«In democrazia occorre accettare le incertezze della scienza, coinvolgendo i cittadini. Anche con il Covid-19»

Una versione ampliata della mia intervista a Mariachiara Tallacchini, docente di Filosofia del diritto all’Università Cattolica di Piacenza, apparsa su Avvenire lo scorso 4 dicembre. In tema di comunicazione della scienza segnalo anche l’articolo di Telmo Pievani, comparso sul mensile Le Scienze di dicembre 2021, ma disponibile anche online.

«Per prendere decisioni che hanno un forte impatto sulla vita delle comunità, insieme al necessario riferimento alle evidenze scientifiche, occorre che il coinvolgimento dei cittadini sia stato preparato in precedenza dal punto di vista delle conoscenze e attraverso la costruzione di rapporti di fiducia. Ciò vale in particolare in una pandemia, dove le molte scienze coinvolte forniscono conoscenze tutt’altro che certe». Mariachiara Tallacchini insegna Filosofia del diritto presso la facoltà di Economia e Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Piacenza, e Scienza, diritto e democrazia al Master in Comunicazione della Scienza della Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste. I suoi principali interessi riguardano la regolazione della scienza, i rapporti tra scienza e diritto e tra scienza e democrazia, in particolare nel settore della biomedicina e delle scienze della vita.

La pandemia ci ha colto di sorpresa a causa delle nostre scarse conoscenze scientifiche?

In realtà, credo che si debba risalire a monte, al fatto che in Italia è mancata e ancora manca una riflessione su ciò che nei Paesi anglosassoni si chiama science policy, vale a dire come la scienza è legittimamente utilizzata nel contesto di decisioni pubbliche in società democratiche fondate sul diritto. Questa mancanza di una cultura sull’uso della scienza per finalità di scelte politiche ha generato alcuni errori importanti. Non solo i cittadini non sono stati aiutati a prendere atto delle incertezze della scienza e a familiarizzare con esse, ma non si è adeguatamente spiegata la distinzioney tra scienziati che parlano come accademici e scienziati che parlano con ruoli e responsabilità pubbliche. Negli Stati Uniti Anthony Fauci da un lato non ha avuto timore di dire umilmente ai cittadini «We don’t know», non sappiamo, senza nascondersi dietro certezze presunte e arroganti; dall’altro, non c’erano dubbi sul fatto che solo lui fosse il punto di riferimento istituzionale per scienza e policy – mentre in Italia nessun esperto ha mai chiarito a “che titolo” e “in nome di chi e che cosa” parlasse: personale, per la propria disciplina, per il proprio reparto. Chi parla a nome delle istituzioni è diventato indistinguibile, quanto ad autorevolezza, da chiunque altro.

Ma le istituzioni per la regolazione della scienza (regulatory science) negli Stati Uniti hanno alle spalle sia un esplicito scientific advisory system, la configurazione istituzionale della consulenza scientifica, sia anni di costruzione di fiducia dei cittadini nelle autorità scientifiche e delle autorità politiche nei confronti dei cittadini, che hanno “preparato” (preparadness) a fronteggiare eventi incerti. Una cultura di preparedness, per esempio, è in atto da decenni in California: si deve sempre essere pronti per il “Big one”, il grande terremoto e ciò è stato fatto con un training di conoscenza e pratica per i cittadini, che devono sempre avere scorte alimentari e non in casa (e cambiarle quando scadono), devono fare esercitazioni, avere piani di riunione familiare, eccetera. Qualora il Big one arrivasse, la popolazione non sarà serena, ma disporrà delle capacità per fronteggiare l’emergenza. E nelle pagine dei Centers for Disease Control (Cdc) americani vengono fornite indicazioni precise sui comportamenti adeguati da tenere e le conoscenze scientifiche che stanno dietro questi comportamenti: dalle tecniche per lavarsi le mani o maneggiare le mascherine fino alle istruzioni per i bambini su come festeggiare Halloween senza commettere imprudenze. Il punto, insomma, sono le istituzioni che collaborano con i cittadini per passare dalla paura alla gestione della conoscenza.

Come si comunicano adeguatamente rischi di una situazione in evoluzione, senza mettere in dubbio la validità della scienza?

Parlare di rischi non è propriamente corretto. Tecnicamente, condizioni di rischio si danno quando sono note tutte le variabili di un problema e si può quantificare la probabilità di eventi avversi. Ma la pandemia è una condizione definita (dal filosofo della scienza Jean-Pierre Dupuy) come «incertezza radicale». Ciò significa che non solo non si conoscono tutte le variabili del problema – e quindi quantificare è approssimativo –; ma soprattutto ogni comportamento individuale diventa una variabile in un puzzle che cambia a ogni passo. Noi non siamo meri osservatori di ciò che accade, ma siamo parte di un sistema complesso che costantemente contribuiamo a modificare.

Per questo è necessario familiarizzare e accettare l’incertezza e avere grande flessibilità nel sapere che in un quadro di complessità ci si muoverà un po’ avanti e un po’ indietro. Quindi la fiducia tra istituzioni, scienziati e cittadini è fondamentale. Non basta l’appello a «credere nella scienza». Fauci ha ottenuto la fiducia degli americani dicendo che la scienza «non sapeva» e che proprio questo «non sapere» giustificava le precauzioni. Certamente tutto ciò non elimina l’opposizione degli scettici radicali (come i no-vax), ma certamente contribuisce a togliere carburante al complottismo. Anche riconoscere gli errori compiuti è importante, come pure spiegare perché si adotta un provvedimento basato su un certo scenario di incertezza e le modifiche necessarie se lo scenario dovesse cambiare.

Infatti nei sistemi complessi può essere in atto una molteplicità di cause, come ha spiegato Charles Perrow parlando dei «normal accidents» (gli incidenti normali). Di fronte a grandi incidenti (Perrow parlava delle centrali nucleari di Three Mile Island e Fukushima) si pensa a cause imponenti, improbabili e irripetibili. Non è così: possono esserci cause minuscole che scalano un po’ per volta il sistema fino a diventare pervasive e inarrestabili.

Dopo la prima fase, la “disciplina” degli italiani ha un po’ traballato. Ha prevalso un senso di anarchia?

Ci sono tanti aspetti in una situazione così complessa e certamente ciò che ha prevalso nella popolazione è la responsabilità, non l’anarchia, se quasi il 90% degli italiani ha avuto almeno una dose di vaccino. Detto questo, molte disposizioni normative potevano essere accompagnate e spiegate meglio.

Nella prima fase della pandemia è stata fatta un’importante delega di conoscenza e di responsabilità ai cittadini. Autocertificazioni in cui si chiede alle persone di dichiarare che non hanno il Covid, di interpretare i propri sintomi, di predisporre nel quotidiano protocolli di sicurezza o di procedere all’isolamento fiduciario esigono una preparazione e standardizzazione dei comportamenti. Questo è ciò che mi piace nell’approccio del Cdc. Noi abbiamo considerato molti gesti come ovvi e basati sul senso comune. Ma non è così e capire quale sia la scienza “che sta dietro” gli atti quotidiani genera un senso di collaborazione fondamentale tra istituzioni e cittadini e tra i cittadini medesimi. Analogamente, i richiami alla responsabilità e alla capacità di mettere in atto delle “auto-restrizioni” rispetto a comportamenti autorizzati – posso andare a passeggio in centro, ma se c’è troppa gente è meglio che mi allontani – devono essere spiegati, perché la cultura dominante è quella di pensare che, se ho una libertà o un diritto, li posso dispiegare all’infinito. Non è così. Sempre più il diritto alla salute si presenta come un “diritto collaborativo”, che si realizza solo se tutti cooperiamo in modo convergente.

Il passaggio più recente a forme di nudging, la “spinta” (più o meno) “gentile” implicita nel consentire i tamponi, ma costruendo una sorta di “imbuto” e “piano inclinato” verso il vaccino, poteva essere introdotto meglio. Forse questo avrebbe in parte prevenuto la percezione di queste misure come forme di arbitrio e addirittura fatto preferire ad alcuni tout court l’obbligo vaccinale sanzionato. Dovremmo impegnarci per andare verso società più consapevoli e responsabili, non intrappolate nella falsa alternativa tra rivendicazione di libertà senza limiti e richiesta di misure coercitive.

L’obbligatorietà dei vaccini non viene posta per problemi di costituzionalità?

Non ci sono problemi di costituzionalità perché il secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione dice che i trattamenti sanitari obbligatori sono ammessi se autorizzati per legge. Certamente ci possono essere problemi di implementazione ed efficacia della norma quando questa misura riguarda una popolazione vasta.

Dal punto di vista dei principi però, si deve ricordare che dal secondo dopoguerra la strada maestra della medicina è diventato il consenso informato ai trattamenti (il primo comma dell’articolo 32 può essere interpretato in tal senso). I casi previsti dal secondo comma hanno riguardato le patologie psichiatriche e le malattie infettive. Ma dalla legge Basaglia (1978) in poi le malattie psichiatriche hanno avuto un’evoluzione verso il primo comma; e questo è diventato vero anche per le patologie infettive, per una medicina ispirata alla convinzione e alla coesione sociale. E non solo in Italia. La “reputazione” e il “prestigio” delle società democratiche rispetto ai Paesi autoritari risiede anche nell’ossequio a questi principi. Quando, nel 2017, la Francia ha reso obbligatorie le vaccinazioni per i minori, un editoriale di Nature ha commentato che una scelta di questo tipo sembrava maggiormente in linea con le politiche di uno Stato dell’ex-Unione Sovietica. Anche in una situazione di emergenza si deve cercare di bilanciare le misure immediate e una prospettiva di medio e lungo periodo.

È però anche vero che la spinta verso i diritti individuali in medicina ha finito per far perdere il senso dei diritti condivisi alla salute. Per decenni i paradigmi dominanti della bioetica (ispirati al prevalere indiscusso dell’individuo sulla comunità, un comprensibile retaggio della Seconda guerra mondiale) hanno dedicato scarsissima attenzione ai temi di salute pubblica. E oggi abbiamo bisogno di riconsiderare il valore di condivisione dei diritti.

Al netto di una situazione inedita, difficile a livello globale, su quali obiettivi è opportuno convergere?

È opportuno, in primo luogo, pensare a una “educazione civica alla scienza” per tutti e fin da bambini. Questo significa l’esigenza di una cultura generalizzata (politici, scienziati e cittadini) di science policy sull’uso credibile, aperto e trasparente della scienza nelle società della conoscenza. E si tratta anche di costruire istituzioni e sistemi di consulenza scientifica che non temano di palesare l’incertezza scientifica. Scienza, diritto e politica non sono più forti se cercano di ancorarsi a certezza e oggettività, perché l’incertezza non corrisponde all’arbitrio delle opinioni e decisioni, ma al contrario rende necessarie le argomentazioni e il confronto pubblico. E dobbiamo anche riconfigurare i comportamenti che ci tengono rispettosamente insieme nella vita associata con un nuovo vocabolario condiviso.

Covid-19, in Italia poca attenzione alla prevenzione. Occorre cambiare rotta

Ripubblico qui due miei articoli, usciti su Avvenire domenica 19 aprile e giovedì 2 aprile 2020: il primo esamina con alcuni esperti la situazione di impreparazione in cui è stato colto il nostro sistema sanitario e socio-assistenziale dalla pandemia di coronavirus. Il mancato aggiornamento di un Piano pandemico efficace e la generale sottovalutazione del pericolo incombente tra le maggiori criticità. Il secondo è un’intervista che indicava alcune strategie per recuperare il tempo perduto.

Quali lezioni trarre dall’emergenza Covid 19 per la tutela della salute pubblica? Come hanno risposto le Regioni alle necessità di gestione del sistema sanitario? Quali priorità in un Paese come l’Italia, alle prese con difficoltà di bilancio?Innanzitutto i dati non sono sempre chiari. «Nessuno sa se il paziente uno di Codogno fosse in realtà il paziente dieci, cento o mille – osserva Giovanni Corrao, docente di Statistica medica all’Università di Milano Bicocca –. Nella maggior parte delle malattie infettive vediamo solo la parte emersa dell’iceberg, cioè le persone che si riversano sul servizio sanitario per una cura perché hanno sintomi gravi». Ma nel caso del Sars-CoV-2 c’è stata una complicazione: «Abbiamo scoperto che il virus è trasmissibile prima della comparsa dei sintomi, e questo era del tutto imprevedibile – aggiunge Giovanni Capelli, docente di Igiene generale applicata all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale –. Anche l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) si è mossa in ritardo, forse erano convinti che fosse qualcosa di simile alla Sars, ma un indice di diffusione così alto non si vedeva forse dalla Spagnola del 1918». Di fronte a un contagio che avanza, serve un Piano pandemico, che era stato avviato in Italia dopo la Sars del 2003-04 e rivisto in occasione della pandemia di H1N1 del 2009: «Il nostro però (aggiornato nel 2013 e nel 2016) è troppo generico – puntualizza Americo Cicchetti, direttore dell’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari dell’Università Cattolica (Altems) –. Un Piano pandemico dovrebbe essere elaborato con livelli di dettaglio tali che possano rappresentare linee di indirizzo immediatamente operative per le regioni, dovrebbe chiarire in maniera molto puntuale quali sono le strutture organizzative da mettere in campo e che cosa deve essere rafforzato rispetto alla normale dotazione, altrimenti è poco utile».

Il Paese ha una generale disattenzione alla prevenzione: «Innanzi tutto ravanò disabituati alle malattie infettive. Poi è più facile che si ringrazi il chirurgo che toglie il tumore – osserva Capelli – che il medico che fa vaccinazioni. Del resto abbiamo uno dei tassi più bassi in Europa di personale sanitario vaccinato contro l’influenza». «Inoltre nel nostro Paese, e specie in Lombardia, sono stati trascurati da decenni i laboratori di sanità pubblica, che tutelano la salute della popolazione – aggiunge Corrao – in favore di una medicina di precisione, che guarda all’individuo ed è costosissima».

Quando il contagio si è diffuso, ciascuna regione ha reagito come ha saputo, spiega Cicchetti: «In Altems abbiamo predisposto report settimanali per analizzare come hanno risposto i modelli organizzativi regionali (con focus su Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte, Lazio e Marche) e come si stanno adattando, cercando di fornire la soluzione migliore alle medesime indicazioni, fornite dal ministero della Salute e dall’Istituto superiore di sanità. Ogni Regione si è basata su ciò che aveva: la Lombardia un modello molto ospedalocentrico, di alta specializzazione; il Veneto con le Unità complesse di cure primarie (Uccp) puntando sull’assistenza domiciliare e la ricerca proattiva; l’Emilia-Romagna un po’ a metà tra ospedale e territorio, utilizzando le Case della salute».

Le risposte, e la loro efficacia, cambiano anche in relazione all’incidenza dei contagi, spiega Cicchetti: «In Lombardia si è arrivati a 0,61% dei casi sulla popolazione regionale, nel Lazio siamo allo 0,09%. È incomparabile il modo in cui è stato sotto pressione il sistema lombardo rispetto a quello laziale: la Lombardia ha risposto secondo quello che sapeva fare in una situazione che comunque era molto più grave rispetto a quella di tutte le altre regioni». «Stime dell’Istituto superiore di sanità su cartelle a campione – precisa Capelli – ipotizzano che è venuto a contatto con il virus il 10% della popolazione. Ma il sovraccarico ospedaliero ha funzionato da moltiplicatore. Il confinamento di Codogno si è dimostrato uno strumento efficace, ma si riusciva a chiudere subito la Lombardia?». Un altro strumento sono le Unità speciali di continuità assistenziale (Usca) previste dal decreto dell’8 marzo nella misura di una ogni 50mila abitanti: «Sono gruppi di medici, presi da servizi meno impegnati, che vanno a domicilio – chiarisce Cicchetti –, per governare le cure intermedie, la transizione tra ospedale e casa e fare in modo che persone con sintomi o convalescenti possano essere gestite a domicilio. Restano monitorate, anche con tamponi, senza andare in ospedale». In Lombardia ne sono state attivate 44, ma ne serviranno 200.

Le misure di sanità pubblica, negli ultimi 20 anni, si sono spesso scontrate con il nodo risorse: «Spinti dalle necessità di maggiore efficienza dettate dal ministero dell’Economia – spiega Cicchetti –abbiamo cercato di far girare il motore del Servizio sanitario a un numero di giri altissimo senza aumentare la cilindrata, anzi riducendola un po’. Però se si spinge al limite, c’è il rischio che in un’emergenza (una salita, un sorpasso) il motore non ce la faccia più. Invece bisogna lasciare un piccolo margine: per paura di riempirli male o non riempirli, abbiamo ridotto i posti letto fino ad averne 3,7 per milione di abitanti e 5mila osti in terapia intensiva; la Germania, che ha 20 milioni di abitanti più di noi, ha il doppio dei posti letto e 28mila in terapia intensiva. I posti letto possono essere gestiti in modo appropriato anziché cancellarli, e tornano utili proprio nelle emergenze (epidemie, terremoti, alluvioni)». «Spero che questa pandemia – aggiunge Corrao – dimostri che di una sanità pubblica, universalistica, non si può fare a meno». «Ora non serve – conclude Capelli – la caccia all’untore, ma capire che gli errori costano e non vanno ripetuti. Avere fretta di riaprire attività inutili significa rischiare un’altra ondata».

«È il momento di programmare il futuro»

«Al netto della grande dedizione e professionalità che il personale sanitario ha mostrato e continua a mostrare nella cura dei malati di Covid-19, da questa pandemia dobbiamo trarre molte lezioni. E per uscirne dobbiamo già oggi prevedere una serie di interventi che invertano una rotta che ci ha portato ad affrontare l’emergenza senza la necessaria preparazione». Americo Cicchetti, direttore dell’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari (Altems) dell’Università Cattolica del Sacro Cuuore, teme che i rischi per la salute non saranno finiti dopo l’emergenza, e pensa che si debba cominciare a predisporre già ora un piano per la ripresa.

Che lezioni si possono trarre dall’epidemia di Covid-19?

La crisi si è innestata in un momento di debolezza del Ssn già provato da anni di decrescita della spesa e lo tsunami è arrivato anche nelle Regioni in cui il sistema era migliore perché aveva già raggiunto livelli di efficienza che lo avevano portato al limite. La conseguenza è che la risposta è stata scoordinata e la reazione lenta anche perché non avevamo un piano pronto e credibile. In Italia il piano per la pandemia influenzale, da utilizzare in casi come questo, è del 2007 ed è stato solo aggiornato marginalmente nel 2016. Il Gruppo tecnico consultivo nazionale sulle vaccinazioni (di cui faccio parte), con la responsabilità della strategia per le malattie infettive, si è riunito una volta sola dopo che è stato ricostituito nel 2018 e non ha mai trattato questo tema.

Hanno pesato il blocco del turn over e i piani di rientro?

La spesa sanitaria è cresciuta tra il 2000 e il 2005 di circa il 6% l’anno, e di circa il 3% fino al 2011, perché erano partiti i piani di rientro del debito nelle Regioni. Dal 2011 è cresciuta – in media – meno dell’1% l’anno. Negli ultimi 5 anni è cresciuta di circa un miliardo l’anno, cioè meno dell’inflazione: quindi è come se si fosse ridotta. Questo ha pesato soprattutto nelle regioni sottoposte ai piani di rientro, quasi tutto il Centro-Sud, ma ha avuto effetti anche al Nord. In questi stessi anni, la spesa sanitaria è cresciuta intorno al 4% l’anno in Paesi quali Francia, Germania e Regno Unito. Dal 2021 entreranno in vigore nuovi indicatori per i Livelli essenziali di assistenza (Lea), perché sono cambiati i bisogni: il numero di over 65 da seguire in assistenza domiciliare, i posti letto in lungodegenza per anziani disabili, o il tasso di copertura degli screening per tumori. Questi nuovi Lea, oggi, non li rispetterebbero 9 Regioni su 20.

Quali problemi per la sanità dopo la crisi del Covid-19?

Una grande quantità di interventi e ricoveri programmati e ora rinviati. Ho esaminato i dati del ministero della Salute sulle schede di dimissione: i ricoveri in ospedali per acuti nel 2018 sono stati 7,9 milioni, da marzo a giugno ne perderemo un milione, con 520mila interventi chirurgici. Da luglio si dovranno recuperare: si allungheranno le liste d’attesa e ci sarà pressione sul sistema sanitario. Ricordiamo che non tutti i malati oncologici continuano i trattamenti, perché i pazienti più fragili è bene che non vadano in ospedale. L’Associazione italiana di oncologia medica segnala che vengono sospese le immunoterapie oncologiche ai malati di Covid-19, perché si teme che possano mettere a rischio il sistema immunitario di tali pazienti.

Come evitare danni ulteriori alla salute della popolazione?

Alcuni provvedimenti sono già stati emanati e sono opportuni. Riguardano il personale del Ssn che potrà essere rinforzato, si spera non solo per l’emergenza ma in modo strutturale. Anche le Unità speciali di continuità assistenziale (Usca) previste dal Decreto legge 14/2020 sono strutture purtroppo non attive ancora in tutte le Regioni, ma sono un presidio che potrebbe essere utile anche per il futuro. È necessario mettere in conto un’accelerazione dei ritmi di funzionamento delle sale operatorie con sedute non più di 8 ore ma di 14, aumentare le équipe, compresi gli infermieri. Stesso ragionamento per le radiologie o i laboratori di analisi. Per un certo periodo alcune strutture e tecnologie (l’alta diagnostica) dovranno funzionare h24 per recuperare il tempo perduto. Tutto ciò è possibile con le adeguate risorse, ma anche con adeguata programmazione e preparazione. È il momento di programmare il futuro.

Tumori, così si curano in gravidanza

A mese dalla morte di Caterina Morelli, che aveva scoperto durante la gravidanza di avere un tumore, tanta gente si è stretta intorno alla famiglia alla Messa di suffragio celebrata a Firenze nella chiesa Beata Vergine Maria Regina della pace, come ha riferito ieri Andrea Fagioli su Avvenire. Accanto, sul tema delle terapie attualmente adottate, è pubblicato il mio articolo in cui parlano gli oncologi Fedro Peccatori e Giovanni Scambia. Di seguito, ripubblico un mio articolo sullo stesso tema, uscito anni fa su Avvenire: innegabili i progressi compiuti in materia.   

nastro rosa«Caterina ha effettuato le cure per la sua malattia e ha combattuto per la sua vita, così come per quella del figlio. Purtroppo il suo tumore si è manifestato subito in modo molto aggressivo, con un alto rischio di recidiva, che si è poi presentata tre anni dopo la nascita del suo bambino. Ed è vissuta a lungo perché ha fatto tutto quanto è possibile per rallentare il progredire della malattia». Fedro Peccatori, direttore dell’Unità di onco-fertilità dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo) di Milano, ha conosciuto e avuto in cura la mamma morta un mese fa a Firenze: «Mai si era posto il dilemma se interrompere la gravidanza, che credo non avrebbe preso in considerazione, anche per le sue convinzioni religiose. Era medico e sapeva rischi e vantaggi delle terapie, cui si è sottoposta: intervento chirurgico e poi chemioterapia; dopo il parto, le cure standard del caso». Come ormai si fa regolarmente: «Il trattamento – conferma Giovanni Scambia, ginecologo oncologo e direttore scientifico dell’Irccs Policlinico universitario “A. Gemelli” di Roma – dovrebbe essere quanto più simile a quello proposto a pazienti non in gravidanza, quando possibile, con adattamenti e precauzioni specifiche atte a preservare la salute della madre e del feto».

L’evenienza di ammalarsi di tumore «capita a circa una donna incinta su mille, circa 500-600 casi l’anno in Italia » precisa Peccatori. «Uno studio condotto recentemente in Italia ha confermato i dati della letteratura internazionale. I tipi più frequenti sono il cancro al seno, il melanoma, il tumore alla tiroide e i linfomi. Un dato che corrisponde a quello della popolazione di pari età non gravida: il fatto di aspettare un figlio non aumenta il rischio di sviluppare tumori ». «Probabilmente – aggiunge Scambia – questa incidenza è destinata ad aumentare nel tempo visto il continuo aumento dell’età media delle gravidanze».

Tuttavia l’evoluzione della malattia non sembra subire variazioni a causa della gravidanza. «Da studi che abbiamo condotto con il sequenziamento genico sul tumore della mammella (il più frequente) si riscontra qualche differenza biologica se la donna è gravida o no, ma non cambiano la prognosi e la possibilità di essere curata». «Un ampio studio di coorte – osserva Scambia – che ha confrontato 516 donne in gravidanza e 42.511 pazienti non gravide con cancro di età compresa tra 16 e 49 anni, non ha mostrato differenze nel rischio di morte causa-specifica».

L’iter delle cure non cambia, anche se «le pazienti devono essere gestite eaccompagnate da un team multidisciplinare che include un ostetrico e un neonatologo oltre al team di oncologia – puntualizza Scambia – per valutare adeguatamente potenziali benefici materni e possibili rischi fetali ». «Generalmente la chirurgia si può fare a qualunque epoca gestazionale, se però siamo verso la fine della gravidanza è meglio far nascere prima il bambino – precisa Peccatori –. La chemioterapia ha il limite di poter provocare malformazioni al feto se effettuata nel primo trimestre: di solito allo Ieo siamo prudenti e non iniziamo prima delle 14-16 settimane di gestazione, quando gli organi del feto si sono formati e devono solo crescere ». «Esiste un rischio aumentato di parto prematuro e ritardo della crescita fetale – aggiunge Scambia –. Esistono studi sul tipo di regime chemioterapico e sui dosaggi che possono essere utilizzati in sicurezza in gravidanza». Infine «la radioterapia, quasi mai trattamento esclusivo del tumore, viene effettuata dopo il parto – spiega Peccatori –. Su terapia ormonale e terapia target i dati non sono molti, e si preferisce effettuarle dopo la nascita del bimbo». «La scelta del trattamento – riassume Scambia – dipende da numerosi fattori, come l’epoca della gravidanza al momento della diagnosi e dallo stadio della malattia». La necessità di anticipare il parto dipende dalla salute della donna: «Si cerca di portare la gravidanza a termine – precisa Peccatori – perché il bambino prematuro è soggetto a maggiori complicanze. Ma si interviene in presenza di rari casi di un deterioramento delle condizioni cliniche della paziente o della necessità di terapie particolarmente aggressive. Quasi mai però siamo in presenza del dubbio sulla necessità di interrompere la gravidanza. Per due motivi: l’aborto non cambia la prognosi della malattia e l’attesa per la chemioterapia dopo la diagnosi istologica e la chirurgia è di un paio di mesi, tanto quanto basta per essere fuori dal periodo a rischio per il feto». «Il messaggio più importante è che oggi si può generalmente curare la mamma senza mettere a rischio la salute del bambino», conclude Peccatori.

 

«È una medicina dell’impegno»

Questo l’articolo, uscito il 9 dicembre 2006 su Avvenire, che era accompagnato da due storie a lieto fine.

Quando giunge agli onori della cronaca, il caso di una donna incinta che rinuncia a curare un tumore per far nascere il proprio bambino suscita sempre emozione. Viene additata spesso come una eroina o, secondo altre prospettive di giudizio, come una incosciente. Non dovrebbe essere difficile però immaginare il tormento e l’angoscia che possono assalire una giovane donna che passa improvvisamente dalla trepida speranza che sostiene i suoi sogni sul figlio che attende al disorientamento per una diagnosi che spaventa. E di conseguenza, anche lo sconcerto di familiari e amici alle prese con una situazione che dalla (facile) condivisione della gioia deve tramutarsi nel (difficile) sostegno in un cammino faticoso, che mette a dura prova nervi e sentimenti. Tra il consiglio – umano e asettico e magari di qualche medico – di pensare prima alla propria salute, e la consapevolezza della madre di non essere più sola, di non poter facilmente «dimenticare» il piccolo essere che sente muoversi nel suo grembo. Peraltro la cura del tumore in gravidanza, pur delicata, è un compito che trova i suoi specialisti: i medici che vi si dedicano con competenza e passione, sono consci del fatto che salvare una vita, in quelle circostanze, equivale a salvarne due. E forse anche di più.

Il cancro complica una gravidanza su mille, dicono gli studi epidemiologici. Se si considera che in Italia nascono ogni anno circa 500mila bambini, si comprende che anche dal punto di vista delle cifre, il fenomeno è tutt’altro che marginale. Per affrontarlo con buone speranze di successo occorrono però competenze mediche multidisciplinari e tutte di alto livello. «Possiamo definirla medicina dell’impegno» osserva Sara De Carolis, ginecologa ricercatrice dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e autrice di un lavoro relativo a 32 donne colpite da tumore in gravidanza (pubblicato quest’anno sulla rivista scientifica «Anticancer Research»). Medicina dell’impegno non solo a curare ma anche a sfatare alcuni pregiudizi: per esempio che la donna in gravidanza non possa essere sottoposta non solo a cure, ma nemmeno ad accertamenti diagnostici. Le 32 pazienti sono state seguite (fino a un anno dopo il parto, così come i neonati) presso il Policlinico «Gemelli» di Roma, nel Dipartimento che non a caso si chiama «per la tutela della salute della donna e della vita nascente», diretto dal professor Salvatore Mancuso. I tumori incontrati sono stati perlopiù leucemie e malattie del sangue (undici) e carcinomi della mammella (sette); meno frequenti i tumori all’ovaio, alla cervice uterina, al cervello, al colon; casi singoli di melanoma, tumore alla lingua, alla cistifellea e allo stomaco. I risultati parlano del 97% di bambini nati vivi, 82% di parti prematuri, 9% di malformazioni fetali e 3% (un caso) di morte del neonato. Tre donne (il 9%) sono morte durante il puerperio a causa del progredire della malattia. «La terapia di una donna gravida malata di tumore – spiega Sara De Carolis – non presenta opzioni diverse dal solito: le armi sono sempre chirurgia, radioterapia e chemioterapia.

Dopo avere valutato quale sarebbe la cura migliore se la donna non fosse gravida, viene decisa una strategia che tiene in considerazione il fatto che alcune terapie possono avere ripercussioni sul feto. Talvolta la scelta migliore è un dilemma, che abbiamo sempre risolto con il consenso informato della paziente». Da questo punto di vista, i casi più difficili sono quelli in cui il tumore si manifesta nel primo trimestre di gravidanza, quando può porsi la scelta tra un intervento immediato per indicazioni materne
e uno ritardato per indicazioni fetali: «La formazione degli organi è completa dopo 13 settimane – continua la dottoressa – ed è chiaro che riuscire a rimandare cure radioterapiche o chemioterapiche al secondo trimestre permette di evitare i maggiori rischi al feto». Allo stesso tempo poter anticipare il parto permette di trattare prima la madre: «Nonostante i nati prematuri corrano qualche rischio di salute in più, il livello dell’assistenza in centri di terapia intensiva neonatale come il nostro è ormai tale da non
spaventare eccessivamente».

Per una presa in carico ottimale della paziente ci vogliono comunque molte competenze: «La scoperta del cancro in gravidanza – sottolinea Sara De Carolis – richiede un team collaborativo e multidisciplinare che includa specialisti in ostetricia, chirurgia, oncologia, radioterapia, neonatologia, psicologia e, talvolta, bioetica». E che possa vantare un significativo numero di casi trattati, anche perché non esistono trial clinici cui riferirsi. Così come non esistono dati sul fatto che la gravidanza influenzi la biologia, la storia naturale, la prognosi o il trattamento del cancro materno. «Stiamo cercando di istituire – rivela la ginecologa – un registro dei tumori in gravidanza in Italia per avere più dati». Un mito da sfatare, che può essere causa di gravi conseguenze, è che la donna in gravidanza non possa essere sottoposta a nessun trattamento: «Sotto controllo medico e con le cautele del caso – puntualizza la dottoressa De Carolis – ma occorre ribadire la necessità di un impegno attento: in due delle tre donne che sono morte il cancro è stato scoperto a uno stadio già avanzato, ma era da tempo che lamentavano disturbi. Eppure esami diagnostici come gastroscopia o rettoscopia sarebbero stati possibili senza rischi per il feto. Così come un’eventuale mammografia in caso di sospetto tumore al seno».

«Grandi speranze dalla terapia genica, ma attenzione al dilagare dei test»

Un rapido sguardo alle prospettive che offre oggi la genetica nella mia intervista a Maurizio Genuardi, docente dell’Università Cattolica e presidente della Società italiana di genetica umana, pubblicata mercoledì 5 dicembre sulle pagine di Avvenire.

fiori_dnaSperanza o incubo. Da quan­do nel 1953 è stata chiarita la struttura del Dna, la geneti­ca è sempre in primo piano tra le terapie innovative, ma ha anche spalancato le porte a prospettive inquietan­ti. Ne parliamo con Maurizio Genuardi, docente di Genetica medica all’Università Cattolica e direttore dell’Unità di Genetica medica dell’Irccs Poli­clinico Gemelli di Ro­ma, e presidente della Società italiana di ge­netica umana (Sigu).

Quali prospettive ha oggi la genetica?

Offre una conoscenza sempre più approfondita dei meccanismi bio­logici del corpo umano, inclusi quelli che sono alla base delle ma­lattie. Grazie alla lettura del patri­monio genetico, sappiamo che co­sa fa la maggior parte dei nostri cir­ca 20mila geni. E conosciamo le cause genetiche di una buona par­te delle malattie ereditarie. La prevenzione basata sui fattori di ri­schio genetici è “mirata”, induce ad adottare strumenti più strin­genti per le persone a ri­schio più alto. Un e­sempio: il 5% dei tumo­ri al seno nasce in don­ne che hanno una mu­tazione dei geni Brca1 o Brca2. Se identificate grazie a esami genetici, possiamo consigliare loro di fare controlli più frequenti e accurati ed eventualmente inter­venti chirurgici preventivi. Il ver­sante preoccupante è l’uso della scoperta per selezionare in epoca prenatale gli embrioni che non presentano la mutazione e quindi non sono a rischio di ammalarsi.

C’è il rischio di un abuso dei test genetici?

Il Progetto Genoma ha facilitato la scoperta di geni che sono causa o predispongono alle malattie. I te­st sono utili quando ci indirizzano verso strategie mirate di preven­zione o di terapia. Problemi sor­gono da test genetici per malattie per le quali ancora non esistono strumenti preventivi o terapeuti­ci, per esempio sclerosi laterale a­miotrofica o Parkinson. E non tut­ti i test sono accurati: avere il fat­tore di predisposizione non signi­fica ammalarsi e alcuni fattori ge­netici hanno un peso specifico molto basso. Questo vale per mol­te malattie, tra cui patologie car­diovascolari, diabete e molte altre, comprese quelle infettive, perché da fattori genetici dipende la mag­giore o minore resistenza a batte­ri e virus. La diffusione dei test ge­netici rischia di ridurre tutto a tec­nicismi con risposte fuorvianti, se non ingannevoli. In particolare, quelli diretti al consumatore (ven­duti su Internet, in farmacia o in istituti di bellezza) possono por­tare a misure di prevenzione o te­rapie non giustificate.

Quali risultati può portare la te­rapia genica?

Dopo grandi speranze, 30 anni fa, tutto si è quasi bloccato per gravi reazioni avverse in pa­zienti con fibrosi cisti­ca. Ma molti hanno continuato a lavorare e si sono ottenuti risulta­ti con alcune malattie, come l’immunodefi­cienza tipo Ada-Scid e l’atrofia muscolare spi­nale (Sma1). Sui tumo­ri siamo a buon punto con manipolazioni genetiche del sistema immunitario: è il caso delle Car-T cells, terapia applicata al Bambino Gesù di Ro­ma. Credo che nessuno possa pre­vedere i tempi per avere risultati concreti per specifiche malattie.

Fino a che punto ci si può spin­gere nel manipolare il genoma?

Pioniere nel campo è stato l’ita­loamericano Mario Capecchi (pre­mio Nobel 2007), che ha inventa­to il ‘gene targeting’ cioè la mo­difica mirata di singoli geni, usa­to a scopo sperimentale in animali di laboratorio. Gli studi si sono e­voluti fino al Cri­spr/ Cas9: la “forbice molecolare” taglia in punti precisi del geno­ma e consente modifi­che in modo mirato ed efficace che, in pro­spettiva, possono cu­rare malattie geneti­che. L’uso sull’embrio­ne – possibile dal pun­to di vista tecnico – è bandito nella grandissima parte dei Paesi occidentali perché non sappiamo ancora gli effetti colla­terali, i danni potenziali di queste manipolazioni, che talvolta agi­scono in maniera diversa da come ipotizziamo.

«Il caso di Alfie conferma la necessità della consulenza etica nel percorso di cura»

In queste ore delicate per la vita di Alfie Evans, mi pare opportuno riprendere la segnalazione del bioeticista Antonio G. Spagnolo, dell’Università Cattolica, sull’importanza della consulenza etica. La mia intervista è comparsa su Avvenire lo scorso 15 aprile.

spagnolo«Non si può chiedere a un medico di operare terapie sproporzionate, ma nemmeno sentire valutazioni inappropriate da parte di un giudice, che usa un linguaggio equivoco dal punto di vista etico e sanitario». Antonio G. Spagnolo, direttore dell’Istituto di Bioetica e Medical Humanities dell’Università Cattolica, osserva che il caso di Alfie Evans solleva non poche perplessità dal punto di vista dell’etica clinica: «Appare davvero strano che non esista una libertà di cura, e quindi, eventualmente, la possibilità di portare il bimbo in un’altra struttura sanitaria».

È evidente che il rapporto tra medici e genitori è del tutto deteriorato. Come prevenire situazioni così conflittuali?

Senz’altro con una migliore comunicazione, che permetta una valutazione pacata. Anche se ho saputo che nel Regno Unito la consulenza etica non costituisce parte istituzionale di un percorso di cura. Sarebbe comunque importante fare riferimento alla deontologia medica, che comprende la libertà del medico di non sottoporre il paziente a una cura che non ritiene appropriata. Ma che non può evitare che il paziente possa scegliere dove farsi curare, se non è soddisfatto del trattamento che gli viene proposto. A noi in Italia questo concetto appare molto chiaro.

Può un giudice dire che quella di Alfie una vita “futile”?

Già in passato ho suggerito l’opportunità per un giudice di servirsi, accanto alla consulenza tecnica d’ufficio (Ctu), di una consulenza etica, quando la materia lo richiede. Si eviterebbero svarioni di questo genere: se anche il cervello fosse “distrutto”, non significa che la vita è futile. Entra nel merito etico-filosofico, non è linguaggio giuridico. Anche il documento dell’Anscombe Bioethics Center di Oxford dice che nessuna vita può essere futile, ma solo un trattamento. Aggiungo però che nella terminologia inglese, futile potrebbe anche significare che c’è sproporzione, che il trattamento è più gravoso del beneficio.

Ma i medici possono porre fine a una vita umana, sulla base di una sentenza della magistratura?

È vero che non possono essere obbligati a eseguire un trattamento solo perché i genitori lo desiderano, ma l’idea che debbano compiere l’atto di staccare il respiratore, non esiste nel prontuario terapeutico, mi sembra inaudito nel linguaggio medico. Ma ripeto, la prevenzione di queste situazioni conflittuali parte da più lontano: occorre che i professionisti sappiano spiegare ai genitori la situazione clinica, conciliando le ragioni della deontologia professionale con il desiderio di stare vicino al bimbo e accompagnarlo.

Resta il dubbio che la “futilità” sia calcolata dal giudice in base all’onere economico che lo Stato non vuole più assumersi. Che cosa ne pensa?

È un sospetto, anche se non citato dal giudice. L’allocazione delle risorse è un problema annoso, che il pragmatismo anglosassone risolve con molta semplicità. Credo che il singolo possa decidere come impiegare le sue risorse anche per una cura, ma se lo fa lo Stato bisogna domandarsi sulla base di quali criteri. È da ricordare che la questione economica anche nei documenti del Magistero non è completamente staccata nella valutazione della proporzionalità degli interventi.

Il mondo greco di Lanza e Vegetti

università di pavia
Università di Pavia, Cortile delle statue

Per un caso davvero singolare, il filosofo Mario Vegetti e il grecista Diego Lanza sono morti a pochi giorni di distanza. Non so bene da dove cominciare per rievocare il sodalizio umano e professionale che ha unito i due studiosi. Coetanei (erano nati nel 1937), compagni di studi all’università di Pavia, hanno condiviso poi per un trentennio anche l’insegnamento alla facoltà di Lettere e Filosofia dello stesso ateneo: il primo sulla cattedra di Storia della filosofia antica, il secondo su quella di Letteratura greca (e di Storia del teatro e della drammaturgia antica). I giornali (a parte la Provincia Pavese) hanno dato maggior rilievo al filosofo (che peraltro si era laureato in Lettere con una tesi su Tucidide), forse per una certa maggiore notorietà a livello del pubblico, ma tra gli addetti ai lavori l’opera del grecista è altrettanto ben nota e apprezzata.

Il Corriere della Sera lunedì 12 aveva dato la notizia della scomparsa di Vegetti, affidando a un lungo articolo di Antonio Carioti («Riportò Platone in mezzo a noi») il compito di tracciare un ritratto complessivo dello studioso, sottolineandone una disposizione di fondo: «Convinzione profondamente radicata di Vegetti era che lo studio del mondo classico fosse fondamentale per aprire le menti». Della sintesi della carriera accademica, degli interessi scientifici e delle pubblicazioni, fino alla direzione (con Franco Trabattoni) della corposa Storia della filosofia antica in 4 volumi (Carocci, 2016), mi piace evidenziare l’interesse – ma anche la contestazione – delle tesi sulle «dottrine non scritte», cui sarebbe stato affidato il «vero» pensiero di Platone, che aveva elaborato Hans Krämer della Scuola di Tubinga e che il filosofo dell’Università Cattolica, Giovanni Reale, aveva diffuso in Italia con il testo Per una nuova interpretazione di Platone, pubblicato la prima volta dalla Cusl nel 1984. Nello stesso anno, Vegetti ne fece oggetto nel suo corso universitario, il primo – credo – ad avviare il dibattito sul nuovo paradigma rilanciato da Reale.

Avvenire affida a un ex allievo, Michele Abbate, la rievocazione del filosofo: «Devo all’insegnamento di Mario Vegetti un’assoluta e intransigente attenzione al rigore metodologico e filologico, che, come egli stesso mi ha mostrato, è l’imprescindibile presupposto di ogni autentica riflessione filosofica, sia essa di carattere etico, politico o anche teoretico» (posso aggiungere che – agli esami – apprezzava la precisione terminologica e osservava con un po’ di rammarico che mediamente gli studenti di lettere classiche erano più attenti su questo fronte rispetto a quelli di filosofia). Mentre sulla Stampa, Maurizio Assalto sottolinea l’interesse per la scienza antica (del resto Vegetti aveva cominciato nel 1965 con il Corpus Ippocraticum, Utet), per l’etica e la politica, fino alla monumentale edizione commentata della Repubblica di Platone (Bibliopolis, 1998-2007) e al volume Un paradigma in cielo (Carocci, 2016), che illustra le interpretazioni del filosofo ateniese fino al Novecento.

Nella sua ultima fatica, Chi comanda nella città (Carocci, 2017), Vegetti affronta il tema del potere nell’antichità, con illuminanti aperture sul mondo moderno e contemporaneo. Così su Avvenire, l’11 giugno scorso, lo recensiva Riccardo De Benedetti: «Si legge nel libro un’indicazione preziosa per l’attuale discussione pubblica. Ed è quella che ci chiarisce, una volta per tutte, che le “teorie politiche antiche si sono sempre fondate, direttamente o indirettamente, sui presupposti di un’antropologia influente”, il che presuppone una qualche risposta alla domanda: qual è la natura umana». De Benedetti concludeva: «Condurre la discussione politologica verso quella domanda, mantenerla aperta contro tutti i tentativi di chiuderla e, in qualche caso, gettarla nell’irrilevanza, è il contributo più serio e meritevole di questo piccolo libro».

Alla coppia di «intellettuali» dedica un articolo anche il manifesto, a firma di Massimo Stella, evidenziandone soprattutto l’impianto ideologico: «Della tradizione marxista hanno rappresentato la declinazione politico-scientifica, non quella storicistico-umanistica». Peraltro dire che «forse anche per una forma di nostalgia politica, Lanza e Vegetti erano studiosi legati al collettivo di studi», o che i seminari di letteratura greca diretti da Lanza «erano straordinari laboratorio di pensiero in cui laureandi, dottorandi, ricercatori e professori dialogavano democraticamente», non mi pare il modo migliore per evidenziare i loro meriti. Il seminario per laureandi come luogo di confronto, nella facoltà di Lettere pavese, era stato già adottato per la storia antica da Emilio Gabba; quello per gli studenti che iteravano l’esame di letteratura greca – posso testimoniare – aveva valore variabile a seconda di chi lo conduceva (non sempre Lanza). Piuttosto di Lanza mi piace ricordare la capacità di coinvolgere gli studenti durante le lezioni, che partivano da un’accurata analisi dei testi, fossero di poesia o di prosa. Sul piano delle pubblicazioni, mi sembra opportuno citare una delle sue ultime fatiche: Storia della filologia classica (Carocci, 2016), curato in collaborazione con Gherardo Ugolini. Il libro è una rassegna dell’approccio agli studi classici da parte dei filologi a partire dalla fine del Seicento ai giorni nostri e colma una lacuna che lascia spesso disorientati gli studenti universitari. Da Richard Bentley a Bruno Gentili, passando per Friedrich Wolf, Karl Lachmann, Ulrich von Wilamowiz-Moellendorff, Werner Jaeger e Giorgio Pasquali (per citare solo alcuni dei sommi), il volume permette di seguire come si è evoluto – lungo oltre tre secoli – l’approccio allo studio del mondo classico, in dipendenza certamente delle capacità e degli orientamenti personali dei filologi, ma anche del clima culturale delle varie epoche e nazioni, senza trascurare il cruciale apporto delle scoperte papirologiche.

Concludo con un’osservazione  un po’ particolare. Vegetti ha fatto in tempo a sapere che Lanza era morto: nel necrologio pubblicato l’8 marzo scorso sul Corriere della Sera, assieme alla moglie Silvia Finzi esprime il dolore per la scomparsa di un «indimenticabile amico e compagno di studi di una vita intera». E aggiunge, in greco: «Eu prattomen, Diego». Questo augurio indirizzato all’amico, ma alla prima persona plurale, è – mi pare – la testimonianza di un uomo che cercava di offrire un conforto, ma lo chiedeva anche per sé mentre si preparava ad affrontare la suprema prova terrena.

Giornata del malato, l’impegno del prendersi cura

Ieri si è svolta la Giornata mondiale del malato. Su Avvenire il mio articolo (pubblicato l’8 febbraio nella sezione è vita) con il parere di alcuni rappresentanti della sanità cattolica che declinano il messaggio di papa Francesco, volto a sollecitare, nelle istituzioni sanitarie cristiane e più in generale nei cristiani che operano nella sanità, uno sguardo attento ai più poveri, evitando i rischi dell’aziendalismo

curareLa «vocazione materna della Chiesa verso le persone biso­gnose e i malati si è concretizzata, nella sua storia bimille­naria, in una ricchissima serie di iniziative a favore dei malati». Lo ricorda papa Francesco nel messag­gio per la XXVI Giornata mondiale del malato, domenica 11 febbraio, ri­volgendosi in particolare alle istitu­zioni sanitarie di ispirazione cristia­na. Le quali, sottolinea, operano sia «nei Paesi dove esistono sistemi di sanità pubblica sufficienti» sia in quelli dove «i sistemi sanitari sono insufficienti o inesistenti», in cui la Chiesa come «ospedale da campo» è talora l’unica a fornire cure alle po­polazioni. Dal passato, scrive il Papa, dobbiamo imparare generosità, crea­tività, impegno nella ricerca. Stando però in guardia a «preservare gli o­spedali cattolici dal rischio dell’a­ziendalismo » che finisce «per scarta­re i poveri». L’attenzione al rispetto della persona e della dignità del ma­lato deve essere propria «anche dei cristiani che operano nelle strutture pubbliche».

Il messaggio interpella gli operatori sanitari cristiani, in particolare ospe­dali e case di cura dell’Associazione religiosa istituti socio-sanitari (Aris): «Mi ha colpito molto – osserva padre Virginio Bebber, presidente dell’A­ris – l’indicazione di avvicinarsi al malato con cuore di madre. Che ri­corda quanto aveva già detto France­sco al Convegno ecclesiale naziona­le di Firenze nel 2015. Le nostre isti­tuzioni devono essere molto vicine al­l’uomo malato, come una madre che sa piegarsi al proprio figlio ammala­to ». Vale a dire far sentire la vicinan­za «non solamente di un’istituzione ma anche della comunità cristiana. Ecco allora gli “ospedali da campo” aperti a tutti». Con questo «calore u­mano forte – continua padre Bebber – si riesce a superare il senso dell’a­ziendalismo. Anche se la nostra a­zione per essere efficace ed efficiente non può sprecare risorse, dobbiamo evitare di avere strutture in deficit di bilancio, altrimenti non riusciamo a dare servizio all’uomo malato».

«Anche recente­mente papa Fran­cesco ha parlato di economia e cuore, cioè buona gestio­ne fatta con amore – osserva Mario Piccinini, amminis­tratore delegato dell’ospedale Sacro Cuore di Negrar (Verona) dell’Ope­ra Don Calabria –. Il nostro è un o­spedale religioso convenzionato con la sanità pubblica: quindi dobbiamo tenere presenti le leggi sanitarie na­zionali e quelle del controllo di ge­stione e coniugarle con i messaggi del nostro fondatore». «Don Calabria – continua Piccinini – diceva che l’o­spedale deve essere mantenuto al­l’altezza dei tempi. Il che significa buona organizzazione, buona gestione, capacità di vedere il futuro e di anticiparlo, se pos­sibile. E diceva che la prima Provvi­denza è la testa sul collo. Ma diceva anche che il mala­to, dopo Dio, è il nostro vero padro­ne: quindi cerchia­mo di offrire al pa­ziente la migliore prestazione sani­taria, dal punto di vista sia profes­sionale sia umano. Ben vengano at­trezzature e tecnologie, ma vogliamo un rapporto preferenziale con il pa­ziente: curiamo non la malattia ma la persona».

Dal nord al sud uguali ispirazione e impegno. «L’Ospedale Miulli è un en­te ecclesiastico a sé stante, di cui il ve­scovo di Altamura-Gravina­Acquaviva delle Fonti è “governato­re” – spiega il delegato vescovile mon­signor Mimmo Laddaga – come di­sposto nel Settecento dall’avvocato Francesco Miulli. Ma l’organizzazio­ne è come quella di un ospedale pubblico ». «Il Papa – aggiunge Laddaga – distingue tra Paesi che hanno un si­stema sanitario e quelli che non ce l’hanno. Noi viviamo un’ambivalen­za, perché spesso al Sud l’assistenza sanitaria non è assicurata dal Servi­zio sanitario: il territorio subisce un’alta migrazione di persone che vanno a curarsi a Roma o al Nord. Al Sud sono spesso gli ospedali religio­si (e penso anche a San Giovanni Ro­tondo) a garantire alla povera gente la più alta qualità di cura possibile». Al Miulli «dobbiamo essere ancora più bravi e oculati nella gestione per investire nella sanità locale. E per mantenerci al passo con le ri­cerche più avanzate siamo in con­tatto con il Policlinico Gemelli e l’Università Cattolica per imple­mentare i nostri protocolli dal punto di vista scientifico».

Alla periferia di Roma opera invece l’ospedale «Madre Giuseppina Van­nini » gestito dalle Figlie di san Ca­millo. «Il Papa mette in risalto la com­passione di Gesù per l’uomo sofferente – sottolinea suor Filomena Pi­scitelli, coordinatrice del corso di lau­rea in Infermieristica, di cui l’ospe­dale è sede in convenzione con l’U­niversità Cattolica –. E la nostra mis­sione di assistenza agli ammalati sca­turisce dal Vangelo, dove vediamo la compassione di Dio per ogni forma di sofferenza fisica e spirituale. Le no­stre strutture si mantengono fedeli alla loro ispirazione prendendosi cu­ra della persona in tutte le dimen­sioni, in una dimensione olistica, an­che con la famiglia». «Il Papa fa rife­rimento anche a coloro che lavorano nelle strutture pubbliche e mi pare importante – conclude suor Pisci­telli – che molti infermieri che for­miamo e che lavoreranno negli o­spedali non religiosi possano por­tare con sé l’atteggiamento verso la persona che soffre appreso nella no­stra scuola nello spirito di san Ca­millo de’ Lellis»

Consultorio familiare, quattro aree per un rilancio

Dai lavori del convegno sul ruolo del consultorio familiare in una società che cambia, svoltosi nell’autunno scorso al ministero della Salute, è stato elaborato un documento che suggerisce alcune strategie per valorizzare un presidio che può aiutare la famiglia. Il mio articolo sul numero di gennaio di Noi, famiglia&vita, supplemento mensile di Avvenire

boy-2025099_960_720Integrare la cura sanitaria e l’attenzione sociale verso la famiglia e i suoi problemi è ancora un valore per il quale vale la pena spendersi. E per il quale il consultorio familiare, realtà istituita in Italia con la legge 405 del 1975 – ma già viva come esperienza promossa da associazioni cattoliche sin dal 1948 – , ha ancora compiti utili da svolgere, promuovendo benessere collettivo, e a costi contenuti. Sono messaggi importanti e condivisi tra gli esperti che si sono confrontati al convegno “Il ruolo del consultorio familiare in una società che cambia”, svoltosi nei mesi scorsi al ministero della Salute, che l’ha organizzato assieme all’Istituto superiore di sanità (Iss) e all’Università Cattolica del Sacro Cuore, con la collaborazione della Federazione nazionale dei collegi delle ostetriche (Fnco) e con il patrocinio del Centro per la pastorale familiare del Vicariato di Roma.
Ripartendo dai caratteri fondativi del consultorio, il documento finale – elaborato sulla base dei lavori del convegno cui hanno partecipato oltre 150 operatori consultoriali (pubblici e del privato sociale) e rappresentanti istituzionali e che viene ora proposto ai decisori politici nazionali e regionali – rammenta che i consultori familiari sono caratterizzati da «massima accessibilità, rapporto informale tra operatori e utenti e multidisciplinarietà dell’équipe». Quattro le aree prioritarie che sono state proposte all’approfondimento in altrettanti workshop: salute riproduttiva e percorso nascita, lavorare con le nuove generazioni, crisi della coppia e sostegno alla genitorialità, famiglie multiculturali e sostegno alle donne immigrate. I cambiamenti nei costumi e nei bisogni della popolazione in Italia nel corso degli ultimi decenni sono stati enormi: dalle statistiche – ha evidenziato il ginecologo Giovanni Scambia (direttore Polo Scienze salute donna e bambino del Policlinico Gemelli di Roma) – emerge che nella popolazione femminile nata nel 1966 si è dimezzata la quota di coloro che hanno fatto famiglia in modo stabile rispetto a chi era nato 20 anni prima. Tuttavia i cambiamenti non possono far dimenticare che «la famiglia è banco di prova della tenuta di una società», ha sottolineato monsignor Andrea Manto, responsabile della pastorale familiare del Vicariato di Roma. E che le sue fragilità devono essere motivo di stimolo per un intervento precoce ed educativo, capace di prevenire situazioni di crisi in ambito familiare e non solo.
Il documento finale ricorda che la legge istitutiva dei consultori prevedeva – usando un linguaggio odierno – «offerta attiva di iniziative formative e informative e di assistenza alle coppie», comprendendo «supporto per tutte le problematiche connesse alla salute riproduttiva, compresi i problemi di infertilità», e il «sostegno alla genitorialità» e «alla positiva risoluzione di situazioni di crisi familiare». Obiettivi che sono stati ribaditi anche più di recente da norme e indicazioni contenute sia nel Progetto obiettivo materno infantile (del 2000), sia nell’accordo Stato Regioni del 16 dicembre 2010, sia nel Piano nazionale fertilità e nei nuovi Lea (del 2017), fino all’invito che – alla Terza conferenza nazionale sulla famiglia nel settembre scorso “Più forte la famiglia, più forte il Paese” – è stato rivolto a sostenere la famiglia nelle sue fragilità, «funzione che rientra pienamente nel ruolo dei consultori familiari».
Non ci si può peraltro nascondere che spesso gli obiettivi sono difficili da raggiungere per la carenza di risorse, sia umane sia economiche, e che lo stesso consultorio familiare è poco conosciuto e frequentato. Significativo il dato fornito da Angela Spinelli (responsabile scientifico del convegno per l’Iss): «I consultori familiari sono passati da 2.725 nel 1993 a 1.944 nel 2016» (i dati si riferiscono alle strutture pubbliche, ndr). Eppure, ribadisce il documento, il consultorio «con la presa in carico di adolescenti, donne e coppie nel periodo preconcezionale, gestanti, bambini e coppia mamma-bambino, famiglie, rimane la struttura di riferimento che può assicurare quel continuum di prevenzione e di assistenza primaria raccomandata con un approccio life-course come ribadito anche nei nuovi Lea». Per questo è importante che il consultorio possa essere dotato di un “flusso informativo”, vale a dire che si possa misurarne e rendicontarne l’attività. Che altrimenti non sempre viene apprezzata in modo chiaro, e se non sempre si vede subito il risultato della prevenzione («ma oggi non c’è medicina senza prevenzione», ha sentenziato Scambia), spesso se ne può sentire la mancanza: in una zona del Lazio dove al consultorio familiare sono state “tagliate” le risorse per pagare extra orario un ginecologo che seguiva le adolescenti, ha riferito Serena Battilomo (responsabile scientifico del convegno per il ministero della Salute), si sono poi registrate in tre mesi due interruzioni di gravidanza proprio tra le giovanissime. E all’importanza degli spazi adolescenti ha fatto riferimento anche Giorgio Bartolomei, che opera nel consultorio familiare diocesano “Al Quadraro” di Roma.
Tra gli obiettivi comuni emersi in tutti i quattro workshop si può evidenziare la necessità di rendere sempre più il consultorio un «luogo che valorizza la famiglia come risorsa per la comunità», il «nodo di una rete che dialoghi con gli altri servizi sia territoriali che ospedalieri, sanitari e non, pubblici e del privato sociale, che intercettano le donne, i bambini/adolescenti, le famiglie, ragionando in un’ottica di sistema e agendo in un’ottica generativa». Vale la pena di segnalare alcune proposte specifiche dei workshop. Sulla «salute riproduttiva e percorso nascita» viene suggerito di «implementare modelli organizzativi», quali l’ostetrica di comunità (un esempio concreto viene presentato nell’articolo a fianco), per favorire «percorsi di assistenza integrata territorio-ospedale-territorio», e di valorizzare l’agenda della gravidanza, consegnata dalle ostetriche nei consultori familiari. «Lavorare con le nuove generazioni», comporta contribuire «all’educazione alla relazione sociale, affettiva e sessuale» di adolescenti e giovani adulti, aiutandoli anche a conoscere i temi della fertilità e promuovendo attivamente stili di vita sani per la protezione della salute riproduttiva. Su “crisi della coppia e sostegno alla genitorialità” viene la proposta di diffondere «Gruppi di parola per figli di genitori separati» e di «fare cultura familiare coinvolgendo la figura del padre nel percorso nascita». Infine per le «famiglie multiculturali e il sostegno alle donne immigrate» – vista la complessità del fenomeno migratorio – vengono chieste «lettura dei bisogni» e «flessibilità organizzativa», una «progettazione partecipata», nel «rispetto, riconoscimento e chiarezza nel rapporto con il privato sociale e con il volontariato», ragionando in un’ottica di sistema «per creare alleanze per proposte politiche-programmatiche».
Infine, il documento propone di realizzare una rinnovata mappatura dei consultori familiari «anche per individuare modelli positivi di funzionamento» e – attraverso il confronto in un tavolo tecnico – promuovere «un indirizzo operativo standard e omogeneo su tutto il territorio nazionale più adeguato alle necessità della società attuale». «Come sistema Italia in campo socio-sanitario possiamo rappresentare – ha sottolineato Walter Ricciardi, presidente dell’Iss – una risposta solidale fornita dal pubblico e dal privato sociale rispetto al privato predatorio che avanza in tante parti del mondo». «L’auspicio – ha concluso monsignor Manto – è che le best practice dei consultori, i tanti esempi virtuosi, possano fare cultura e, poi, creare volontà politica, per scegliere comportamenti di reale presa in carico delle persone e delle famiglie». Tutti temi sui quali – in vista delle elezioni – non è incongruo chiedere riscontri ai partiti e ai singoli candidati.