Il mio articolo relativo all’intervento del direttore di Caritas Ambrosiana, don Roberto Davanzo, in relazione alla volontà della giunta regionale di mettere il requisito di cinque anni di residenza in Lombardia per accedere ai fondi Nasko, di sostegno alle donne in bilico verso un aborto per ragioni economiche. È stato pubblicato sulle pagine milanesi di Avvenire dello scorso 3 aprile.
«La decisione della giunta regionale di modificare i criteri di assegnazione del sostegno a favore delle donne in attesa di un figlio non può non inquietarci ». Don Roberto Davanzo, direttore di Caritas Ambrosiana, interviene nel dibattito che agita la maggioranza in Regione. La giunta guidata da Roberto Maroni ha infatti deciso di cambiare i criteri per l’assegnazione dei fondi Nasko, destinati alle donne a rischio di aborto per motivi economici. Su proposta dell’assessore alle Politiche sociali, la leghista Cristina Cantù, il governo regionale sta approntando misure più restrittive, in particolare aumentando il requisito della residenza in Lombardia da uno a cinque anni: un modo per penalizzare le donne straniere, “accusate” di fare la parte del leone nell’attribuzione dei fondi. Una scelta criticata in maniera dura da don Davanzo. Sarebbe a dire, sottolinea il sacerdote «che il valore della vita di un bambino dipenderà – nella nostra regione – in qualche modo anche dalla nazionalità della sua mamma o da questioni anagrafiche che contano assai meno di una vita umana». Il direttore della Caritas non nasconde la situazione di «limitatezza delle risorse economiche in questa stagione e la necessità» di distribuirle in maniera efficace. «Non possiamo però negare – rimarca – che quella della nazionalità e della residenza» rischiano di essere criteri «particolarmente odiosi quasi che una la vita vada difesa a partire dal passaporto e da un certificato di residenza, quasi che ci possano essere persone di serie A da tutelare e persone meno significative, a perdere». Mentre invece, è ancora il ragionamento del direttore della Caritas, il criterio vero da scegliere dovrebbe essere quello «della maggiore fragilità, del grado più alto di debolezza della famiglia del nascituro».
Una bocciatura delle nuove linee guida volute dalla Regione che portano a una «inaccettabile discriminazione» e che fanno pensare «che ci sia una grave paura» dietro questo calcolo «inaccettabile », dice ancora il sacerdote. «Quella di alcuni cittadini lombardi con tassi di natalità bassissimi, timorosi di mettere al mondo figli, che provano spavento di fronte a famiglie immigrate che, malgrado il loro stato di disagio, credono ancora nel valore della generazione, del mettere al mondo figli». Un coraggio che disturba e che «si intende ostacolare chiudendo gli occhi – tra l’altro – sui benefici che sta offrendo sul piano demografico ed economico». Un atteggiamento oltre che miope, sottolinea don Davanzo, perdente visti i comuni lombardi che in questi anni hanno cercato di negare contributi agli stranieri e che poi sono stati condannati a fare passi indietro «tanto umilianti quanto costosi». Quest’ultima «invenzione» ha, però, un sapore ancora più amaro perché va a discriminare una vita nascente «indifesa per definizione e ancora più per la debolezza di chi l’ha concepita». E conclude con un’ultima frustata a una visione che vuole dividere poveri e bisognosi in base alla loro provenienza. «Difendere la vita – chiude don Davanzo – specie la più debole, quella non ancora nata, è tema imprescindibile per i cristiani e per la Chiesa. A prescindere dalla nazionalità e dal certificato di residenza di quel grembo».