
Ancora una riflessione sul valore dei classici nell’articolo pubblicato domenica 22 aprile su Avvenire, ma disponibile anche sul sito del quotidiano, dal titolo: «Senza i classici la scienza perde i perché», in cui Roberto Righetto recensisce il libro del fisico Lucio Russo: Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista (recentemente edito da Mondadori). Ma prima di giungere alle valutazioni dello scienziato, c’è spazio per una ripresa del dibattito ricorrente sul peso e l’importanza della cultura classica, e soprattutto dell’opportunità di continuare a studiarla. Righetto parte in realtà dalla filosofa Martha Nussbaum, autrice del saggio Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, da cui è tratta la preoccupazione che, abbandonandola, si perdano alcune importanti capacità «associate agli studi umanistici e artistici: la capacità di pensare criticamente, la capacità di trascendere i localismi e di affrontare i problemi mondiali come “cittadini del mondo”; e, infine, la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell’altro». Viceversa, sono gli economisti – Righetto cita Andrea Ichino e Michele Boldrin – a mostrarsi scettici sull’utilità degli studi classici nel mondo contemporaneo.
Nel libro di Russo vi sono risposte adeguate da parte di chi non solo ha studiato scienza, ma anche storia della scienza. Quindi la sua difesa del mondo classico non parte da un appello, che può apparire a qualcuno generico e poco comprensibile, alle radici culturali della nostra società, ma da un riconoscimento del debito che anche il progresso scientifico deve alle osservazioni degli antichi. Non solo i citati Aristarco di Samo, a cui si riconosceva debitore Niccolò Copernico (che peraltro studiava diritto a Ferrara), e Ipparco di Nicea, che prevenne le idee di Isaac Newton sull’attrazione degli astri tra loro; vorrei ricordare anche Eratostene di Cirene, che fu bibliotecario di Alessandria e unì competenze letterarie (edizione dei testi della commedia antica) e geografico-astronomiche. E se ovviamente, le conoscenze degli antichi sono state ampiamente superate al giorno d’oggi, ci si dovrebbe stupire della loro capacità di giungere a ipotesi così “avanzate”, privi com’erano dei nostri strumenti tecnologici, a partire da un “semplice” cannocchiale. E Russo ammette: «Il debito della scienza moderna verso l’antica cultura greca è oggi in genere gravemente sottovalutato». Occorre peraltro ammettere che anche tra gli studiosi dell’antichità, a dedicarsi ai testi scientifici è comunque una minoranza (e del resto quanti al liceo classico, per fare un esempio, studiano la rappresentazione dei numeri in greco?). Importante mi pare la conclusione di Russo, ragionando da scienziato: «Fra gli aspetti non secondari dell’indebolimento dei nostri legami con la civiltà classica, accanto al progressivo abbandono del metodo dimostrativo, dobbiamo includere l’ampliarsi della frattura tra matematica e fisica, l’incrinarsi del rapporto classico tra teorie e fenomeni e il diffondersi dell’irrazionalismo in importanti settori della comunità dei fisici».
Mi piace concludere osservando come proprio dagli uomini di scienza vengano spesso le osservazioni di maggiore profondità sull’importanza formativa degli studi classici per lo sviluppo dell’individuo. Dalla raccolta di dieci saggi Ritorno ai classici, pubblicata lo scorso anno da Vita & Pensiero, estraggo i pareri del neurobiologo Alberto Oliverio e del fisico Guido Tonelli. Il primo osserva che «l’entusiasmo nei confronti della tecnologia […] non può comportare un’ignoranza dei valori insiti in una cultura classica. La lettura dei classici greci e latini consente infatti un’approfondita comprensione dei rapporti umani, della politica, dei valori». Il secondo ritiene che «una formazione basata sulle traduzioni dal greco e dal latino addestri meglio la mente duttile dei giovani all’uso implacabile della logica; che è lo strumento principe con cui si sviluppano discipline che solo apparentemente sembrano così diverse fra loro, come la filosofia e la fisica». Aggiungendo che «di cultura umanistica c’è bisogno per far progredire la società, per definirne gli scopi, e per dare un senso e umanizzare lo stesso processo scientifico».
Quindi, per tornare al titolo di Avvenire, si tratta della ricerca dei “perché” più profondi, che restano oltre ogni conoscenza tecnica o scientifica, per quanto importante. Quei perché che servono a orientare il nostro agire nel mondo.