l’U­niversità Cattolica –. E la nostra mis­sione di assistenza agli ammalati sca­turisce dal Vangelo, dove vediamo la compassione di Dio per ogni forma di sofferenza fisica e spirituale. Le no­stre strutture si mantengono fedeli alla loro ispirazione prendendosi cu­ra della persona in tutte le dimen­sioni, in una dimensione olistica, an­che con la famiglia». «Il Papa fa rife­rimento anche a coloro che lavorano nelle strutture pubbliche e mi pare importante – conclude suor Pisci­telli – che molti infermieri che for­miamo e che lavoreranno negli o­spedali non religiosi possano por­tare con sé l’atteggiamento verso la persona che soffre appreso nella no­stra scuola nello spirito di san Ca­millo de’ Lellis»

Consultorio familiare, quattro aree per un rilancio

Dai lavori del convegno sul ruolo del consultorio familiare in una società che cambia, svoltosi nell’autunno scorso al ministero della Salute, è stato elaborato un documento che suggerisce alcune strategie per valorizzare un presidio che può aiutare la famiglia. Il mio articolo sul numero di gennaio di Noi, famiglia&vita, supplemento mensile di Avvenire

boy-2025099_960_720Integrare la cura sanitaria e l’attenzione sociale verso la famiglia e i suoi problemi è ancora un valore per il quale vale la pena spendersi. E per il quale il consultorio familiare, realtà istituita in Italia con la legge 405 del 1975 – ma già viva come esperienza promossa da associazioni cattoliche sin dal 1948 – , ha ancora compiti utili da svolgere, promuovendo benessere collettivo, e a costi contenuti. Sono messaggi importanti e condivisi tra gli esperti che si sono confrontati al convegno “Il ruolo del consultorio familiare in una società che cambia”, svoltosi nei mesi scorsi al ministero della Salute, che l’ha organizzato assieme all’Istituto superiore di sanità (Iss) e all’Università Cattolica del Sacro Cuore, con la collaborazione della Federazione nazionale dei collegi delle ostetriche (Fnco) e con il patrocinio del Centro per la pastorale familiare del Vicariato di Roma.
Ripartendo dai caratteri fondativi del consultorio, il documento finale – elaborato sulla base dei lavori del convegno cui hanno partecipato oltre 150 operatori consultoriali (pubblici e del privato sociale) e rappresentanti istituzionali e che viene ora proposto ai decisori politici nazionali e regionali – rammenta che i consultori familiari sono caratterizzati da «massima accessibilità, rapporto informale tra operatori e utenti e multidisciplinarietà dell’équipe». Quattro le aree prioritarie che sono state proposte all’approfondimento in altrettanti workshop: salute riproduttiva e percorso nascita, lavorare con le nuove generazioni, crisi della coppia e sostegno alla genitorialità, famiglie multiculturali e sostegno alle donne immigrate. I cambiamenti nei costumi e nei bisogni della popolazione in Italia nel corso degli ultimi decenni sono stati enormi: dalle statistiche – ha evidenziato il ginecologo Giovanni Scambia (direttore Polo Scienze salute donna e bambino del Policlinico Gemelli di Roma) – emerge che nella popolazione femminile nata nel 1966 si è dimezzata la quota di coloro che hanno fatto famiglia in modo stabile rispetto a chi era nato 20 anni prima. Tuttavia i cambiamenti non possono far dimenticare che «la famiglia è banco di prova della tenuta di una società», ha sottolineato monsignor Andrea Manto, responsabile della pastorale familiare del Vicariato di Roma. E che le sue fragilità devono essere motivo di stimolo per un intervento precoce ed educativo, capace di prevenire situazioni di crisi in ambito familiare e non solo.
Il documento finale ricorda che la legge istitutiva dei consultori prevedeva – usando un linguaggio odierno – «offerta attiva di iniziative formative e informative e di assistenza alle coppie», comprendendo «supporto per tutte le problematiche connesse alla salute riproduttiva, compresi i problemi di infertilità», e il «sostegno alla genitorialità» e «alla positiva risoluzione di situazioni di crisi familiare». Obiettivi che sono stati ribaditi anche più di recente da norme e indicazioni contenute sia nel Progetto obiettivo materno infantile (del 2000), sia nell’accordo Stato Regioni del 16 dicembre 2010, sia nel Piano nazionale fertilità e nei nuovi Lea (del 2017), fino all’invito che – alla Terza conferenza nazionale sulla famiglia nel settembre scorso “Più forte la famiglia, più forte il Paese” – è stato rivolto a sostenere la famiglia nelle sue fragilità, «funzione che rientra pienamente nel ruolo dei consultori familiari».
Non ci si può peraltro nascondere che spesso gli obiettivi sono difficili da raggiungere per la carenza di risorse, sia umane sia economiche, e che lo stesso consultorio familiare è poco conosciuto e frequentato. Significativo il dato fornito da Angela Spinelli (responsabile scientifico del convegno per l’Iss): «I consultori familiari sono passati da 2.725 nel 1993 a 1.944 nel 2016» (i dati si riferiscono alle strutture pubbliche, ndr). Eppure, ribadisce il documento, il consultorio «con la presa in carico di adolescenti, donne e coppie nel periodo preconcezionale, gestanti, bambini e coppia mamma-bambino, famiglie, rimane la struttura di riferimento che può assicurare quel continuum di prevenzione e di assistenza primaria raccomandata con un approccio life-course come ribadito anche nei nuovi Lea». Per questo è importante che il consultorio possa essere dotato di un “flusso informativo”, vale a dire che si possa misurarne e rendicontarne l’attività. Che altrimenti non sempre viene apprezzata in modo chiaro, e se non sempre si vede subito il risultato della prevenzione («ma oggi non c’è medicina senza prevenzione», ha sentenziato Scambia), spesso se ne può sentire la mancanza: in una zona del Lazio dove al consultorio familiare sono state “tagliate” le risorse per pagare extra orario un ginecologo che seguiva le adolescenti, ha riferito Serena Battilomo (responsabile scientifico del convegno per il ministero della Salute), si sono poi registrate in tre mesi due interruzioni di gravidanza proprio tra le giovanissime. E all’importanza degli spazi adolescenti ha fatto riferimento anche Giorgio Bartolomei, che opera nel consultorio familiare diocesano “Al Quadraro” di Roma.
Tra gli obiettivi comuni emersi in tutti i quattro workshop si può evidenziare la necessità di rendere sempre più il consultorio un «luogo che valorizza la famiglia come risorsa per la comunità», il «nodo di una rete che dialoghi con gli altri servizi sia territoriali che ospedalieri, sanitari e non, pubblici e del privato sociale, che intercettano le donne, i bambini/adolescenti, le famiglie, ragionando in un’ottica di sistema e agendo in un’ottica generativa». Vale la pena di segnalare alcune proposte specifiche dei workshop. Sulla «salute riproduttiva e percorso nascita» viene suggerito di «implementare modelli organizzativi», quali l’ostetrica di comunità (un esempio concreto viene presentato nell’articolo a fianco), per favorire «percorsi di assistenza integrata territorio-ospedale-territorio», e di valorizzare l’agenda della gravidanza, consegnata dalle ostetriche nei consultori familiari. «Lavorare con le nuove generazioni», comporta contribuire «all’educazione alla relazione sociale, affettiva e sessuale» di adolescenti e giovani adulti, aiutandoli anche a conoscere i temi della fertilità e promuovendo attivamente stili di vita sani per la protezione della salute riproduttiva. Su “crisi della coppia e sostegno alla genitorialità” viene la proposta di diffondere «Gruppi di parola per figli di genitori separati» e di «fare cultura familiare coinvolgendo la figura del padre nel percorso nascita». Infine per le «famiglie multiculturali e il sostegno alle donne immigrate» – vista la complessità del fenomeno migratorio – vengono chieste «lettura dei bisogni» e «flessibilità organizzativa», una «progettazione partecipata», nel «rispetto, riconoscimento e chiarezza nel rapporto con il privato sociale e con il volontariato», ragionando in un’ottica di sistema «per creare alleanze per proposte politiche-programmatiche».
Infine, il documento propone di realizzare una rinnovata mappatura dei consultori familiari «anche per individuare modelli positivi di funzionamento» e – attraverso il confronto in un tavolo tecnico – promuovere «un indirizzo operativo standard e omogeneo su tutto il territorio nazionale più adeguato alle necessità della società attuale». «Come sistema Italia in campo socio-sanitario possiamo rappresentare – ha sottolineato Walter Ricciardi, presidente dell’Iss – una risposta solidale fornita dal pubblico e dal privato sociale rispetto al privato predatorio che avanza in tante parti del mondo». «L’auspicio – ha concluso monsignor Manto – è che le best practice dei consultori, i tanti esempi virtuosi, possano fare cultura e, poi, creare volontà politica, per scegliere comportamenti di reale presa in carico delle persone e delle famiglie». Tutti temi sui quali – in vista delle elezioni – non è incongruo chiedere riscontri ai partiti e ai singoli candidati.

Terapie di frontiera contro il cancro

Le speranze nei farmaci innovativi, ma costosissimi, frutto della ricerca immunologica e della manipolazione genica, che sono stati approvati di recente negli Stati Uniti nel mio articolo pubblicato su Avvenire il 25 ottobre scorso

Food and Drug Administration
Food and Drug Administration

Una terapia oncologica sperimentale basata su una manipolazione genica ha ottenuto nei giorni scorsi il via libera dalla Food and Drug Administration (Fda, l’ente degli Stati Uniti che regola l’immissione in commercio dei farmaci): si tratta di una cura contro il linfoma non-Hodgkin “aggredito” con cellule del sistema immunitario del paziente ingegnerizzate in laboratorio. È il secondo caso: ad agosto era stato approvato dalla Fda un trattamento analogo contro la leucemia linfoblastica acuta, che era stato sviluppato dall’Università della Pennsylvania e poi rilevato da Novartis e denominato Kymriah. Questo secondo procedimento è stato studiato dal National Cancer Institute e commercializzato da Kite Pharma (ora acquisita da Gilead) con il nome di Yescarta. Quest’ultima terapia, sperimentata su 101 pazienti refrattari alla chemioterapia, ha ottenuto un 72% di diminuzione del tumore e un 51% di remissione di malattia. Se gli Stati Uniti sono molto più avanti dell’Europa in queste sperimentazioni, alcune ricerche vengono portate avanti anche nel nostro Paese, e almeno due studi clinici sono in attesa di avere l’approvazione dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa).

«Sono ricerche di immunoterapia, una delle frontiere più promettenti in ambito oncologico – spiega Franco Locatelli, responsabile del dipartimento di Oncoematologia pediatrica all’ospedale Bambino Gesù di Roma – . Attraverso una manipolazione genetica si inserisce su una cellula del sistema immunitario, il linfocita T, una sequenza che si chiama ‘recettore chimerico’. In questo modo il linfocita T diventa in grado di aggredire le cellule tumorali, che esprimono la proteina Cd19, e si può prescindere dalla specificità del sistema Hla. Questo permette una selettività di azione molto maggiore di chemio o radioterapia convenzionali. I risultati migliori si sono avuti nelle leucemie o nei linfomi che prendono origine dai precursori dei linfociti B».

«I linfociti T – aggiunge Ruggero De Maria, docente di Patologia generale all’Università Cattolica e presidente di Alleanza contro il cancro – sono ingegnerizzati con uno dei chymeric antigenic receptor (Car-T) contro il Cd19, proteina espressa dalle cellule tumorali e dai linfociti B. Senza questi anticorpi c’è una forte immunodeficienza, ma le immunoglobuline si possono somministrare. E non va dimenticato che parliamo di malati che non avevano alcuna possibilità di cura».

Quanto alla sicurezza di queste terapie occorre cautela: «Proprio perché straordinariamente efficaci – spiega Locatelli – queste terapie determinano una distruzione massiva delle cellule leucemiche che può dar luogo a una sindrome da rilascio citochinico, che può creare problemi non banali, controllati con cortisonici o con farmaci diretti contro l’interleuchina 6. Altrimenti si inserisce nel costrutto un gene suicida che permette di spegnere le cellule modificate ». «Inoltre se vengono eliminati tutti i linfociti B – continua De Maria – occorre somministrare anticorpi. E bisogna essere sicuri che il bersaglio verso cui si indirizzano le cellule ingegnerizzate non siano indispensabili alla sopravvivenza. Inoltre sappiamo da studi precedenti che a volte il tumore modifica la sequenza del Cd19: sono quindi allo studio nuovi costrutti chimerici che colpiscono due proteine alla volta, cioè bi-specifici». Anche in Italia si lavora a queste terapie: «Al Bambino Gesù – rivela Locatelli – abbiamo sviluppato due trial accademici che abbiamo sottoposto all’Aifa: uno per le leucemie linfoblastiche acute, l’altro per il neuroblastoma, il tumore solido più frequente dell’età pediatrica». La sfida di traslare queste terapie dalle neoplasie ematologiche ai tumori solidi è portata avanti anche dal gruppo di ricerca di De Maria, tra il Policlinico Gemelli e l’Istituto superiore di sanità: «Stiamo cercando di ingegnerizzare i linfociti con recettori artificiali che riconoscono dei bersagli sugli adenocarcinomi del polmone e del colon».

Infine il problema economico: sono terapie che costano tra i 400 e i 500mila dollari. «I costi sono dovuti al fatto – osserva De Maria – che per produrre queste cellule ci sono protocolli molto complessi, il farmaco viene realizzato su misura del singolo paziente, in ambienti di good manufacturing practice, per i quali l’attività regolatoria impone una serie di protocolli».

Una valutazione complessiva viene da Alberto Scanni, già capo dipartimento di Oncologia del Fatebenefratelli di Milano e direttore generale dell’Istituto dei Tumori: «È un meccanismo molto bello, affascinante, che funziona, ma che non è perfetto, con effetti collaterali importanti, che andranno considerati. Insieme con il problema niente affatto secondario dei costi». «Certamente – conclude Scanni – la strada del futuro, importantissima, è quella dello studio biologico della malattia, cioè dei meccanismi intrinseci della proliferazione cellulare per andare al nocciolo del problema. Contro la malattia tumorale serve l’attacco con tutte le armi disponibili: chirurgia, chemio e radioterapia. E anche immunoterapia».