Si avvicinano gli esami di maturità, ma non per tutti allo stesso modo. La vicenda – resa nota a marzo – della ragazza di Bologna con sindrome di Down che non può conseguire il diploma sollecita la riflessione sull’inclusione “vera” a scuola dei ragazzi con disabilità intellettiva. E richiama la battaglia del “Comitato No esonero” contro piani educativi individualizzati (Pei) che escludano questi ragazzi dalla piena partecipazione alla vita scolastica, come permesso dal decreto interministeriale 182/2020.

Una ragazza, Nina, vorrebbe sostenere l’esame di Stato, ma non le viene permesso. Succede a Bologna, e il motivo è che la ragazza ha la sindrome di Down. È impossibile pronunciarsi sulla vicenda specifica (la privacy giustamente copre le notizie sulle precise condizioni e capacità di Nina), ma quanto emerso permette almeno di aprire una riflessione sul problema generale. Infatti i genitori avrebbero maturato la richiesta già due anni fa, verificando che la loro figlia, nel corso degli studi, ha mostrato di apprendere più e meglio di quanto si potesse immaginare quando ha iniziato a frequentare la scuola superiore. Sarebbero sorretti, nella loro richiesta, anche dalla neuropsichiatra che segue Nina. Tuttavia il consiglio di classe del Liceo Sabin è rimasto fermo nell’offrire la possibilità di conseguire solo il “certificato delle competenze”. E, dopo una settimana di polemiche, ha fatto sapere che «il modello che guida i docenti si fonda su una precisa idea di scuola inclusiva, che spinge a scegliere percorsi didattici ed educativi basati sui bisogni e sulle inclinazioni dei singoli studenti e che solo in quanto tali possono essere davvero formativi».
Il vero motivo però non è questo. E lo ha svelato il capo dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione del ministero dell’Istruzione, Carmela Palumbo, che – è stato riferito in televisione – ha sostenuto la scelta della scuola: «Il percorso, secondo le regole, viene deciso il primo anno di studi e quindi non può essere modificato in corso d’opera». Pertanto quando a 14-15 anni lo studente con sindrome di Down (ma il discorso si può allargare a tutti quelli con disabilità intellettiva) inizia la scuola superiore con il programma di studi differenziato, il suo destino è segnato: non c’è più alcuna possibilità che possa passare a quello personalizzato per obiettivi minimi, che consente di conseguire il diploma di maturità. Quindi le parole del consiglio di classe, non ce ne voglia, suonano stonate, anche se è vero che l’attestato di credito formativo non preclude – come hanno scritto nella loro lettera aperta – la possibilità di accedere al mondo del lavoro.
«Questi casi sono motivo per future riflessioni politiche» ha scritto la stessa dirigente del ministero. Di questa “apertura” è contento il padre di Nina: «Auspichiamo che dopo il clamore mediatico la politica rifletta davvero». E dopo aver ritirato la figlia dalla scuola che frequentava, cercherà di farle tentare l’esame di maturità l’anno prossimo in un altro istituto.
Di motivi per riflettere ce ne sono molti. In questo caso, la legge (discutibile) è stata fatta rispettare; in altri casi un po’ meno: basta pensare al numero insufficiente di insegnanti di sostegno, e spesso non specializzati. E poi, entrando in un terreno minato, un conto sono le norme, un altro l’atteggiamento inclusivo nella sostanza. Certo, c’è sempre il rischio, da parte delle famiglie, di non vedere i limiti oggettivi dei propri figli. Ma nell’esperienza dei genitori di ragazzi con sindrome di Down (e altre disabilità intellettive) è troppo frequente il riscontro della ben scarsa presa in carico “mentale” dei loro figli da parte degli insegnanti: è merce rara la volontà di cercare una vera inclusione di questi ragazzi. Molto più facile “assegnarli“ al percorso differenziato. E questo, forse, è il senso più vero della battaglia dei genitori di Nina.