Eugenio Corti, un figlio della Brianza “paolotta”

In occasione dell’anniversario della morte, recupero un’intervista un po’ più “privata” che feci a Eugenio Corti nel dicembre 2010 per il primo numero di Rintocchi, l’informatore trimestrale della Comunità pastorale Santa Caterina di Besana in Brianza (Monza). Dossier monografico della pubblicazione era la famiglia, e su questo tema è centrata anche l’intervista.

Dall’alto dei suoi 90 anni (che compirà il prossimo 21 gennaio), lo scrittore Eugenio Corti è un besanese un po’ speciale. Ha vissuto le trasformazioni che il nostro Paese ha subito nel corso del Novecento, passando da una civiltà contadina e di moderata industrializzazione, al mondo attuale caratterizzato dalla preponderanza delle tecnologie e dalla progressiva distacco dalle tradizioni degli avi in una società resa “omogenea” dai processi di globalizzazione. Con il rischio – concreto – di perdere di vista le proprie radici, che per l’Europa fanno riferimento senz’altro anche al cristianesimo. Ma Eugenio Corti non ha mai dimenticato i valori della società briantea, tipicamente cristiana, come documentano molte pagine del suo capolavoro, Il Cavallo rosso, così come ha vissuto attivamente le battaglie culturali del nostro tempo (basta pensare all’impegno all’epoca del referendum sul divorzio, nel 1974). E da primogenito di 10 fratelli ben conosce il modello di famiglia che caratterizzava la Brianza «paolotta», che ha subito – qui come dappertutto in Occidente – forti trasformazioni, oltre al tentativo di metterlo del tutto in discussione. Con lui ripercorriamo alcune tappe dell’evoluzione della famiglia besanese.

Il Cavallo rosso si apre con un quadro laborioso ma sereno nelle campagne alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Come vivevano le famiglie besanesi dell’epoca?

Formavano una comunità in cui la direzione del popolo era presa dalle donne, le quali erano credenti, e in funzione della loro fede cercavano di indirizzare la presenza dei figli e dei mariti in questo mondo. Posso citare l’esempio di mia madre, moglie dell’imprenditore principale del paese, ma anche di tutte le donne del paese: erano loro che indirizzavano alla religiosità la gente della Brianza. Un altro esempio tipico è stata la mamma di don Luigi Giussani, che l’ha determinato grandemente nella sua vita. In questa comunità tranquilla, operosa e poco fascista, la guerra crea uno sfacelo. Ma la religiosità della gente si percepisce anche dal senso di protezione che un personaggio del mio romanzo, Stefano, sente provenire dall’immaginetta del crocifisso di Besana nella trincea in riva al Don.

E dopo la guerra? Com’è stata la ripresa della vita civile?

Io facevo parte di una comunità di persone che si incontravano in vista della battaglia elettorale che si è svolta dopo la guerra. Era una difesa di civiltà: avvertivamo tutti, anche quelli che erano a livello di istruzione più elementare, che era in corso una battaglia in cui era coinvolta tutta la realtà del Paese. e che riguardava anche la nostra comunità locale. Se avessero vinto i “rossi” (comunisti e socialisti) il mondo di Besana avrebbe subito un tentativo di capovolgimento. Noi resistevamo a questo tentativo. Nello stesso tempo avvertivamo che eravamo parte di una comunità che poteva raccogliere voti, con effetti non solo locali ma nazionali: dovevamo raccogliere voti anche per le zone dove i cristiani non potevano farsi sentire. A guidarci erano i discorsi del Papa (Pio XII) e ciò che dicevano i nostri preti. In particolare, a Besana, esemplare era don Mario Cazzaniga, tuttora molto attivo come cappellano dell’ospedale San Gerardo di Monza.

Come è stata vissuta dalla comunità besanese la crescita del dopoguerra, il cosiddetto boom economico?

La voglia di darsi da fare c’è sempre stata tra la nostra gente. Variazioni certo sono intervenute nelle possibilità economiche, ma non avvertite come qualcosa di importante e nelle elezioni comunali gli indirizzi sono sempre stati gli stessi. Di fatto però, quel che interveniva nel resto del Paese avveniva anche qui: in particolare la perdita dell’indirizzo cristiano nella vita della gente, un cambiamento che è stato molto lento, senza che venisse avvertito. Ma se si fa un confronto tra il modo di essere oggi e quello di cinquant’anni fa, si deve constatare una grande differenza. Anche se le cerimonie religiose sono molto seguite, c’è minore disponibilità al credo della Chiesa.

Nel Cavallo rosso, è il figlio di Pierello a subire l’influenza del ’68 e della contestazione. Come sono stati vissuti quegli anni a Besana?

A determinare i cambiamenti sono stati due elementi: la televisione, soprattutto, e la scuola media, nella quale in quegli anni sono arrivati insegnanti che non erano dello stesso indirizzo dell’ambiente di qui. Fino a un po’ di anni fa, i ragazzi crescendo spesso perdevano l’indirizzo cristiano della famiglia, ma al momento del matrimonio c’era un recupero delle proprie tradizioni. Con il matrimonio, i giovani facevano inevitabilmente un confronto tra i maestri della televisione e i loro genitori. Questi ultimi, anche se culturalmente inferiori, erano molto più ricchi come figure umane. Adesso forse questo recupero si va un po’ perdendo, prevale l’interesse per i modelli e i personaggi offerti dalla televisione. È avvenuto anche a Besana quanto ha ripetutamente sottolineato papa Giovanni Paolo II: uno scollamento nella gioventù cristiana rispetto agli indirizzi ricevuti dalle loro madri e dai loro padri.

Cent’anni di Corti. Eugenio, scrittore cristiano emarginato ma di successo

Per il centenario della nascita dello scrittore besanese, il 21 gennaio è uscito questo mio articolo su Avvenire, tra le pagine della sezione Agorà, sulle iniziative avviate dalle Edizioni Ares e dal Comune di Besana in Brianza. Su Eugenio Corti ho avuto modo di scrivere anche in passato su Avvenire: una intervista quando lo scrittore compì 90 anni e un articolo per i 100 anni di don Mario Cazzaniga, personaggio tra gli ispiratori del Cavallo rosso. Altri miei articoli sono usciti in occasione della morte e del funerale dello scrittore nel 2014. Infine ripropongo il primo articolo che ho dedicato a Eugenio Corti, sempre su Avvenire nelle pagine di Agorà («Corti, 25 anni da longseller») pubblicato il 28 giugno 2008 in occasione del 25° della prima edizione del Cavallo rosso e della ristampa in tre tomi che veniva venduta allegata a Famiglia cristiana. Accennavo all’emarginazione che la critica “ufficiale” ha riservato allo scrittore cristiano e anticipavo qualche notizia su Medioevo e altri racconti che lo scrittore stava completando.

Riscoperta delle proprie radici, apertura al mondo. Oscillano tra microcosmo e macrocosmo le celebrazioni del centenario di Eugenio Corti, nato nella casa paterna di Besana in Brianza (Monza) al mattino del 21 gennaio 1921 (e dove è morto la sera del 4 febbraio 2014). Se infatti la sua città natale si appresta a valorizzarne l’opera – grazie alla collaborazione della moglie Vanda – con la creazione di un centro studi a lui dedicato, le Edizioni Ares, che hanno in catalogo l’intera produzione letteraria di Corti, hanno progettato iniziative non solo editoriali per l’intero anno del centenario per favorire la conoscenza di uno dei maggiori scrittori cattolici del Novecento italiano.

A partire da stasera, il giorno 21 di ogni mese, una diretta sui canali social delle Edizioni Ares presenterà una diversa opera dello scrittore: Il cavallo rosso, il romanzo più importante (34 edizioni, oltre 400mila copie vendute), che facendo centro sulla famiglia Riva di Nomana (trasparente trasposizione dei Corti di Besana) dipinge un grandioso affresco di storia italiana tra il 1940 e il 1974; I più non ritornano, l’esordio letterario del 1947, uno dei primi resoconti della ritirata di Russia, seguito da Gli ultimi soldati del re, l’esercito italiano che affiancò gli Alleati tra il ’43 e il ’45; la tragedia Processo e morte di Stalin, i romanzi per immagini La terra dell’indio, L’isola del paradiso, Catone l’antico; Medioevo e altri racconti; i saggi raccolti in Il fumo nel tempio e infine la memorialistica: le lettere alla famiglia dalla Russia di Io ritornerò e quelle alla fidanzata Vanda di Voglio il tuo amore. Inoltre entro la fine del 2021 Ares renderà disponibili in ebook tutte le opere di Corti.

Ma la novità editoriale più rilevante di questo “anno cortiano” di Ares è la prossima pubblicazione dei corposi Diari di guerra e di pace (1940-1949), documento notevole sia dal punto di vista storico, sia letterario, perché svelano le origini di molti episodi rielaborati nel romanzo maggiore: «I primi diari che Eugenio scrisse al fronte – spiega la moglie Vanda, che ne sta curando l’edizione – furono distrutti da lui stesso al momento di iniziare la ritirata dalla Russia, perché temeva che essendo pieni di valutazioni negative sui tedeschi avrebbero potuto essere usati dalla propaganda russa. Quando – nel 1943 – ricominciò la vita militare nel Sud Italia tra i soldati del re, riscrisse tutta la prima parte sulla base del ricordo (che addolcisce un po’ le vicende) e continuò poi a compilarli negli anni successivi, dalla ripresa degli studi in università all’elaborazione del suo primo libro I più non ritornano, uscito da Garzanti nel 1947». I diari terminano nel novembre 1949: «L’ultimo episodio è la mia visita, qui a Besana, a casa Corti. Avevo terminato gli studi all’Università Cattolica e stavo per rientrare in Umbria, in famiglia. Ed Eugenio volle che conoscessi i suoi genitori. Ci siamo sposati due anni dopo ad Assisi, celebrò don Carlo Gnocchi».

Altrettanto significativo il progetto del Comune di Besana in Brianza di trasferire nella Villa Filippini, sede anche della biblioteca civica “Peppino Pressi”, gli arredi dello studio dello scrittore, tra cui la scrivania, la poltrona, gli scaffali e alcuni oggetti: le divise militari, la medaglia d’argento al valor militare, le targhe di alcuni premi ricevuti. «Vorremmo che la città – spiega il sindaco Emanuele Pozzoli, che è anche assessore alla Cultura – assumesse maggiore consapevolezza della figura dello scrittore. Non vogliamo però che si tratti di un museo, bensì di un luogo vivo, un “Centro studi Eugenio Corti”, come ha suggerito la signora Vanda che generosamente mette a disposizione tutti questi cimeli. Un luogo dove speriamo che in futuro si possa svolgere anche la cerimonia del premio internazionale a lui dedicato (destinato a studi e tesi di laurea sulle sue opere, ndr). E la biblioteca civica, oltre a realizzare un’area cortiana al suo interno, ospiterà gran parte dei libri di proprietà di Corti, che sarà possibile consultare». Mentre la corrispondenza e i testi più importanti che gli sono serviti per scrivere i suoi libri sono già custoditi alla Biblioteca Ambrosiana, come Corti stesso desiderava.

Non si ferma qui la spinta a valorizzare l’illustre concittadino: «Nel Cavallo rosso troviamo una splendida rappresentazione della nostra storia, del nostro territorio e della nostra gente di Brianza – continua il sindaco – . Ho già parlato con la dirigente scolastica del nostro istituto comprensivo auspicando che nella scuola secondaria di primo grado possa esserci spazio per la conoscenza dell’opera di Corti. E stiamo pubblicando un numero speciale dell’informatore comunale, interamente dedicato all’autore».

Il cavallo rosso galoppa da tempo per il mondo (è tradotto in otto lingue): ora in Francia – dove Corti gode di ottima fama grazie all’editore Vladimir Dimitrjievic e al professor François Livi – la casa editrice Noir sur blanc ha cominciato dal romanzo maggiore la pubblicazione dell’intero corpus dello scrittore besanese.

Corti, 25 anni da longseller

Venticinque anni dopo la prima edizione, Il cavallo rosso di Eugenio Corti continua la sua corsa per le librerie, e (ora) le edicole: un vero e proprio “longseller” che è giunto ormai alla ventitreesima ristampa. Quasi un prodigio editoriale per un romanzo di 1270 pagine e privo del sostegno promozionale degli editori che contano (è pubblicato dalle Edizioni Ares di Milano). Eppure, anno dopo anno, edizione dopo edizione, questo scrittore cristiano, estraneo ai “salotti culturali”, ha venduto in Italia oltre trecentomila copie del suo maggior romanzo, che vanta anche un bel numero di traduzioni: in spagnolo, francese, inglese, romeno, lituano, persino giapponese; mentre sono in preparazione quelle in olandese, polacco e serbocroato. «Non dimentico la febbrile attesa della prima edizione, nel maggio 1983 – rievoca Corti -. La stampa era finita, la copertina no: così quindici libri furono lucidati a mano perché potessi consegnare la prima copia a papa Giovanni Paolo II in visita a Desio». E ora, quasi a suggello del venticinquesimo anniversario, la prossima settimana uscirà con Famiglia Cristiana un’edizione (altre cinquantamila copie) in tre tomi, corrispondenti ai tre volumi di cui il romanzo si compone.

Eugenio Corti, nato nel 1921 a Besana in Brianza (Milano), ha fatto parte di quella gioventù che nel 1940 si trovò catapultata sui diversi scenari di guerra, proprio come molti dei personaggi del romanzo. Scampato alla morte nella ritirata dal fronte russo (raccontata nell’opera I più non ritornano del 1947, ora reperibile nella Bur), ha combattuto ancora tra i reparti dell’esercito regolare che hanno accompagnato gli Alleati nella liberazione dell’Italia (materia del suo Gli ultimi soldati del re). Dal dopoguerra in poi ha visto le trasformazioni di una società che, modernizzandosi, ha via via perso quell’impronta cristiana che caratterizzava gran parte dell’Italia, certamente la Brianza dei “paolotti”. Corti sente di dover contribuire alla battaglia per il Regno (di Dio), come aveva promesso in un momento tragico della ritirata di Russia. «L’idea del Cavallo rosso – spiega Corti – era di rendere la realtà dell’uomo del mio tempo con un romanzo storico contemporaneo. Credo nel valore del romanzo: il completamento della fantasia serve a rendere la realtà storica in modo più compiuto. Se vogliamo ricordare la peste del Seicento a Milano, infatti, pensiamo ai Promessi Sposi e non alla Storia della colonna infame». Assoluto però resta il rispetto della verità: «Anche se non volevo entrare nel romanzo come voce narrante, gran parte delle vicende che racconto le ho vissute in prima persona, ma le ho distribuite tra i vari personaggi. Che hanno tutti tratto spunto da persone reali».

Facendo centro sul microcosmo cristiano di Nomana, Corti accompagna Ambrogio, Stefano, Manno, Michele, Alma, Giustina, Colomba, Fanny nei risvolti lieti e dolorosi della vita e compone un grandioso affresco delle vicende del nostro Paese dal 1940 al 1974. Ciò che non è autobiografico è stato scrupolosamente verificato: Corti ha perlustrato le coste della Tunisia per riferire della traversata di uno dei protagonisti dall’Africa così come ha percorso migliaia di chilometri in Paraguay per documentarsi sulle Riduzioni dei gesuiti (ambiente del romanzo La terra dell’indio, il primo dei “racconti per immagini”, seguito da L’isola del paradiso e Catone l’antico). «I tre volumi del Cavallo rosso sono intitolati con espressioni tratte dall’Apocalisse: il cavallo rosso simboleggia la guerra, il cavallo livido (verdastro dice il testo biblico) raffigura la guerra civile, mentre l’albero della vita indica il ritorno della pace che sempre segue anche le vicende più tragiche». E la conclusione del romanzo, con la salvezza ultraterrena anche dei malvagi, ci ricorda che «la Provvidenza sa far nascere il bene anche dal male».

Nella tragedia Processo e morte di Stalin (con la geniale intuizione del dittatore sovietico eliminato dal una congiura dei suoi fedelissimi) e in altri testi di saggistica Corti ha messo a frutto la conoscenza del comunismo acquisita in Russia per cercare di illuminare sugli orrori di un mondo che voleva fare a meno del cristianesimo. Sono opere che hanno decretato l’emarginazione di Corti, ma se la critica “ufficiale” lo ignora, il sostegno dei lettori non è mai venuto meno a questo cantastorie, come gli piace definirsi: i raccoglitori nel suo studio conservano migliaia di lettere di ammirazione giunte da tutto il mondo. All’estero le opere di Corti hanno trovato ottima accoglienza, soprattutto in Francia: numerose sono le ristampe e tra i lettori entusiasti del Cavallo rosso si può annoverare anche il cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione. Con 87 primavere sulle spalle, Eugenio Corti continua il suo lavoro di narratore: «Scrivo sempre prima a matita (ne ha una schiera sulla scrivania, ndr) e poi batto il testo, un tempo a macchina ora al computer. Ora sono alla seconda stesura di una storia ambientata nel mio amato Medioevo, l’epoca delle cattedrali gotiche, che ha come protagonista una monaca, antenata della famiglia di mia moglie, che fondò un ordine francescano femminile dedito alla vita attiva e non solo a quella contemplativa». Il soldato del Regno è ancora in servizio.

Università di Pavia, le immagini di una cronaca che diventa storia

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Salone Teresiano, Biblioteca Universitaria di Pavia

Cultura, politica, goliardia: quasi un secolo di immagini e notizie erano raccolti nella mostra documentaria e fotografica «Il tempo di uno scatto. Personaggi celebri in visita all’Università di Pavia», che è stata ospitata nel Salone Teresiano della Biblioteca Universitaria a Pavia (Corso Strada Nuova, 65). Dall’inaugurazione del monumento agli universitari caduti durante la Grande Guerra (nel giugno 1922) alla presenza del duca d’Aosta Emanuele Filiberto di Savoia, sino al conferimento della laurea honoris causa all’astronauta Samantha Cristoforetti da parte del rettore Fabio Rugge (nel 2017) i visitatori illustri di cui si registra la presenza spaziano dalle più alte cariche istituzionali (re, presidenti della Repubblica, ministri e capi di governo) a esponenti del mondo della cultura, dell’arte e della scienza, sino a capi religiosi, quali i papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

La prima testimonianza è anteriore all’inizio del regime fascista: nel primo dopoguerra il comandante della “invitta” Terza Armata presenziò all’inaugurazione di un monumento che era stato concepito sin dal 1917 per onorare docenti e studenti caduti in guerra e che dal 1920 lo scultore Alfonso Marabelli aveva iniziato a realizzare. Per coprire le spese si erano mobilitati anche gli studenti: fu pubblicato un numero unico della rivista “Riso e… crape” al costo di 2 lire per raccogliere i fondi necessari (lo scultore lavorò gratis). Tre anni dopo fu la volta di Vittorio Emanuele III: nel maggio 1925 il re visitò Pavia per partecipare ai festeggiamenti per l’XI centenario dell’università. Le foto d’epoca lo mostrano su un cocchio trainato da quattro cavalli sfilare per le vie del centro e il quotidiano La Provincia Pavese pubblicò un ricordo del professor Archia Poderini, che rievocava l’iniezione di fiducia che rappresentò per i soldati il passaggio dell’auto del sovrano fra le truppe in ritirata dopo Caporetto. Alla piena epoca fascista – oltre dieci anni dopo – risalgono le successive visite di esponenti politici di primo piano, tutte caratterizzate da una tappa al monumento ai caduti. Dopo il principe Umberto di Savoia nel maggio ’36, è curioso notare che la visita del capo del governo Benito Mussolini nel novembre ’36 fu seguita a breve distanza (due mesi) da quella del maresciallo Pietro Badoglio, una successione che prefigura quella alla guida dell’esecutivo, che avverrà solo sei anni e mezzo più tardi.

Più attinenti alla vita accademica due altri appuntamenti commemorativi. Nel 1939, in occasione del 140° anniversario della morte, l’università celebra Lazzaro Spallanzani con un convegno scientifico e l’inaugurazione della statua nel cortile centrale del palazzo di Strada Nuova. Per l’occasione giungono a Pavia il duca di Bergamo, Adalberto di Savoia, e il ministro della Giustizia Arrigo Solmi (già rettore dell’Università di Pavia quando ci fu la visita del re). Il convegno scientifico ricorda gli studi del pioniere della fecondazione artificiale animale del biologo (e gesuita) che insegnò a Pavia negli ultimi trent’anni della sua vita e fu anche rettore dell’ateneo. Nel giugno 1942 in onore di Contardo Ferrini – nel 40° della morte – si svolge il convegno nazionale di diritto romano, che porta a Pavia insigni giuristi da tutta Italia. Nel consueto brulicare di camicie nere e di alti papaveri del regime, che si osservano nelle foto, c’è da sperare che almeno monsignor Cesare Angelini, rettore del collegio Borromeo che nel cortile commemorò l’antico allievo, abbia ricordato la figura di fervente cristiano di Ferrini, di cui era in corso il processo canonico che cinque anni dopo doveva portarlo agli onori degli altari.

Passata la guerra, sono documentate due visite del presidente della Repubblica Luigi Einaudi: nel 1951 e un mese prima della scadenza del suo mandato, nell’aprile 1955. Oltre alle foto e alla prima pagina della Provincia Pavese sono esposti il telegramma di ringraziamento del presidente in occasione della prima visita e il biglietto di invito alle cerimonie firmato dal rettore Plinio Fraccaro in occasione della seconda, quando a Einaudi venne conferita la laurea honoris causa in Scienze politiche. Lo stesso titolo onorifico fu conferito al presidente Giovanni Gronchi, giunto a Pavia nell’ottobre 1961 in occasione delle solenni celebrazioni per i 600 anni dell’Ateneo: è esposta anche una pergamena in latino, composta da Enrica Malcovati, che compie un excursus sulla storia dello Studium Generale citando alcune delle figure che gli diedero maggior lustro.
Per restare alle cariche istituzionali, sono documentate le visite anche dei presidenti Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano (manca la documentazione sulla veloce visita di Francesco Cossiga nel maggio 1986), di un presidente del Consiglio (Amintore Fanfani) e di un ministro (Alfredo Biondi), nonché del re di Svezia, Gustavo VI Adolfo, noto appassionato di archeologia. In particolare la visita di Fanfani (nel 1962) si segnala per l’inaugurazione del collegio universitario del governo italiano “Luigi Rocchetti Bricchetti”, destinato a ospitare borsisti di Paesi stranieri, prevalentemente africani. Nonostante la lungimiranza, l’iniziativa, promossa dall’entomologo Mario Pavan, ebbe vita breve: nella primavera del 1964 fu chiuso dal ministero degli Esteri perché «i risultati non avevano risposto alle aspettative».

Il papiro goliardico per Enzo Ferrari
Il papiro goliardico per Enzo Ferrari

Un’ampia sezione della mostra viene a rievocare invece una tradizione che intrecciava goliardia e fama culturale. Grazie a un gruppo di ex studenti dell’università di Pavia, era nata nel 1961 l’Associazione laureati ateneo ticinense (Alat), che tra le sue attività aveva inaugurato la tradizione di conferire il titolo di “matricola ad honorem” a una nota personalità del mondo della scienza, delle lettere o delle arti. Il primo a ricevere il premio fu nel 1963 lo scrittore Riccardo Bacchelli, seguito dal chimico Giulio Natta, dal musicista Herbert von Karajan, dal sociologo Salvador de Madariaga, dallo scienziato Albert Bruce Sabin, dall’ingegnere Pier Luigi Nervi, dall’ingegnere Enzo Ferrari, dal cineasta Federico Fellini, dallo scrittore Georges Simenon (ritirato dall’attore Gino Cervi), dal pittore Giorgio De Chirico, dal fisico Emilio Segrè, dal musicista Gianandrea Gavazzeni, dal filosofo Norberto Bobbio e dall’editore Valentino Bompiani. Il cerimoniale di queste giornate prevedeva, dopo i discorsi del rettore e del presidente dell’Alat in Aula Magna, sia l’imposizione del cappello goliardico (curiose le foto di Sabin e di von Karajan), sia il dono di una targa con la Minerva d’oro (incisione dello scultore Francesco Messina, che concesse all’Alat l’uso esclusivo della matrice) e di un papiro goliardico, opera dell’illustratore Giuseppe Novello. Tra i papiri più originali quello per Enzo Ferrari, in cui la statua di Alessandro Volta si china verso l’ingegnere che mostra una sua auto, e quello per Albert Sabin, in cui è un bambino sorretto dalle braccia del rettore dell’università a imporre il cappello goliardico allo scienziato. Inoltre veniva assegnato al più anziano laureato presente alla cerimonia il Goliardone, berretto con i nastri dei colori di tutte le facoltà. Un docente presentava la figura dell’illustre premiato, che veniva poi accompagnato in corteo e sulle note dell’inno goliardico fino alla piazza Leonardo da Vinci: qui a 50 metri d’altezza sulla torre dell’orologio (gli ultimi dalla torretta della Specola) veniva srotolato il gonfalone del Gran Pavese con il nome della matricola d’onore a caratteri cubitali. Infine un banchetto, accompagnato dalla goliardia.

L’ultima parte della mostra presentava una serie più varia di visitatori illustri ed eventi: il conferimento della medaglia teresiana al fisico Carlo Rubbia e all’astronauta Samantha Cristoforetti, il premio internazionale Wendell Krieg Lifetime Achievement Award alla scienziata Rita Levi Montalcini, la laurea honoris causa al musicista Riccardo Muti e all’artista Moni Ovadia, la presenza del giornalista Indro Montanelli in occasione dell’inaugurazione della nuova sede del Fondo Manoscritti avviato da Maria Corti. Infine, particolare emozione mi suscitano le testimonianze sulle visite di Giovanni Paolo II (accolto dal rettore Alessandro Castellani) e di Benedetto XVI (rettore Angiolino Stella). Il primo giunse a Pavia il 3 novembre 1984 nel corso del suo viaggio in Lombardia per il quarto centenario della morte di san Carlo Borromeo: e nel suo discorso a professori e alunni, oltre a ricordare l’arcivescovo di Milano laureatosi in utroque iure all’università di Pavia e promotore del collegio che porta il suo nome, difese l’importanza dell’incontro tra fede e cultura. Ma il ricordo personale è quello dell’attesa gioiosa di noi studenti nei cortili del Palazzo centrale dell’università per il passaggio del Pontefice che, cordiale come sempre, strinse le mani a tutti (almeno a chi riuscì ad avvicinarsi alla prima fila). Il secondo, nel corso della sua visita pastorale alle diocesi di Pavia e di Vigevano, il 22 aprile 2007 nell’incontro con il mondo della cultura rievocò la figura a lui tanto cara di sant’Agostino da Ippona, copatrono dell’Ateneo pavese (e le cui spoglie sono conservate a Pavia nella chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro) e ribadì l’importanza dell’incontro «tra cultura ecclesiastica e laica», che nel corso della storia favorì il cammino del sapere nelle università.

La mostra è stata voluta dal direttore dell’Archivio storico di Ateneo, Fabio Zucca, e ideata e curata da Roberta Manara, con Alessandra Baretta e Maria Piera Milani. Realizzata in collaborazione con la Biblioteca Universitaria, l’Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea e il Centro interdipartimentale di ricerca e documentazione sulla storia del Novecento, era una miniera di notizie e curiosità e spiace solo che sia rimasta aperta meno di due mesi e fosse priva di catalogo. C’è da sperare che almeno parte del materiale venga utilizzato dalla meritoria e accurata storia dell’università di Pavia, Almum Studium Papiense, che gli studiosi coordinati da Dario Mantovani (docente di Diritto Romano e presidente del Centro per la storia dell’Università di Pavia) stanno preparando dal 2011, un progetto nato in occasione della celebrazione dei 650 anni dell’ateneo. Siamo infatti in attesa del terzo volume (come i precedenti articolato in due tomi) che sarà dedicato al Novecento: è una trattazione più orientata agli aspetti istituzionali e scientifico-accademici, ma che non trascura approfondimenti su singoli documenti o personaggi. E la mostra ha dato un’ampia testimonianza del vivace e duraturo rapporto dell’Università di Pavia con il tessuto sociale e culturale dell’intera nazione.

Perché il nostro mondo tecnologico non può fare a meno dei classici

20180403_184317Di classici si parla spesso, a intervalli ricorrenti, ripetendo interrogativi antichi di secoli sull’opportunità di continuare a dedicare loro spazio, rispetto alla possibilità di privilegiare – soprattutto a scuola – argomenti e materie più vicine all’attualità, ritenute più utili per il mercato del lavoro. Nel dibattito si mescolano due aspetti: conoscenza delle lingue classiche (sostanzialmente latino e greco) e conoscenza dei testi classici, anche se è evidente che, abolendo o limitando la conoscenza della lingua, si restringerebbe anche la possibilità di apprezzare testi e messaggi delle letterature classiche. Sul fronte della lingua non sono mancati i difensori: per citare solo i più recenti, Andrea Marcolongo per il greco e Nicola Gardini per il latino. Invece ai contenuti, alla conoscenza dei classici in quanto patrimonio di cultura è prevalentemente dedicato  l’agile volume Ritorno ai classici. Dieci saggi, edito lo scorso anno da Vita & Pensiero, che riunisce articoli di autori diversi, pubblicati tra il 2005 e il 2017 sulla rivista Vita&Pensiero (con prefazione di Alessandro Zaccuri) talora allargando lo sguardo fino agli autori delle letterature moderne. Storici. filosofi, letterati, poeti, insegnanti, ma anche un biblista e due scienziati: tutti sostanzialmente concordi nel ritenere un bene per la nostra società conoscere opere scritte da alcuni degli ingegni più alti che l’umanità abbia avuto e tenere in considerazione i valori che hanno espresso. Che ci sia sempre stato chi vuole fare tabula rasa del passato è dimostrato da Cicerone, che sosteneva (Orator 34, 120) che non conoscere ciò che è accaduto prima di noi significa rimanere eterni bambini. In tempi molto più recenti, Italo Calvino nel suo famoso articolo «Perché leggere i classici» (1981) proponeva ben 14 definizioni e concludeva che «la sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici». Mi piace però aggiungere la definizione di testo classico che proponeva già nel 1980 l’italianista Paolo Paolini, che fu anche mio professore al liceo: «Un libro che a ogni lettura rivela nuovi significati, nuovi aspetti e nuove sfumature, dà nuove risposte, in definitiva regala nuova bellezza». Parole che prefiguravano la definizione numero sei di Calvino: «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire».

Nel volume di Vita&Pensiero si parte con il saggio del cardinale Gianfranco Ravasi, che esamina l’incontro tra classici (greci e latini) e Nuovo Testamento. Lungi dal volerli contrapporre, Ravasi segnala – sintetizzando osservazioni di Giovanni Paolo II – che «la Bibbia si presenta modello di inculturazione o acculturazione sia a livello linguistico, sia in ambito letterario (si pensi ai generi letterari), sia nell’orizzonte ideale. E su questa via s’incamminò la tradizione cristiana».

L’italianista Claudio Scarpati osserva che «i classici contengono figure, meditazioni, vicende attraverso cui le generazioni che ci hanno preceduto sono passate, hanno tentato di decifrare il mondo e di penetrare nel groviglio degli interrogativi che l’uomo si pone quando è lucido e libero». Ed esorta ogni insegnante a non demordere nel proporre i testi classici: «Se concede agli studenti la stima che meritano, può ritenerli degni di andare con il suo aiuto incontro a testi che hanno sollecitato l’attenzione di chi li ha letti in passato e ha trovato in essi qualcosa di rilevante per la propria esistenza. Sono i testi che parlano, più di colui che li propone».

La storica Cinzia Bearzot ritiene che del patrimonio della cività occidentale (fatto di concetti, valori e discipline) «è necessario alimentare la memoria per mantenere viva, attraverso di essa, un’identità consapevole». Riprendendo concetti già di Antonio Gramsci la studiosa spiega che «senza la memoria del passato, il presente diviene incomprensibile», e «non c’è identità senza conoscenza del proprio passato e senza un confronto critico con esso». La conoscenza del greco e del latino «è uno strumento imprescindibile di confronto interculturale, che permette di accedere a un patrimonio immenso di testi e di penetrare criticamente nel pensiero e nella cultura degli antichi, individuando le continuità e riconoscendo le alterità, senza accontentarci di una conoscenza superficiale degli elementi costitutivi della nostra tradizione culturale».

Il poeta Valerio Magrelli propone di ritornare ai classici in modo più libero, per scelta e non per dovere scolastico. Ma aggiunge che bisognerebbe ritradurre i classici. Traduzioni che datano a quaranta, cinquant’anni fa non sono più percepibili: il salto linguistico è troppo ampio: «Sarebbe straordinario se la scuola riattivasse tutta l’ampiezza dello spettro espressivo della letteratura greca e latina. Sono convinto che si otterrebbe, da parte dei ragazzi, una risposta entusiastica».

Il filosofo Dario Antiseri, richiamando la teoria ermeneutica di Hans-Georg Gadamer, sottolinea che «tutta la ricerca scientifica avanza sul sentiero delle congetture e delle confutazioni, procede per trial and error». E poiché si impara dall’errore «si comprende l’urgente necessità di una didattica che punti sui problemi più che sugli esercizi, che insista sullo sfruttamento pedagogico dell’errore e che sempre in vista della costruzione di menti critiche, investa su pratiche didattiche come: il tema argomentativo, versioni di greco e di latino, il riassunto, esperienze di storiografia locale». Tutte «preziose pratiche ermeneutiche e, dunque autentiche pratiche di tipo scientifico».

L’umanista Carlo Carena, che alla sua veneranda età mostra di apprezzare i benefici dello strumento Internet, non manca però di ammonire che in un tempo che sembra freneticamente lanciato in avanti «il classico ha bisogno per eccellenza di ascolto e di riflessione, è fermo nella sua costituzione, tanto profonda è la sedimentazione della tradizione e del mestiere presenti nelle sue pagine; tanto complesso e vasto è il suo modello antropologico».

Da scienziato, Alberto Oliverio ammonisce che «l’entusiasmo nei confronti della tecnologia […] non può comportare un’ignoranza dei valori insiti in una cultura classica. La lettura dei classici greci e latini consente infatti un’approfondita comprensione dei rapporti umani, della politica, dei valori». La cultura classica è importante anche per scienziati e tecnologi – avverte – «il cui pensiero non può essere monodirezionale». Allo stesso tempo suggerisce di superare la separazione tra le «due culture» trascinando il lettore «nei campi della scienza attraverso il cavallo di Troia della scrittura creativa, coinvolgendolo emotivamente in trame e vicende che derivano da un ambito indubbiamente poco noto ai profani qual è il mondo della scienze e delle tecnologie».

Paola Mastrocola, insegnante e scrittrice, difende l’importanza della conoscenza delle parole, con la loro «ricchezza polisemica e simbolica»: «Vorrei che i ragazzi non perdessero la capacità di capire e usare le parole. Ecco perché vorrei che studiassero latino e greco, in tanti, il maggior numero possibile» e che «al centro ci fosse sempre la traduzione, la sfida più difficile». Nello specifico, «il latino e il greco mi sembrano lo strumento ideale per acquisire quell’attenzione alle sfumature lessicali, all’etimologia, ai legami logici, all’architettura delle frasi, alle sottigliezze infinite del senso, insomma tutto ciò che ci consente di “capire” davvero», non solo un testo greco, ma qualsiasi libro.

La grecista Antonietta Porro osserva che la tradizione non è «un motore immobile» e «la nostra tradizione classica ha generato opere d’arte, letteratura, forme di pensiero diverse nel tempo, perché essa è stata modificata dalla sua ricezione, cioè dalla relazione con il tempo, con la storia». Quanto al liceo classico, accostare le civiltà antiche senza la conoscenza della lingua, nasconde l’insidia di abolirne di fatto lo studio: «La lingua è, nel caso delle scienze dell’antichità, lo strumento ineludibile per introdursi alla civiltà ed è testimonianza essa stessa della mentalità che la esprime».

Infine il fisico Guido Tonelli ribadisce che «una formazione basata sulle traduzioni dal greco e dal latino addestri meglio la mente duttile dei giovani all’uso implacabile della logica; che è lo strumento principe con cui si sviluppano discipline che solo apparentemente sembrano così diverse fra loro, come la filosofia e la fisica». E aggiunge: «Di cultura umanistica c’è bisogno per far progredire la società, per definirne gli scopi, e per dare un senso e umanizzare lo stesso processo scientifico». Concludendo: «Oggi la scienza progredisce a ritmo incalzante. Chi allora, se non i filosofi, gli umanisti, gli artisti, potrà dare senso all’esistenza umana nell’epoca del dominio della scienza e della tecnologia?».

Parole che mi sembrano da sottoscrivere pienamente, anche se probabilmente il dibattito è destinato a non terminare mai.

Prendersi cura della vita, questione di virtù 

In vista del workshop in programma venerdì 4 marzo in Vaticano e dedicato alle virtù nell’etica della vita, mia intervista al cancelliere della Pontificia Accademia per la via, monsignor Renzo Pegoraro, pubblicata oggi su Avvenire

pegoraroUna discussione alta, sui princìpi fondamentali che stanno a monte dell’agire morale dell’uomo, in modo che sia orientato al bene della persona nei contesti concreti della tutela della vita che caratterizzano le professioni del medico, dell’infermiere, del ricercatore. È il filo conduttore del workshop della Pontificia accademia per la vita (Pav) in programma domani in Vaticano, che ci viene illustrato dal cancelliere monsignor Renzo Pegoraro: «Potremmo definirlo il contributo della Pav al Giubileo della Misericordia ». L’appuntamento si inserisce all’interno dei lavori dell’annuale assemblea generale della Pav, che si svolgerà da oggi a sabato, con l’importante introduzione – questa mattina – dell’incontro con papa Francesco. Intitolato «Le virtù nell’etica della vita», il workshop è articolato in tre sessioni dedicate rispettivamente alla «Dinamica dell’agire morale e il suo compimento nelle virtù» (moderata da Fernando Chomali e Monica Lopez Barahona), alla «Prospettiva delle virtù nell’etica biomedica» (moderata da John Haas e Mounir Farag) e alla «Riscoperta delle virtù» (moderata da Adriano Pessina e Laura Palazzani). «Cercheremo di riflettere – spiega monsignor Pegoraro – sulle modalità per prendere decisioni attente al contesto reale, al vissuto della vita umana specialmente quando è malata, quando occorre prendersi cura, assistere, accompagnare. Un tema che si collega alle encicliche Evangelium vitae di Giovanni Paolo II e Laudato si’ di Francesco».

Il tema delle virtù ha infatti risvolti specifici nell’azione di cura: «Affronteremo la questione dell’agire del soggetto morale, specificamente riferendoci alle caratteristiche del buon medico, del buon infermiere, del buon ricercatore. E saranno riprese anche alcune questioni antropologiche di fondo: come trovare i contenuti ed elaborare le indicazioni etiche perché l’atteggiamento e il carattere della persona trovino la soluzione giusta, il bene, secondo verità e responsabilità». «Ci concentreremo sull’umano – continua monsignor Pegoraro – seguendo le indicazioni, che venivano già da Giovanni Paolo II, poi da Benedetto XVI e da Francesco, per vedere come nella bioetica possiamo trovare un dialogo e il recupero della tradizione filosofica e teologica, ma anche della tradizione dell’etica medica e dell’etica infermieristica, da Ippocrate in poi. Declinando in particolare le virtù che sono coinvolte nel campo dell’etica della vita, della medicina e della cura: compassione e misericordia, giustizia, professionalità, prudenza».

Il workshop ribadirà la necessità di «recuperare una corretta visione antropologica su che cosa sia la persona umana e il bene dell’uomo, di fronte a correnti filosofiche ed etiche basate più sulla procedura formale, oppure che valutano il giudizio solo sulle conseguenze dell’azione, trascurando i valori di partenza, oppure che giustificano le decisioni solo in relazione a un bilanciamento dei beni in gioco». Anche perché «non è solo questione di procedure, di metodo, ma anche di sostanza e occorre recuperare il rapporto tra ragione e sentimenti, perché l’essere umano ritrovi una sua unità nel capire quale sia il bene e nel riuscire a farlo». Non è poco, in un’epoca che sembra voler mettere in discussione i dati più naturali, quale il maschile e il femminile: «Talora alcuni dati vengono travisati per motivi di matrice ideologica, cioè una visione delle cose che vuole forzare la realtà, in cui si incrociano fattori economici, fattori sociali, e speculazioni di varia natura. Per guardare al mondo umano riconoscendolo come umano, diventa interessante la categoria, che appare nell’enciclica Laudato sì,dell’ecologia umana integrale. Il Papa vede una stretta connessione tra ecologia ambientale, ecologia sociale, ecologia economica. Se parliamo di rispetto dell’ambiente, della natura, del creato, come garantire anche un rispetto dell’essere umano in quanto tale? C’è molta attenzione verso le forme della natura, dell’ambiente, del creato e poi rischiamo di commercializzare o compromettere l’equilibrio umano». Nel contesto attuale, c’è anche chi tende a confondere l’eccezione (crescere con una mamma e una zia) con la regola (far adottare un bambino da due donne): «Non si può impostare una riflessione seria e profonda su casi estremi o particolari a cui si cerca poi di provvedere. Un conto è cercare di rimediare agli ostacoli o ai danni della natura, delle colpe dell’uomo, delle vicende della vita; un altro è partire con questa prospettiva, creando ulteriori situazioni difficili da gestire. Il minore è quello che deve essere sempre protetto e tutelato; nella vita si possono recuperare anche situazioni svantaggiate, ma non è corretto crearle fin dall’inizio, c’è la responsabilità di offrire le migliori condizioni possibili. Per capire l’umano occorre recuperare il valore della corporeità, il senso dell’equilibrio e del rispetto, il senso della giustizia, della responsabilità, della donazione, del limite. Non contano solo il desiderio o la libertà, ma come questi cercano la verità e il bene».