In occasione dei 25 anni dell’Istituto di Bioetica (ora anche Medical Humanities) dell’Università Cattolica di Roma, la mia intervista al direttore Antonio G. Spagnolo, pubblicata su Avvenire lo scorso 19 ottobre
«La medicina personalizzata rimanda a una bioetica capace di essere attenta ai bisogni del singolo paziente, con discernimento, in contrapposizione a quella che il Papa (nel recente discorso alla Pontificia Accademia per la Vita, Pav) definisce «egolatria », il culto dell’io. Una istituzione come l’Università Cattolica non può trascurare la necessità della formazione alla bioetica di tutti gli studenti dei suoi corsi di laurea di indirizzo medico-sanitario ». Antonio G. Spagnolo è il direttore dell’Istituto di Bioetica e Medical Humanities dell’Università Cattolica di Roma, che ha di recente celebrato i suoi 25 anni con un convegno di studi che ha posto al centro proprio la formazione bioetica in ambitosanitario.
Che significato ha avuto il vostro convegno?
È stata l’occasione per ripercorrere la storia dell’introduzione della bioetica nell’insegnamento universitario della Cattolica. Fin dal 1985 esisteva il Centro di Bioetica fondato dal cardinale Elio Sgreccia, ma solo nel 1992 – con un decreto rettorale – è stato introdotto l’Istituto di Bioetica. Sgreccia è stato il primo direttore e il primo professore ordinario di Bioetica: intorno a lui è cresciuta la nostra «scuola». L’aspetto formativo resta uno dei nostri compiti principali, assieme alla ricerca e all’assistenza con le consulenze etiche al letto dei pazienti. Oltre all’aspetto storico (è stato interessante rivedere ex alunni ora punti di riferimento di centri di bioetica nel mondo, e anche sacerdoti ora vescovi), abbiamo sottolineato l’importanza di formare in bioetica i professionisti sanitari in diversi ambiti.
Quali in particolare?
Abbiamo tenuto presenti le tre aree principali in cui è inserita la bioetica a livello sanitario: la medicina legale, la filosofia del diritto e le medical humanities (inclusa la storia della medicina), a cui è stata «allargata » la nostra stessa denominazione. Infatti l’Istituto stava iniziando a muoversi nella direzione di educare gli studenti nelle scienze umane, nell’antropologia, nella storia della medicina e nella medicina narrativa. Abbiamo voluto mettere in evidenza questi aspetti nell’Istituto anche per sottolinearne la specificità rispetto al Centro di Ateneo di Bioetica che si occupa di temi più fondativi.
Quale messaggio trae un Istituto universitario dal recente discorso del Papa alla Pav?
Papa Francesco ha affidato agli accademici della Pav una sorta di compito perché affrontino alcune emergenze, quali il materialismo tecnocratico, la ricomposizione della frattura tra le generazioni, la manipolazione della differenza sessuale. La politica sembra dare poco spazio alla bioetica: in Italia il Comitato nazionale per la bioetica è scaduto ma non sembra esserci interesse a rinnovarlo, e negli Stati Uniti, Donald Trump non ha più rinominato la commissione presidenziale di bioetica. Con lo stile puntato sul dialogo, il Papa parla della necessità di riportare «una più autentica sapienza della vita all’attenzione dei popoli». Sulla differenza sessuale sta emergendo dalla ricerca clinica e dalle neuroscienze una diversità di substrato tra l’essere maschio e femmina, un’oggettività di natura che non può essere ignorata. In questo senso va inteso il nuovo Centro di ricerca istituito nell’Università Cattolica, che si occupa di medicina di genere, cioè della necessità di impostare le cure sulle differenze di genere.
Servirà anche nella formazione?
Certo, quest’anno abbiamo previsto per la prima volta un corso in bioetica indirizzato a tutte le professioni di cura: non solo medici ma anche infermieri, fisioterapisti, riabilitatori… Il corso si svolgerà in cinque fine settimana tra febbraio e giugno 2018 (le iscrizioni si chiudono il 2 febbraio). È importante una formazione che mostri l’unicità della persona come soggetto di assistenza, ricerca e didattica. In un ospedale universitario è allo stesso tempo normale e doveroso.