La mia intervista allo scienziato giapponese sulle applicazioni delle cellule staminali pluripotenti indotte (Ips), la scoperta che gli è valsa il premio Nobel per la medicina. L’articolo è stato pubblicato su Avvenire lo scorso 8 luglio.
«Credo che le promesse scientifiche e cliniche sulle cellule Ips siano state mantenute. Lo dimostrano molte scoperte e l’avvio di numerosi trial clinici». Lo scienziato giapponese Shinya Yamanaka ha vinto il premio Nobel per la medicina nel 2012 per la scoperta delle cellule staminali pluripotenti indotte (Ips), grazie a un metodo (applicato nel 2006 a cellule di topo e nel 2007 a cellule umane) che consente di far regredire le cellule fino a uno stadio simil-embrionale. Una svolta che ha permesso di affrontare le sfide della ricerca su molte malattie con un’arma innovativa e potente. Yamanaka, che è direttore del Centro di ricerca e applicazione delle cellule Ips (CiRA) dell’Università di Kyoto, in Giappone, vede il suo compito principale nel «portare la tecnologia delle cellule Ips ai pazienti». Il testo completo può essere letto sul sito di Avvenire
Secondo articolo sui risultati del Congresso della ricerca responsabile sulle cellule staminali, svoltosi a Padova la scorsa settimana, pubblicato giovedì 24 su Avvenire
Dalla ricerca di base a farmaci pronti a entrare in terapia. È ampia la gamma dei contributi scientifici che hanno caratterizzato la terza edizione del Congresso internazionale della ricerca responsabile sulle cellule staminali, organizzato la scorsa settimana dal Dipartimento di Salute della donna e del bambino dell’Università di Padova e dalla Pontificia Accademia per la Vita.
Alla ricerca di base – ma orientata al paziente – appartengono le ricerche del gruppo di Lorenza Lazzari, direttore Ricerca e sviluppo del Laboratorio di terapia cellulare dell’Irccs Policlinico di Milano. «È ormai noto – spiega – che le cellule staminali di fronte a un tessuto danneggiato producono microvescicole, una specie di cargo, con piccoli Rna, lipidi e proteine che modulano la rigenerazione del tessuto danneggiato. Noi studiamo come funzionano le staminali mesenchimali (da midollo osseo, sangue del cordone ombelicale, tessuto adiposo), che tipo di microvescicole producono e che cosa c’è dentro, e cerchiamo di valutare come questi “prodotti” siano più favorevoli per alcune patologie neurodegenerative o da ischemia cerebrale o da trauma spinale». «Un altro ambito di ricerca – aggiunge Lazzari – cui si dedica il nostro dottorato Mario Barilani riguarda i cargo rilasciati dalle Ips di Shinya Yamanaka, che hanno mostrato di portare “strumenti” sia della cellula d’origine (fibroblasto) sia altri più simili a quelli dell’embrione». Dell’uso delle cellule staminali mesenchimali (da midollo osseo e tessuto adiposo) come «cavalli di Troia» per incorporare e rilasciare farmaci antitumorali ha parlato Augusto Pessina, presidente del Gruppo italiano cellule staminali mesenchimali (Gism): «Positivi dati preclinici sono già stati ottenuti nella riduzione di metastasi polmonari e studi sono in corso per valutarne l’applicazione in forme tumorali particolarmente aggressive».
Analoghi approcci di terapia cellulare contro i tumori (del pancreas e sarcomi) sono quelli di Massimo Dominici, responsabile del Laboratorio di terapie cellulari dell’Università di Modena e Reggio. «Modifichiamo geneticamente cellule dell’immunità (linfociti) per renderle più attive nei confronti dei tumori – spiega Dominici – oppure cellule staminali (da tessuto adiposo) per far produrre loro sostanze fortemente citotossiche». Il tutto grazie a una startup universitaria «che sta diventando una realtà farmaceutica di terapia genetica contro il cancro: l’obiettivo è arrivare al paziente in due anni».
È invece ormai un farmaco il trattamento con cellule staminali dell’occhio per curare le ustioni che ledono la cornea. Approvato lo scorso anno dall’Agenzia europea per i medicinali (Ema) è ora all’attenzione degli uffici regolatori degli Stati: «L’Aifa l’ha approvato nelle scorse settimane – spiega Paolo Rama, primario dell’Unità operativa di Oculistica-Cornea e superficie oculare dell’Irccs San Raffaele di Milano – e sarà quindi presto disponibile nella pratica clinica». Il farmaco permette – grazie a un sistema di coltura con un substrato di fibroblasti – di riparare l’epitelio della cornea danneggiata «che sarebbe sostituito naturalmente dalla congiuntiva, un tessuto vascolarizzato opaco – spiega Rama – recuperando la cornea e la visione del paziente».
La giornata inaugurale del terzo Congresso della ricerca responsabile sulle cellule staminali organizzato dalla Pontificia Accademia per la Vita in collaborazione con l’Università di Padova nel mio pezzo pubblicato giovedì scorso su Avvenire
Padova
Ferve in molteplici direzioni la ricerca sulle cellule staminali, e rispetto a pochi anni fa si realizzano studi più mirati ma anche forse più responsabili, rispetto sia ai valori etici di base sia alle necessità dei pazienti. Sono gli obiettivi emersi ieri a Padova nella giornata inaugurale del terzo Congresso internazionale della ricerca responsabile sulle cellule staminali (dopo quelli di Roma nel 2006 e di Montecarlo nel 2009), organizzato dal Dipartimento della salute della donna e dei bambini dell’Università di Padova (diretto da Giorgio Perilongo) in collaborazione con la Pontificia Accademia per la Vita (Pav), con il supporto della Fondazione Jerome Lejeune e del Comitato consultivo bioetico del Principato di Monaco. Significativo il titolo: «Dalle cellule ai prodotti cellulari: sviluppo di nuovi strumenti terapeutici».
Il congresso, spiega il copresidente Maurizio Muraca, «ha luogo in un momento di particolare sviluppo della medicina rigenerativa, che vede contemporaneamente la scoperta di nuovi strumenti terapeutici, potenzialmente più semplici ed efficaci, lo sviluppo di nuove tecnologie di produzione e l’ingresso nel settore della grande industria farmaceutica. Un contesto così dinamico apre nuove opportunità e interrogativi in ambito medico, normativo, etico, socioeconomico e della comunicazione». A introdurre i lavori un videomessaggio di Shinya Yamanaka, il ricercatore giapponese che vinse il Nobel per la medicina nel 2012 proprio per la sua scoperta della possibilità di “riportare indietro” l’orologio dello sviluppo cellulare fino a uno stadio simil-embrionale, generando le Ips (staminali pluripotenti indotte). Lo scienziato ha dato conto del rapido svilupparsi in Giappone degli esperimenti con le Ips, grazie ai massicci fondi che in questo tipo di ricerca il Paese asiatico ha investito, rivelando che sono iniziati anche test clinici di fase 1 (relativi alla sicurezza) per la terapia della degenerazione maculare legata all’età e per produrre piastrine e globuli rossi. In più ha spiegato che è in corso un’opera di bancaggio di cellule Ips ricavate dal sangue, dal midollo osseo e dal cordone ombelicale, che sono poi messe a disposizione delle sperimentazioni delleaziende farmaceutiche.
Un ampio panorama sulla medicina rigenerativa è stato poi presentato dalla presidente del congresso, Katarina Le Blanc (Clinica ematologica del Karolinska Institutet di Stoccolma), nota nel mondo della ricerca internazionale per i suoi studi sulle cellule mesenchimali e sulla loro capacità immunomodulatoria nella grave complicanza dei trapianti di midollo osseo nota come Gvdh ( Graf versus host disease), un’aggressione delle cellule trapiantate verso l’organismo del paziente che le riceve. Le Blanc ha confermato i risultati eccellenti che queste cellule mesenchimali stanno ottenendo, e ha poi presentato studi innovativi sulle proprietà antibatteriche delle cellule progenitrici presenti nella mucosa orale.
Ancora della capacità di rigenerazione e immunomodulazione delle cellule staminali mesenchimali si è occupato lo statunitense Peter Quesenberry (direttore di Oncoematologia alla Brown University, nel Rhode Island). Rispetto agli interrogativi sul loro meccanismo di azione, Quesenberry ha prodotto dati che confermano le ipotesi che queste cellule staminali, a fronte di un danno tissutale, producano microvescicole – specie di cargo – che contengono piccoli Rna, proteine e lipidi che rilasciati nel tessuto danneggiato ne modulano la rigenerazione. Analoghe ricerche stanno conducendo, in Italia, i gruppi di ricerca di Giovanni Camussi a Torino e di Lorenza Lazzari a Milano.
«Siamo in un’epoca in cui si stanno vedendo sempre di più le applicazioni cliniche – ha osservato Giorgio Perilongo, copresidente del congresso – e c’è bisogno di uno sforzo progressivo con tempi di realizzazione che si vanno accorciando per portare queste ricerche di laboratorio al letto del paziente. Mai come ora c’è bisogno di un continuo scambio di informazioni, in quanto le cose sono più complesse e articolate di quanto si credeva all’inizio. La ricerca “responsabile” deve anche evitare di creare aspettative esagerate nel pubblico, come insegnano le distorsioni (vedi il caso Stamina) cui possono dare origine».
«È importante l’attenzione per l’alta qualità scientifica della ricerca in atto – commenta il cancelliere della Pav, monsignor Renzo Pegoraro –, che oggi si è molto specializzata, facendosi forse più concreta e umile rispetto alle aspettative o agli approcci facili di qualche anno fa. È importante l’attenzione a coniugare questo valore scientifico con alcuni aspetti etici: si parla oggi di cellule umane adulte o riprogrammate ( Ips) e non di cellule embrionali perché prima c’era un approccio forse più ideologico che reale, mentre si sta dimostrando che le cellule dell’adulto o quelle riprogrammate sono le più efficaci. Si può coniugare la concretezza scientifica con l’attenzione ai valori etici »
La storia del biologo Giuseppe Merla, che studia la sindrome Kabuki all’Irccs di San Giovanni Rotondo (nella foto con il suo gruppo di ricerca), nel mio articolo comparso su Avvenire dello scorso 17 dicembre
Un “cervello” rientrato in Italia per fare ricerca, in un grande istituto del Sud Italia; una sindrome rara su cui si comincia a fare luce; un progetto finanziato da Telethon che sfrutta le famose cellule Ipsc (le staminali pluripotenti indotte, che hanno fruttato il premio Nobel per la Medicina 2012 a Shinya Yamanaka). Tutto questo fa parte della storia di Giuseppe Merla, biologo specializzato in genetica medica, che dal 2004 lavora all’Ircss Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo (Foggia), coordinando un gruppo di ricerca che investiga i meccanismi molecolari della sindrome Kabuki, della sindrome Williams-Beuren e di altre patologie rare. «A San Giovanni Rotondo sono tornato (perché ci sono nato) – racconta Merla – nel 2004. Lavoravo all’Università di Ginevra, dove l’organizzazione era “svizzera”. Ma decisi di rientrare nel mio Paese per mettermi alla prova. Anche se devo ammettere che i primi tempi sono stati duri». Già allenato all’ambiente nostrano grazie alle esperienze al Tigem, prima presso il San Raffaele di Milano poi a Napoli, Giuseppe Merla si è dedicato totalmente alla ricerca: «Mi sono sempre occupato di malattie rare, ma nella sindrome Kabuki mi sono imbattuto quasi per caso. Il mio primario medico, Leopoldo Zelante (scomparso proprio la settimana scorsa), aveva incontrato alcuni casi durante l’attività di consulenza genetica e mi aveva chiesto di tenere da parte i campioni biologici per futuri studi».
Poco nota ai non specialisti, la sindrome Kabuki «ha origine genetica, a trasmissione dominante, e presenta – chiarisce Merla – alcuni tratti tipici: rime delle palpebre allungate, sopracciglia arcuate e larghe, padiglioni auricolari a coppa. Sono possibili anomalie cardiache (talora serie), sordità, ritardo cognitivo di grado medio- lieve e statura inferiore alle attese. In più si presentano deficit immunitari, che rendono le persone con sindrome Kabuki soggetti facili a subire infezioni, specie le otiti. La sindrome è denominata così perché i tratti del volto ricordano quelli di una maschera del teatro giapponese, e giapponesi sono stati i ricercatori che l’hanno descritta per primi». In assenza di terapie specifiche, la cura consiste nel controllo dei sintomi: «Molto importante – sottolinea Merla – è il tipo di supporto che si riesce a dare al bambino sin dalla più tenera età, per non perdere importanti tappe dello sviluppo». Quella prima raccolta di dati non fu inutile: «A un congresso dell’Associazione americana di genetica umana a Washington, nel 2010, venni a sapere che era stato individuato il primo gene associato alla sindrome Kabuki. Tornato in Italia, cominciammo a effettuare la caratterizzazione molecolare delle cellule dei nostri primi 70 pazienti». Il lavoro cresce, i pazienti anche: «Adesso siamo punto di riferimento nazionale per la sindrome Kabuki e vantiamo una casistica di circa 500 pazienti ». Molti i fronti di ricerca aperti: «Dirigo la biobanca che abbiamo creato (una delle undici finanziate da Telethon) con i campioni biologici dei pazienti e dei loro genitori o parenti più prossimi. Avere a disposizione linee cellulari è fondamentale perché permette di lavorare su materiale biologico per capire meglio le cause genetiche e svolgere studi funzionali ».
Sono proprio gli studi del gruppo guidato da Giuseppe Merla che Telethon sta finanziando: «Attualmente si conoscono due geni associati alla sindrome, che fanno parte di un gruppo di geni e proteine che regolano la struttura della cromatina (una sostanza che “tiene insieme” il Dna nel nucleo della cellula). Se la cromatina è difettosa, alcuni geni non più controllati funzionano male e provocano danni “a valle” in diversi organi e tessuti». Per la ricerca occorre lavorare sui tessuti interessati dalle anomalie: «Per procurarceli abbiamo effettuato biopsie cutanee dei pazienti; poi le cellule (fibroblasti) sono state trattate con un cocktail di geni che le ha riprogrammate in Ipsc. Queste sono state poi indirizzate a svilupparsi in neuroni di diversi tipi, in cardiomiociti e in cellule muscolari ». «Su queste cellule – spiega Merla – stiamo valutando come cambiano l’espressione dei geni e i vari processi cellulari nei pazienti Kabuki rispetto a controlli non affetti. Questo approccio ci permetterà di identificare tutti quei geni che non funzionano più correttamente a causa delle mutazioni associate alla sindrome Kabuki, che diventano, quindi, possibili “bersagli” di una terapia». Un altro fronte della ricerca è quello immunologico: «Stiamo cercando di capire perché questi pazienti sono così soggetti alle infezioni».
«La strada per la ricerca in Italia – conclude Merla – è sempre in salita, specie nel Sud, sia per la scarsità di fondi sia per il limitato interesse che il Paese vi dedica. Ma la sfida vera, che con il mio gruppo di ricerca affrontiamo ogni giorno, è proprio quella di vincere tutte le avversità. E di provarci».