La piaga dell’azzardo e il risparmio delle famiglie

precipizio

Lo scorso 31 ottobre è stata celebrata la giornata mondiale del risparmio. Mi aspettavo forse un po’ di risalto in più, ma può darsi che mi sia sfuggito. Quello che non dovrebbe sfuggire a nessuno è che c’è un segnale negativo che mostra una preoccupante tendenza al rialzo: sono le somme che gli italiani destinano al gioco d’azzardo, nelle mille forme che sono state permesse (e quindi incoraggiate) dai governi del nostro Paese negli ultimi vent’anni. Pochi mesi fa su MilanoAmbiente (n. 2/2018, pag. 15, «L’algoritmo del gioco») il docente universitario Marco Dotti, che è tra i fondatori del movimento “No slot”, elencava i passi compiuti verso la progressiva apertura a forme sempre più ampie di gioco: dai primi incrementi alle estrazioni di Lotto e Superenalotto del governo di Romano Prodi nel 1997, fino alle slot machine online autorizzate dal governo di Mario Monti, passando i numerosi provvedimenti degli esecutivi guidati da Silvio Berlusconi, che nel 2003 ha dato il via libera alle slot machine nei bar, il vero punto di svolta, secondo Dotti. E si giunge al 2017, quando è stata sfiorata la cifra di 102 miliardi di euro spesi dagli italiani in varie forme di “gioco” legale (erano meno di 35 nel 2006): non certo un tipo di investimento o un risparmio. Per lo meno un controsenso, se altre rilevazioni indicano che crescono le famiglie che lottano contro la povertà.
La situazione mi è sembrata rappresentata in modo semplice, ma efficace, da una scena a cui ho assistito verso la fine di ottobre in un bar di Milano. Mentre ordinavo un caffè, una signora sulla quarantina ha comprato un “gratta e vinci” da 5 euro: nel tempo che io ho impiegato a berlo, lei si è seduta a un tavolino e ha scoperto i numeri del suo tagliando. Non ha vinto nulla, ma prima di uscire, scuotendo la testa («Pazzesco» mormorava), ha salutato il negoziante e gli ha detto: «Ci vediamo il mese prossimo». E subito dopo spiegava il motivo della sua delusione: «Non è possibile: oggi ho speso cento euro e non ho vinto nulla, è incredibile». Dal tono delle sue parole e dal suo atteggiamento era chiaro che riteneva ingiustificabile la mancata vincita. A me pareva incredibile che una persona potesse spendere cento euro in quel modo: cinque euro alla volta richiedono venti tagliandi (non so se acquistati tutti nella stessa rivendita), ci vuole comunque un po’ di tempo tra l’acquisto e la “consumazione”. Ma si è fermata solo quando ha esaurito il suo “budget”: a quel punto doveva aspettare il mese successivo, verosimilmente dopo aver incassato lo stipendio. Mi pare evidente che qui non siamo più in quell’ambito di piccole giocate, come per decenni in molti hanno fatto al Totocalcio, quando due colonne alla settimana costavano più o meno l’equivalente di un caffè (tuttavia anche allora c’era chi spendeva molto di più).

A metà ottobre sono stati resi noti i principali risultati della prima indagine epidemiologica compiuta dall’Istituto superiore di sanità per tracciare un profilo dei “giocatori” nel nostro Paese. La ricerca ha coinvolto un campione rappresentativo della popolazione residente in Italia di 12.007 adulti e di 15.602 studenti in età dai 14 ai 17 anni: infatti nonostante la normativa vieti la pratica del gioco d’azzardo per i minori, la estrema facilità di accesso a scommesse e lotterie permette a molti di aggirare il divieto. «Questa indagine, affidataci dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli dello Stato – ha spiegato Walter Ricciardi, presidente dell’Iss – è il più grande studio mai realizzato prima in Italia e ci offre la possibilità di fotografare un fenomeno, prevalente al Sud e nelle Isole, il cui monitoraggio può essere una guida per valutare l’efficacia delle azioni di prevenzione e gli interventi di assistenza». Mi limito a riportare i grandi numeri emersi: un adulto su tre (18 milioni di persone) ha giocato d’azzardo almeno una volta nell’ultimo anno, un milione e mezzo sono i giocatori problematici, cioè che «faticano – spiega Roberta Pacifici, direttore del Centro nazionale Dipendenze e doping dell’Iss – a gestire il tempo da dedicare al gioco, a controllare la spesa, alterando inoltre i comportamenti sociali e familiari». Quasi 700mila sono i minori che giocano, “problematici” circa 70mila studenti, che praticano soprattutto scommesse sportive e lotterie istantanee. Dovrebbe far molto riflettere che tra i giocatori è molto più ampia, rispetto alla popolazione dei non giocatori, la quota di persone che hanno ottenuto la cessione del quinto sullo stipendio, o prestiti da società finanziare o da privati (con gli evidenti rischi di usura).

Il sociologo Maurizio Fiasco (consulente della Consulta nazionale antiusura), intervistato da Gigliola Alfaro per l’agenzia Sir, osserva che i dati sono molto preoccupanti: «Seguendo il report, si nota che un milione e mezzo di famiglie è in gravi difficoltà, perché i “giocatori problematici” hanno fatto precipitare le coppie, i bambini e gli anziani conviventi sotto la soglia di povertà. (…) La sofferenza è dunque per l’intero “sistema famiglia”». E aggiunge che «le conseguenze sull’economia, l’occupazione e la legalità sono ancora ben poco sottolineate. Ma pesano, eccome, sulla stagnazione produttiva e sulla disoccupazione in Italia».

Fiasco quindi propone che l’intero database dei dati raccolti venga messo a disposizione del ministero della Salute perché si possano approntare risposte adeguate ed efficaci per le persone che diventano “dipendenti” dal gioco.

Una risposta terapeutica alla ludopatia è ovviamente necessaria, ma forse più necessaria ancora sarebbe una maggiore consapevolezza – come Avvenire, in compagnia di pochi, sta ribadendo da anni – che il problema sta alla radice, nell’incoraggiare e favorire l’illusione di risolvere i propri problemi economici con un “colpo di fortuna” e nel permettere addirittura la pubblicità del sistema delle scommesse, che i dati dimostrano ormai essere un fattore di impoverimento (è un cane che si morde la coda: più la via d’uscita dalla povertà sembra utopistica, più sembra crescere la tentazione di affidarsi alla sorte). Suona però un po’ paradossale che lo Stato spenda per curare chi finisce nella dipendenza del gioco d’azzardo, una dipendenza che lo stesso Stato favorisce o quanto meno considera benevolmente in virtù di quanto rende (in termini di tasse e di… Pil). Del resto – ma qui il discorso si fa troppo ampio – un comportamento permesso dalla legge (il gioco “legale”) è difficile poi da vietare per altra via. In ogni caso, non un bel modo di ottemperare a quell’articolo 47 della Costituzione tanto citato lo scorso 31 ottobre: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme».

Consultorio familiare, quattro aree per un rilancio

Dai lavori del convegno sul ruolo del consultorio familiare in una società che cambia, svoltosi nell’autunno scorso al ministero della Salute, è stato elaborato un documento che suggerisce alcune strategie per valorizzare un presidio che può aiutare la famiglia. Il mio articolo sul numero di gennaio di Noi, famiglia&vita, supplemento mensile di Avvenire

boy-2025099_960_720Integrare la cura sanitaria e l’attenzione sociale verso la famiglia e i suoi problemi è ancora un valore per il quale vale la pena spendersi. E per il quale il consultorio familiare, realtà istituita in Italia con la legge 405 del 1975 – ma già viva come esperienza promossa da associazioni cattoliche sin dal 1948 – , ha ancora compiti utili da svolgere, promuovendo benessere collettivo, e a costi contenuti. Sono messaggi importanti e condivisi tra gli esperti che si sono confrontati al convegno “Il ruolo del consultorio familiare in una società che cambia”, svoltosi nei mesi scorsi al ministero della Salute, che l’ha organizzato assieme all’Istituto superiore di sanità (Iss) e all’Università Cattolica del Sacro Cuore, con la collaborazione della Federazione nazionale dei collegi delle ostetriche (Fnco) e con il patrocinio del Centro per la pastorale familiare del Vicariato di Roma.
Ripartendo dai caratteri fondativi del consultorio, il documento finale – elaborato sulla base dei lavori del convegno cui hanno partecipato oltre 150 operatori consultoriali (pubblici e del privato sociale) e rappresentanti istituzionali e che viene ora proposto ai decisori politici nazionali e regionali – rammenta che i consultori familiari sono caratterizzati da «massima accessibilità, rapporto informale tra operatori e utenti e multidisciplinarietà dell’équipe». Quattro le aree prioritarie che sono state proposte all’approfondimento in altrettanti workshop: salute riproduttiva e percorso nascita, lavorare con le nuove generazioni, crisi della coppia e sostegno alla genitorialità, famiglie multiculturali e sostegno alle donne immigrate. I cambiamenti nei costumi e nei bisogni della popolazione in Italia nel corso degli ultimi decenni sono stati enormi: dalle statistiche – ha evidenziato il ginecologo Giovanni Scambia (direttore Polo Scienze salute donna e bambino del Policlinico Gemelli di Roma) – emerge che nella popolazione femminile nata nel 1966 si è dimezzata la quota di coloro che hanno fatto famiglia in modo stabile rispetto a chi era nato 20 anni prima. Tuttavia i cambiamenti non possono far dimenticare che «la famiglia è banco di prova della tenuta di una società», ha sottolineato monsignor Andrea Manto, responsabile della pastorale familiare del Vicariato di Roma. E che le sue fragilità devono essere motivo di stimolo per un intervento precoce ed educativo, capace di prevenire situazioni di crisi in ambito familiare e non solo.
Il documento finale ricorda che la legge istitutiva dei consultori prevedeva – usando un linguaggio odierno – «offerta attiva di iniziative formative e informative e di assistenza alle coppie», comprendendo «supporto per tutte le problematiche connesse alla salute riproduttiva, compresi i problemi di infertilità», e il «sostegno alla genitorialità» e «alla positiva risoluzione di situazioni di crisi familiare». Obiettivi che sono stati ribaditi anche più di recente da norme e indicazioni contenute sia nel Progetto obiettivo materno infantile (del 2000), sia nell’accordo Stato Regioni del 16 dicembre 2010, sia nel Piano nazionale fertilità e nei nuovi Lea (del 2017), fino all’invito che – alla Terza conferenza nazionale sulla famiglia nel settembre scorso “Più forte la famiglia, più forte il Paese” – è stato rivolto a sostenere la famiglia nelle sue fragilità, «funzione che rientra pienamente nel ruolo dei consultori familiari».
Non ci si può peraltro nascondere che spesso gli obiettivi sono difficili da raggiungere per la carenza di risorse, sia umane sia economiche, e che lo stesso consultorio familiare è poco conosciuto e frequentato. Significativo il dato fornito da Angela Spinelli (responsabile scientifico del convegno per l’Iss): «I consultori familiari sono passati da 2.725 nel 1993 a 1.944 nel 2016» (i dati si riferiscono alle strutture pubbliche, ndr). Eppure, ribadisce il documento, il consultorio «con la presa in carico di adolescenti, donne e coppie nel periodo preconcezionale, gestanti, bambini e coppia mamma-bambino, famiglie, rimane la struttura di riferimento che può assicurare quel continuum di prevenzione e di assistenza primaria raccomandata con un approccio life-course come ribadito anche nei nuovi Lea». Per questo è importante che il consultorio possa essere dotato di un “flusso informativo”, vale a dire che si possa misurarne e rendicontarne l’attività. Che altrimenti non sempre viene apprezzata in modo chiaro, e se non sempre si vede subito il risultato della prevenzione («ma oggi non c’è medicina senza prevenzione», ha sentenziato Scambia), spesso se ne può sentire la mancanza: in una zona del Lazio dove al consultorio familiare sono state “tagliate” le risorse per pagare extra orario un ginecologo che seguiva le adolescenti, ha riferito Serena Battilomo (responsabile scientifico del convegno per il ministero della Salute), si sono poi registrate in tre mesi due interruzioni di gravidanza proprio tra le giovanissime. E all’importanza degli spazi adolescenti ha fatto riferimento anche Giorgio Bartolomei, che opera nel consultorio familiare diocesano “Al Quadraro” di Roma.
Tra gli obiettivi comuni emersi in tutti i quattro workshop si può evidenziare la necessità di rendere sempre più il consultorio un «luogo che valorizza la famiglia come risorsa per la comunità», il «nodo di una rete che dialoghi con gli altri servizi sia territoriali che ospedalieri, sanitari e non, pubblici e del privato sociale, che intercettano le donne, i bambini/adolescenti, le famiglie, ragionando in un’ottica di sistema e agendo in un’ottica generativa». Vale la pena di segnalare alcune proposte specifiche dei workshop. Sulla «salute riproduttiva e percorso nascita» viene suggerito di «implementare modelli organizzativi», quali l’ostetrica di comunità (un esempio concreto viene presentato nell’articolo a fianco), per favorire «percorsi di assistenza integrata territorio-ospedale-territorio», e di valorizzare l’agenda della gravidanza, consegnata dalle ostetriche nei consultori familiari. «Lavorare con le nuove generazioni», comporta contribuire «all’educazione alla relazione sociale, affettiva e sessuale» di adolescenti e giovani adulti, aiutandoli anche a conoscere i temi della fertilità e promuovendo attivamente stili di vita sani per la protezione della salute riproduttiva. Su “crisi della coppia e sostegno alla genitorialità” viene la proposta di diffondere «Gruppi di parola per figli di genitori separati» e di «fare cultura familiare coinvolgendo la figura del padre nel percorso nascita». Infine per le «famiglie multiculturali e il sostegno alle donne immigrate» – vista la complessità del fenomeno migratorio – vengono chieste «lettura dei bisogni» e «flessibilità organizzativa», una «progettazione partecipata», nel «rispetto, riconoscimento e chiarezza nel rapporto con il privato sociale e con il volontariato», ragionando in un’ottica di sistema «per creare alleanze per proposte politiche-programmatiche».
Infine, il documento propone di realizzare una rinnovata mappatura dei consultori familiari «anche per individuare modelli positivi di funzionamento» e – attraverso il confronto in un tavolo tecnico – promuovere «un indirizzo operativo standard e omogeneo su tutto il territorio nazionale più adeguato alle necessità della società attuale». «Come sistema Italia in campo socio-sanitario possiamo rappresentare – ha sottolineato Walter Ricciardi, presidente dell’Iss – una risposta solidale fornita dal pubblico e dal privato sociale rispetto al privato predatorio che avanza in tante parti del mondo». «L’auspicio – ha concluso monsignor Manto – è che le best practice dei consultori, i tanti esempi virtuosi, possano fare cultura e, poi, creare volontà politica, per scegliere comportamenti di reale presa in carico delle persone e delle famiglie». Tutti temi sui quali – in vista delle elezioni – non è incongruo chiedere riscontri ai partiti e ai singoli candidati.

I consultori familiari: fare gioco di squadra

Al ministero della Salute, a Roma, si è svolta martedì 21 novembre una giornata di approfondimento sul ruolo e il futuro dei consultori familiari. Una sintesi dei lavori nel mio articolo comparso ieri su Avvenire

salute
La sede del ministero della Salute all’Eur

Confluiranno in un documento di sintesi da sottoporre alle i­stituzioni, dal ministro della Salute alla Conferenza Stato-Regioni, le proposte e le sollecitazioni per valoriz­zare il ruolo del consultorio familiare emerse dai workshop del convegno “Il ruolo del consultorio familiare in una società che cambia”, organizzato a Ro­ma dal ministero della Salute, dall’Isti­tuto superiore di sanità (Iss) e dall’Uni­versità Cattolica, in collaborazione con la Federazione nazionale dei collegi del­le ostetriche (Fnco) e il patrocinio del Centro per la pastorale familiare del Vi­cariato di Roma. Giuseppe Ruocco, segretario generale del ministero, ha ricordato che con l’i­stituzione dei consultori familiari nel 1975 il nostro Paese «è stato antesi­gnano», ma poi «si è un po’ fermato per strada». Dice qualcosa il dato – offerto da Angela Spinelli (Iss) – che i consul­tori familiari sono passati da 2.725 nel 1993 a 1.944 (e 147 privati) nel 2016. Tuttavia non mancano prese di posi­zione importanti: al recente G7 della salute di Milano – ha ricordato Serena Battilomo (ministero della Salute) – si è ribadito l’impegno a investire nella salute di donne, bambini e adolescen­ti riconoscendoli «positivi agenti di cambiamento per migliorare la salute di tutti».

Giovanni Scambia, presidente della So­cietà italiana di Ginecologia e ostetricia, ha dimostrato con dati di letteratura che «difendere la salute della donna si­gnifica difendere la società intera». U­na società peraltro che spesso dimen­tica il ruolo centrale della famiglia, co­me lamentato da Giorgio Bartolomei (consultorio familiare “Al Quadraro” di Roma): «Non si parla abbastanza della famiglia, che vive profondi cambia­menti e mostra una grande comples­sità. Crescono le famiglie monoparen­tali, le coppie in crisi e le relazioni af­fettive fragili; le famiglie multiculturali hanno difficoltà diverse. E poco ci si oc­cupa dei problemi di famiglie adottive, affidatarie, arcobaleno, o che fanno ri­corso alla fecondazione assistita».

Sulla formazione Maria Vicario (Fnco) ha segnalato che «l’80% degli studenti delle facoltà medico-sanitarie non fre­quenta i consultori». Rocco Bellanto­ne, preside della facoltà di Medicina della Cattolica, ha sottolineato l’im­portanza di abituarsi a lavorare in team, per sapere creare un giusto clima di ac­coglienza. Mentre dal presidente dell­’Iss, Walter Ricciardi, è venuto un invi­to: «Istituzioni come l’Iss e gli operato­ri del consultorio devono fare squadra per far capire ai decisori politici l’im­portanza dei consultori; e occorre una correzione del federalismo che in sa­nità ha prodotto grandi differenze nel­l’accesso ai servizi e alle terapie».

Monsignor Andrea Manto ( Vicariato) ha chiesto di ricordare che lo specifico del consultorio familiare «è rivolto alla famiglia, occorre credere che la famiglia sia un vero capitale e ricchezza per la so­cietà ». Tra le “buone pratiche” emerse dai workshop vale la pena di segnalare la convenzione stipulata tra Fnco, la on­lus Oltre l’orizzonte e il Vicariato di Ro­ma per sostenere la figura dell’ostetri­ca di comunità, una figura in grado di svolgere un ruolo di promozione della salute della donna sul territorio, e in modo attivo. 

Salute e ambiente, intreccio da tutelare per il bene dell’umanità

In vista del G7 dei ministri della Salute e del workshop della Pontificia Accademia delle Scienze, la mia presentazione dei temi con alcuni interlocutori istituzionali pubblicata oggi su Avvenire, nelle pagine della sezione è vita

inquinamentoSalute e ambiente saranno i temi affrontati al vertice dei ministri della Salute del G7 in programma a Milano sabato 5 e dome­nica 6 novembre. All’incontro, presieduto dal ministro italiano Beatri­ce Lorenzin, prenderanno parte i suoi colleghi di Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti, oltre al commissario Ue alla salute e i direttori degli organismi internaziona­li: Oms, Fao, Oie, Ocse ed Efsa. Analo­go tema viene discusso da oggi a saba­to a Roma dalla Pontificia Accademia delle Scienze (Pas) in un workshop sul tema «La salute delle persone e la salu­te del pianeta: la nostra responsabilità». Il cancelliere della Pas, il vescovo Mar­celo Sánchez Sorondo,osserva che «un cambiamento climatico incontrollato pone minacce all’esistenza dell’Homo sapiens e forse a un quinto di tutte le altre specie viventi: in più, l’inquina­mento atmosferico è una delle maggiori cause globali di morte prematura».

«Bisogna dare atto alla presidenza ita­liana del G7 a Taormina e ora al mini­stro Lorenzin a Milano – evidenzia Wal­ter Ricciardi, presidente dell’Istituto su­periore di sanità – di aver voluto por­tare al centro dell’agenda l’impatto dei fattori climatici e ambientali sulla salute, che auspicabilmente sarà ripreso dalla Germania nel G20 e dal Canada, pros­simo a presiedere il G7 dopo l’Italia» «Le evidenze scientifiche sono talmen­te forti – continua Ricciardi – che ci in­ducono a dare ai politici indicazioni nette all’azione. Persino l’accordo di Pa­rigi sul clima è il minimo indispensa­bile per evitare che si generino danni ir­reversibili: abbiamo due generazioni per invertire la rotta».

«Qui non sono in gioco – commenta padre Maurizio Faggioni, docente di Bioetica all’Accademia Alfonsiana – le grandi dispute filosofiche sull’antro­pocentrisimo o il biocentrismo o qua­lunque altro -ismo, qui sono in gioco congiuntamente il bene dell’uomo e il bene della natura». E aggiunge: «Può sembrare strano, ma solo di recente si è presa piena coscienza degli estesi e forse, a medio termine, indelebili ef­fetti della crisi ecologica sulla salute della persona».

«Le conseguenze dei cambiamenti cli­matici in parte si stanno già vedendo – puntualizza Ricciardi, che è direttore dell’Osservatorio nazionale sulla salu­te nelle regioni italiane, nato presso l’U­niversità Cattolica –. In Italia quest’an­no sei regioni su venti hanno dichiara­i to l’emergenza per l’acqua; si sono tor­nate a vedere malattie tropicali quasi sparite, come la malaria; le ondate di ca­lore (il 2016 è stato l’anno più caldo da quando c’è la registrazione) hanno con­seguenze sul cibo perché la siccità di­struggeraccolti». «È importante che ci sia una coopera­zione forte – aggiunge Mario Melazzi­ni, direttore generale dell’Agenzia ita­liana del farmaco – e che gli Stati più forti dal punto di vista economico si al­leino per prendere decisioni comuni su ambiente e clima e per abbattere i fat­tori di rischio: l’aspetto fondamentale è che al centro dell’attenzione ci sia sem­pre l’uomo». «In queste occasioni di confronto – continua Melazzini – è pos­sibile raccogliere esperienze che per­mettono di arricchirsi e di rendere pa­trimonio comune le buone pratiche di ciascun Paese. Ovviamente occorre sa­pere andare oltre alcune logiche individuali e affrontare complessivamente problemi che sono globali». Infine, sot­tolinea Melazzini, bisogna superare «cri­ticità talora frutto di pregiudizi non suf­fragati da prove certe, incoraggiando l’a­dozione di strategie fondate su prove scientifiche, criterio che deve valere sem­pre quando si adottano decisioni che hanno ricadute sulla salute vanno gui­date da dati validati da un punto di vi­stascientifico». La richiesta di dati certi chiama in cau­sa la ricerca, non sempre facile in que­sti ambiti. Eppure, osserva Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche «Mario Negri» di Mila­no, «il tema ha a che fare con la salute molto più di quel che si pensasse in pas­sato. E l’intervento, oltre a qualche de­cisione di comportamento individuale, non può che spettare a Stati e governi, senza lasciarsi condizionare da interes­si particolari o locali. Questo G7 è quin­di un’occasione da non sprecare, anche perché i problemi, che sono globali, non possono essere risolti da un sin­golo Stato ma dalla cooperazione». Gli studi scientifici danno comunque im­portanti conferme: «Lo scorso anno al “Mario Negri” abbiamo fatto una ri­cerca sia sulla presenza degli inquinan­ti ambientali Pm 10 e Pm 2,5 e sulla presenza del salbutamolo nelle acque reflue (principio attivo del farmaco u­sato dagli asmatici): abbiamo riscon­trato che all’aumento della concentra­zione di Pm 10 nell’aria aumentava an­che la presenza nell’acqua e quindi l’u­tilizzo del salbutamolo. In definitiva andrebbe incoraggiata la ricerca in que­sti settori, proprio per prendere deci­sioni suffragate da dati scientifici». Un obiettivo perseguito anche all’Istituto superiore di sanità, dove «esiste un di­partimento Ambiente e salute – spiega Ricciardi – che vede impegnate più di 200 persone. L’epidemiologia ambien­tale è un filone che sta crescendo, sup­portato anche dall’Oms. E nel dicem­bre 2018 su questi temi organizzeremo una conferenza internazionale a Roma con i maggiori studiosi del mondo».

A Milano una “rete” per dare un alloggio ai parenti dei pazienti fuori sede

Sulla ricerca di una sistemazione per chi segue i propri cari a Milano per un ricovero, il mio articolo pubblicato sulle pagine milanesi di Avvenire esamina le possibili soluzioni, a partire dall’impegno delle associazioni riunite in “Acasalontanidacasa”, che possono mettere a disposizione oltre mille posti letto. L’articolo è preceduto da una sintesi delle indicazioni del Rapporto Osservasalute 2013, che sottolinea la forte attrattività delle strutture sanitarie lombarde, e milanesi in particolare. L’ultimo pezzo riguarda un aspetto specifico, quello del trasporto dei malati in città.

Di recente lo ha ribadito anche il “Rapporto Osservasalute 2013”, l’annuale appuntamento con lo “stato di salute e qualità dell’assistenza nelle regioni italiane”: la Lombardia è la regione che “attira” nelle proprie strutture sani­tarie il maggior numero di persone residenti in altre zone del Paese. Secondo i dati dell’Osservatorio nazionale sul­la salute nelle Regioni italiane, diretto da Walter Ricciardi, e che ha sede presso l’Università Cattolica di Roma, nel 2012 è stato di 65.662 unità il saldo positivo tra pazienti emigrati (40.597) e immigrati (106.259) in Lombardia (+5,4%). Non in numeri assoluti, ma in quota percentuale sul totale dei ricoveri ospedalieri, è un dato in crescita da un de­cennio: il saldo positivo è stato infatti del 4,8% nel 2002, del 5% nel 2007 e del 5,4% nel 2012. Anche se in percen­tuale altre regioni presentano un saldo attivo più alto (Emilia-Romagna e Toscana), la Lombardia “vince” di gran lunga per numero assoluto. Anche per i ricoveri in day-hospital, anche se le cifre sono nettamente inferiori (di 6.321 unità il saldo positivo). Si tratta di un fenomeno, sottolineano gli esperti di Osservasalute, che pone problemi di e­quità nell’accesso alle cure e rappresenta un costo rilevante per le Regioni che “esportano” pazienti.

acasalontanidacasaUna malattia, un intervento chirurgico, un qualunque problema di salute che renda necessario essere ricoverati in un ospe­dale lontano da casa provoca sicuramente disa­gi emotivi, ma anche preoccupazioni economi­che a tante famiglie ogni anno. E Milano (com­preso l’hinterland fino a Monza) è una delle “ca­pitali” della sanità italiana, con molti centri di eccellenza che attirano pazienti da fuori regione. «Oltre 100mila persone ogni anno, tra pazienti e parenti, hanno bisogno di un alloggio tempora­neo a Milano» spiega Guido Arrigoni, segretario dell’Associazione Prometeo, che insieme ad al­tre quattro associazioni, ha dato vita alla rete “A casa lontani da casa” proprio per venire incon­tro a queste necessità, soprattutto delle famiglie meno abbienti. «Ogni associazione rilevava da tempo il bisogno di alloggi a prezzi calmierati – continua Arrigoni –. L’Associazione Prometeo, che dal 1999 si occupa (presso l’Istituto nazionale dei Tumori di Milano) di pazienti malati e tra­piantati di fegato, ha cominciato comprando un alloggio (tre stanze e servizi comuni) per paren­ti dei suoi ricoverati. Abbiamo poi aggregato in­torno a noi la sezione milanese della Lega italia­na per la lotta contro i tumori (Lilt), l’Associa­zione volontari ospedalieri (Avo), CasAmica e As­sociazione Marta Naruzzo, dando vita al proget­to “A casa lontani da casa”, che ora può contare su circa mille posti letto».

I primi passi dell’azione comune sono stati un’in­dagine sulla domanda «con modalità scientifi­che, distribuendo circa 1.500 questionari negli ospedali a malati e parenti», e una sull’offerta «costruendo un database di tutti coloro che met­tono a disposizione alloggi per questo scopo. At­tualmente abbiamo “schedato” oltre una qua­rantina di organizzazioni, fondazioni, parrocchie (la Caritas è stata nostra alleata in questa ricer­ca), che hanno disponibilità di alloggi a prezzi calmierati e le abbiamo visitate. È stato un per­corso durato due anni, ma ha portato frutto». Ol­tre al sito internet (www.acasalontanidacasa.it) è attivo un numero verde (800.161.952), gestito dagli operatori del Gruppo Filo diretto (partner del progetto), che fornisce – 24 ore su 24, 365 giorni l’anno – a chi telefona in cerca di un al­loggio tutte le informazioni necessarie per trovare la soluzione adeguata. «Attraverso indagini con assistenti sociali e personale dell’ospedale – pre­cisa Arrigoni – cerchiamo di aiutare soprattutto le persone meno abbienti: diciamo che, tra i 100mila che vengono a Milano, vorremmo ri­spondere alle necessità di quei 20-25mila che so­no la parte più debole». Oltre a questa iniziativa – che continua a svilup­parsi e crescere nel maggior coordinamento tra le associazioni e con le strutture residenziali – ci sono altre “reti”, legate a singole onlus di supporto ai malati o a singoli ospedali. Nell’ambito del progetto “Non lasciamoli soli”, la onlus Ospedale dei bambini Milano-Buzzi (che suppor­ta le attività della struttura sanitaria specializza­ta nell’assistenza pediatrica) profonde molti sfor­zi per dare alloggio ai parenti dei piccoli ricoverati. Ma molti dei maggiori ospedali milanesi (per esempio Niguarda, Istituto nazionale dei tumo­ri, Istituto neurologico Besta, Ospedale Maggio­re Policlinico) sui loro siti internet, offrono indi­cazioni su alcune strutture – dalle case di acco­glienza a residence e hotel – che offrono ospitalità ai parenti dei malati (www.ospedaleniguarda.it/content/servizi_e_alloggi.html;
http://www.istitutotumori.mi.it/modules.php?name=Content&pa=showpage&pid=29; http://www.istituto-besta.it/Area-Clinica.aspx?doc=Pernottamenti; http://www.policlinico.mi.it/DiCosaHaiBisogno/StruttureD_Accoglienza_Lug2013.html). Alcuni indi­rizzi si ripetono nei diversi elenchi, ma è bene “spulciarli” tutti, perché si trovano anche speci­fiche soluzioni. «Il nostro lavoro – aggiunge Ar­rigoni – mira a creare un sistema coordinato, per superare il passaparola che ancora spesso carat­terizza la ricerca di un alloggio».

PROSSIMO OBIETTIVO: TRASPORTI DEDICATI 

Un’altra necessità cui le associa­zioni riunite nella rete “Acasalon­tanidacasa” stanno cercando di venire incontro è quella del tra­sporto: «Per chi arriva da lonta­no, e magari non abita in una città – spiega Guido Arrigoni – , può essere percepita come una diffi­coltà notevole quella di doversi muovere con i mezzi pubblici e at­traversare Milano. Senza dimen­ticare che talvolta a dover essere ospitati sono i convalescenti, di­messi precocemente dagli ospe­dali ma ancora bisognosi di tera­pie, e spesso non in perfette con­dizioni fisiche. Per questo motivo, di solito, le famiglie richiedo­no soprattutto alloggi vicino agli o­spedali in cui i loro cari sono ri­coverati. Ma questo fatto restrin­ge il campo nella ricerca delle pos­sibili soluzioni abitative». Ecco quindi l’opportunità di garantire un sistema di trasporto dedicato: «La Lilt è già organizzata in que­sto senso, per permettere – per esempio – ai malati che devono andare a fare una chemio di es­sere accompagnati in auto da vo­lontari, che offrono anche un sup­porto relazionale importante. In­sieme con le altre associazioni, e in dialogo con Unitalsi e Pastorale della salute della diocesi di Mi­lano, abbiamo allo studio diverse soluzioni – conclude Arrigoni – che facciano emergere anche il valore relazionale dell’impegno dei volontari».

«Sanità lombarda efficiente, ma occorre investire»

I dati lombardi del rapporto Osservasalute 2013, realizzato dall’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane, che ha sede presso l’Università Cattolica di Roma. Il mio articolo pubblicato sulle pagine milanesi di Avvenire lo scorso 17 aprile.

images-2La sanità in Lombardia gode di u­na situazione generalmente fa­vorevole, con un ottimo rappor­to costo-efficacia, che si traduce anche in indicatori di salute dei cittadini spes­so migliori della media nazionale. Da segnalare è però la maggiore inciden­za della spesa privata per l’acquisto dei farmaci. Non si devono tuttavia tra­scurare investimenti di risorse per il fu­turo, perché i risultati positivi sono il frutto di scelte degli anni scorsi. Sono le conclusioni che emergono dall’edi­zione 2013 del Rapporto Osservasalu­te, pubblicato dall’Osservatorio nazio­nale sulla salute nelle regioni italiane, che ha sede presso l’Università Catto­lica di Roma ed è coordinato da Walter Ricciardi (direttore del dipartimento di Sanità pubblica del Policlinico Gemel­li) redatto da 165 esperti di diverse branche distribuiti in tutto il Paese.

Se il dato della speranza di vita alla na­scita in Lombardia è più alto della me­dia nazionale (79,6 anni contro 79,4 de­gli uomini; 84,7 contro 84,5 delle don­ne), i dati relativi agli sti­li di vita mostrano più di una criticità. Più alta della media nazionale è la quota di fumatori (22,5% contro il 21,9% tra gli over 14), e i gio­vani tra gli 11 e i 18 an­ni che consumano al­colici è del 14,2% nei maschi (solo un decimo in più della media nazionale) ma ben il 14,3% del­le femmine, mentre in Italia è dell’8,4%. Altro dato negativo è il record nazio­nale di incidenti stradali: ben 35.398 nel 2012. Positivo invece il dato sulla pratica sportiva, che vede la Lombar­dia al terzo posto (dopo Provincia di Trento e Veneto) per quota di cittadini che fanno attività fisica continuativa: 26 ,8 % (21 ,9% la media nazionale). Un dato che si riversa anche sulla minore quota di persone in so­vrappeso: 32,6% contro il 35,6% (per i minori 24,2% contro il 26,9%). Si conferma il più bas­so in Italia il rapporto tra spesa del sistema sani­tario regionale e pil: in Lombardia è al 5,47% (media nazionale 7,04%). Altro record regionale è la mi­nore spesa per cittadino per coprire il costo del personale dipendente del ser­vizio sanitario: 516,8 euro contro una media nazionale di 596,3. Importante anche il fatto che la Lombardia pre­senta la più elevata percentuale di di­pendenti del servizio sanitario di età inferiore ai 30 anni. Mentre un segna­le di efficienza organizzativa è la de­genza preoperatoria, che ha una media di 1,69 giorni, inferiore a quella nazio­nale (1,81). In crescita la spesa farma­ceutica in compartecipazione: ogni cit­tadino spende di tasca propria il 13,7% della spesa pro capite totale, mentre la media italiana è ferma al 12,2%.

«Questi risultati – commenta Francesco Auxilia, docente di Igiene dell’Univer­sità di Milano e referente per la Lom­bardia per Osservasalute – sono il frut­to delle scelte degli anni scorsi. Ma vi­sto l’invecchiamento della popolazio­ne occorre continuare a investire in sa­nità secondo un’attenta valutazione dei bisogni futuri, altrimenti potrebbero peggiorare gli indicatori di salute».

«La riforma dovrà partire dai bisogni dei pazienti»

Ultima puntata dell’inchiesta sanitaria pubblicata su Avvenire mercoledì 13 marzo.

images-1Guardare alla sanità con gli occhi del cittadino riserva non poche sgradite sor­prese. Liste d’attesa, ticket, carenza dei servizi territo­riali rendono sempre più difficile l’accesso a presta­zioni che dovrebbero es­sere garantite. E la ridu­zione delle risorse a di­sposizione sembra prefi­gurare difficoltà ulteriori (qualcuno ipotizza la ne­cessità di un intervento di fondi assicurativi), se non si inverte una ten­denza culturale ad an­teporre le valutazioni e­conomiche a quelle sa­nitarie. Forse il compito principale per una futu­ra riforma della sanità.

«Negli ultimi anni – sot­tolinea Walter Ricciardi, direttore dell’Osservato­rio nazionale sulla salute nelle regioni italiane, U­niversità Cattolica di Ro­ma – si è ridotto l’accesso dei cittadini alle presta­zioni sanitarie, anche te­nendo presenti le diffe­renze regionali. Non a ca­so l’ultimo rapporto del Tribunale per i diritti del malato presenta in coper­tina un ospedale con un lucchetto e una lunga fila di cittadini davanti. Così come nell’ultima gradua­toria sull’Europa, l’Ocse ha collocato l’Italia al 24° po­sto per il contesto dei ser­vizi sanitari forniti ai pro­pri cittadini. E non per problematiche di caratte­re tecnico: medici e strut­ture buone esistono, quanto per l’organizzazio­ne del sistema». Un deficit segnalato anche da Maurizio Bonati, diret­tore del dipartimento Sa­nità pubblica dell’Istituto di ricerche farmacologi­che “Mario Negri” di Mila­no: «Complice la regiona­lizzazione, in sanità conti­nua a mancare una strate­gia comune. Come con­fermano alcuni indicato­ri: per esempio, non si rie­scono ad abbattere i flus­si di migrazione sanitaria, tipicamente dal Sud al Nord. Penso soprattutto a quella pediatrica, che si ferma un po’ al Bambino Gesù, ma poi guarda al Gaslini (Genova) o al Bur­lo Garofolo ( Trieste) o al San Gerardo (Monza) per l’oncologia. E anche per i tumori dell’adulto, pur essendoci quattro Irccs oncologici al Centrosud, gli spostamenti verso il nord sono una costante». Differenze si registrano anche sul consumo di farmaci: «A dispetto del clima – rileva Antonio Clavenna, farmacologo ricercatore presso il La­boratorio materno-infan­tile del “Negri” – il consu­mo pediatrico di antibio­tici è maggiore al Sud ri­spetto al Nord, i bambini che ne assumono almeno uno in un anno sono il 36% in Lombardia, quasi il 70% in Puglia».

I servizi territoriali, il pre­sidio più vicino al cittadi­no, continuano a recitare il ruolo della cenerentola, vittime di disorganizza­zione, mancati finanzia­menti e cat­tive abitudi­ni: «Anche certe auspi­cate riforme vanno finan­ziate – ricor­da Ricciardi –. Penso agli studi asso­ciati di me­dici di fami­glia aperti sulle 24 ore: se non han­no a disposi­zione infer­mieri e at­trezzature, il paziente con un dolore toracico si re­cherà sempre al pronto soccorso». E se le spese per la sanità territoriale sono maggiori di quelle ospe­daliere (con eccezioni, ve­di Lazio), «il problema re­sta il raccordo tra le due realtà – aggiunge Ricciar­di – con il cittadino che do­po le dimissioni non trova quel continuum di assi­stenza di cui avrebbe bi­sogno. La realtà è che il si­stema è disegnato secon­do criteri arcaici, e non guardando ai bisogni di salute della popolazione». Come conferma il fatto, aggiunge Bonati, che a­zienda ospedaliera e a­zienda sanitaria locale, presenti su uno stesso territorio, guardano ciascuna so­lo ai propri bilanci: «Del resto, e lo di­mostra la re­cente classi­fica dei diret­tori generali in Lombar­dia, i diri­genti sono valutati per il raggiungi­mento degli obiettivi, che sono in mas­sima parte di budget. Sen­za dimenticare che i me­dici di famiglia non met­tono piede nell’ospedale. Così come non si capisce perché le sale operatorie non possano funzionare al pomeriggio, come succe­de nel privato». Rare sono le operazioni che coordinino bene l’of­ferta sanitaria: «Anche la chiusura dei piccoli ospe­dali, spesso osteggiata dal­le popolazioni, può essere realizzata – spiega Ricciar­di – se si offrono servizi più efficienti. Penso all’esem­pio virtuoso dell’ospedale della Versilia, collocato in posizione baricentrica ri­spetto a quattro piccoli presidi che sono stati chiu­si ». Migliorare omogenea­mente l’offerta sanitaria è reso difficile anche dal contenzioso Stato-Regio­ni: «Nella riduzione dei posti letto ospedalieri – aggiunge Ricciardi – il mi­nistero aveva dato criteri e requisiti minimi per or­ganizzare i reparti ospe­dalieri, ma sono stati ri­fiutati dalle Regioni».

Nella sanità si rispecchia­no i problemi del Paese, sostiene Ricciardi: «Fuori dalle ideologie, continua a essere necessaria una col­laborazione tra pubblico e privato (anche in Svezia stanno elaborando mo­delli), ma servono regole chiare per tutti, con le re­gioni che le fanno rispet­tare. La frammentazione e le liti Stato-Regioni non portano benefici: il primo distribuisce (poche) risor­se ma non controlla, le se­conde hanno diritto di ve­to, ma non i fondi per o­perare bene». Se vogliamo mantenere la qualità del nostro sistema sanitario, conclude Bonati, «occorre ottimizzare le risposte proprio guardando alla domanda, alle necessità di salute. E non limitarsi a va­lutare i costi immediati, ma al guadagno di salute complessivo della popola­zione. Anche se questo ri­chiede più tempo di quan­to solitamente i politici siano disposti ad attende­re ».