Non solo filologia, c’è vita quotidiana negli “scartafacci” raccolti da Maria Corti

Affascinante e curiosa, ricca di suggestioni sia per lo studioso sia per il comune lettore la mostra “Scartafacce”, che si è chiusa domenica 29 ottobre allo Spazio per le arti contemporanee del Broletto di Pavia. Il suo difetto maggiore, forse l’unico, è proprio la breve durata dell’esposizione, solo tre settimane. Una visita anche veloce consentiva di rendersi conto di quale patrimonio sia conservato nel Fondo manoscritti dell’Università di Pavia, inaugurato cinquant’anni fa per volontà di Maria Corti, alla quale la mostra rendeva un doveroso omaggio.

“Scartafacce” è un titolo che rievoca la contesa tra Benedetto Croce e Gianfranco Contini, con il primo che sottovalutava l’importanza dello studio delle varianti nelle versioni provvisorie (definite appunto “scartafacci”), prima che le opere raggiungano la forma definitiva, fissata nella stampa. Del resto era un filosofo e non un filologo. Inutile dire che, nel lungo periodo, negli studi di letteratura italiana abbia avuto la meglio la linea continiana, valorizzata dalla scuola pavese: basta pensare a Dante Isella. E l’intuizione di Maria Corti di raccogliere gli autografi degli scrittori, soprattutto novecenteschi, è lì a testimoniare l’importanza dello studio sviluppato a partire dagli “scartafacci”. Su cui si fonda l’attuale filologia d’autore.

La ricchezza della documentazione, insieme con la sua eterogeneità, viene suggerita dal sottotitolo: “Le mani, i volti, le voci della letteratura italiana del ‘900 nelle collezioni del Centro Manoscritti dell’Università di Pavia”. Il materiale esposto comprendeva: copie calligrafiche, brogliacci quasi illeggibili, pagine piene di correzioni e pagine pulite, lettere, appunti, libri e disegni, questi ultimi una vera e propria miniera di sorprese. A contorno, erano presenti alcune fotografie di Carla Cerati ad alcuni esponenti del mondo letterario, che fanno parte di una donazione della stessa fotografa e narratrice al Centro manoscritti di Pavia. In più, si potevano ascoltare anche alcune registrazioni delle voci di protagonisti.

La prima parte della mostra raccoglie le testimonianze della corrispondenza degli autori con Maria Corti e offre interessanti notizie sul crescere della raccolta. Alle prime carte ricevute all’italianista pavese per amicizia da Romano Bilenchi, Carlo Emilio Gadda ed Eugenio Montale, e da lei donate al Fondo, si sono via via aggiunti manoscritti di autori che hanno capito che di questo originale, ma qualificato e innovativo progetto era meglio fare parte che stare fuori. Come mostra lo sforzo di alcuni di loro a reperire nei proprio archivi quanto richiesto con gentile insistenza da Maria Corti: da Vittorio Sereni a Paolo Volponi, da Italo Calvino ad Andrea Zanzotto. Fino a Maria Luisa Spaziani, di cui si rivela, su un semplice biglietto di accompagnamento, l’ex libris, disegnato niente meno che da Eugenio Montale. Altri, come il critico Enrico Falqui, trova opportuno donare al Fondo pavese materiali in suo possesso, come un manoscritto di Camillo Sbarbaro «un’assoluta rarità». E molte lettere offrono indicazioni utili anche a ricostruire la genesi di alcune opere.

Originale la scelta dei curatori (Giovanni Battista Boccardo, Federico Francucci, Federico Milone, Giorgio Panizza, Nicoletta Trotta) di esporre i materiali non secondo un ordine cronologico, ma secondo i valori che Italo Calvino (nel suo Lezioni americane, 1984) riteneva che la letteratura potesse trasmettere: leggerezza, rapidità, molteplicità, esattezza, visibilità, coerenza. Di sezione in sezione, i piacevoli incontri non si contano. In “Esattezza” colpisce il frontespizio calligrafico studiato da Giuseppe Ungaretti per il suo Sentimento del tempo.

“Visibilità” è la sezione forse più entusiasmante grazie alle illustrazioni che non pochi autori hanno lasciato nei loro appunti. Non solo quelli noti come pittori: spettacolari i messaggi illustrati da Dino Buzzati, che sin da studente inventa un geroglifico cifrato con l’amico Arturo Brambilla, che diventa un alfabeto segreto tra i due, decifrato solo nel 1991 da Massimo Depaoli. Curiose anche le lettere in forma di calligramma di Gio Ponti, o i biglietti di Montale alla fida Gina Tiossi o, ancora, il taccuino di Ennio Flaiano.

La sezione “Leggerezza” si riferisce ai materiali su cui hanno scritto: dai bloc notes dell’ufficio stampa Pirelli, dove Vittorio Sereni lavorava, ai pacchetti di sigarette con gli appunti di Luigi Meneghello; dal calendario da tavolo riempito da parti del romanzo di Guido Morselli all’incredibile uso che Umberto Saba fece di un manoscritto settecentesco: riempì lo spazio bianco con il testo di due sue poesie.

“Coerenza” richiama l’organizzazione che gli autori hanno voluto dare alle loro opere: molte le scalette esposte, quelle che le maestre hanno sempre consigliato agli alunni prima di scrivere un tema. Intrigante l’indice ragionato di Claudio Magris per il suo Danubio, con i colori diversi a indicare diversi piani dell’opera, o le prove di Umberto Saba per organizzare le sezioni del Canzoniere. “Molteplicità” indica l’opera come processo: sono esposte le numerose versioni di Giorgio Manganelli o la composizione sofferta di Mario Rigoni Stern del suo Sergente nella neve. La sezione “Rapidità” passa dai fogli riempiti dalla scrittura tumultuosa di Natàlia Ginzburg al diario-zibaldone di Ottiero Ottieri.

La mostra si chiudeva con il video di un’interessante intervista a Maria Corti, che spiega le radici del Fondo, e ne illustra alcune ricchezze, fino a porsi, già più di vent’anni fa (la docente è morta nel febbraio 2002) alcune domande sul futuro della filologia dei testi letterari in un mondo in cui anche gli scrittori ormai privilegiano la tastiera del computer. Un tema che verrà affrontato nel convegno Le carte immateriali. Filologia d’autore e testi nativi digitali, in programma a Pavia nel dicembre 2023, appuntamento in cui culmineranno le celebrazioni del cinquantenario del Fondo manoscritti, fa sapere Giuseppe Antonelli nella presentazione del catalogo della mostra (Interlinea edizioni, pagg. 196, € 20. In copertina, qui a fianco, la composizione grafica di Sara Filippi, dedicata a Maria Corti).

Dal “possidente” Verdi al filologo Isella, sino alle edizioni dei classici greci e latini

Ieri sulla prima pagina della “Domenica” – supplemento culturale del Sole-24Ore – compariva un articolo dedicato a Giuseppe Verdi, nel suo ruolo di attento amministratore dei suoi cospicui beni, frutto principalmente della sua capacità di far rendere la sua produzione musicale grazie ai diritti d’autore. Giuseppe Martini, segretario scientifico dell’Istituto nazionale di studi verdiani, apre uno squarcio sulla gestione dei bilanci del musicista negli anni tra il 1888 e il 1894, illustrata nel libro Il taccuino finanziario di Giuseppe Verdi (Egea, pagg. 369, €38). Dall’ordinata contabilità tenuta dal maestro emerge – rileva Martini, curatore del libro – quanto Verdi fosse attento al suo patrimonio, ma tutt’altro che tirchio. Anzi, era pronto ad aiutare chi aveva bisogno (basta pensare alla Casa di riposo per musicisti che volle realizzare a Milano) e si stupiva che una signora milionaria non aiutasse la cognata rimasta vedova. Così come non voleva lasciare debiti, anche minimi: il pagamento dimenticato di due caffè e due panetti al bar della stazione causò un pronto intervento epistolare per rimediare.

Queste osservazioni mi ricordano alcuni cimeli presenti nella sua dimora di Villanova d’Arda (Piacenza): sia il blocchetto di buoni riservati ai senatori per viaggiare gratis in treno e piroscafo, intonso perché il senatore Verdi voleva pagare sempre di tasca propria; sia il documento di identità in cui alla voce professione indicò “possidente” quale sua occupazione. E Martini ricorda che giunse a essere il quinto contribuente italiano. Dalla fine dell’ottobre scorso Villa Verdi è chiusa per il mancato accordo tra gli eredi, ed è in attesa di vendita. Mi auguro che il ministro dei Beni culturali, Gennaro Sangiuliano, che si è già interessato alla vicenda, riesca nell’intento di mantenere fruibile per i cittadini un bene così significativo e rilevante della nostra storia culturale. 

Dai riordini di fine anno è riemerso un altro numero della “Domenica” del Sole-24Ore con alcuni articoli degni di nota. Si tratta dell’edizione del 6 novembre 2022 che ospitava un testo sulle edizioni dei classici greci e latini delle edizioni Les Belles Lettres e un profilo del filologo italiano Dante Isella.

Gioia e qualche amara riflessione suscita la recensione di Armando Torno all’ultimo volume della Collection Budè edito da Les Belles Lettres, il millesimo volume della prestigiosa collana di classici greci e latini. Si tratta del testo di Ippocrate Sulle fratture, opera del più famoso medico dell’antichità di cui sarebbe opportuno ancora oggi ricordare i principi della cura, dal primum non nocere al divieto di praticare aborti. Accanto al doveroso omaggio ai curatori del volume – Jacques Jouanna (direttore della serie greca della collezione), Anargyros Anastassiou (università di Amburgo), Amneris Roselli (Università di Napoli – L’Orientale) – Torno osserva con rammarico che manca in Italia lo stesso orgoglio che mostra chi in Francia, dal 1920, pubblica e ripubblica testi greci e latini «perché – chiosa – ogni generazione è costretta a rimeditare i classici». E – accanto alla notizia che tutti i testi della collana francese per celebrare il millesimo titolo erano in vendita con il 30 per cento di sconto sino alla fine di novembre 2022 – lamenta lo scarso sostegno pubblico ottenuto dall’unica collezione di libri che, in Italia, continua a pubblicare testi di qualità (talora edizioni critiche) dei classici antichi: la Fondazione Valla-Mondadori. Che forse non a caso da un paio d’anni ha abolito l’offerta promozionale dei suoi volumi che proponeva ogni novembre. 

Altrettanto gradevole il ricordo del filologo Dante Isella (1922-2007) che, nel centenario della nascita, delinea Gino Ruozzi. Ricordate le edizioni dei suoi autori preferiti, perlopiù lombardi, da Giuseppe Parini a Carlo Emilio Gadda e a Vittorio Sereni, passando per Carlo Porta e Alessandro Manzoni, dell’attività di Isella sono citati i maestri, Gianfranco Contini, ma anche Leo Spitzer e Carlo Dionisotti, e la coscienza civile sull’esempio di Francesco De Sanctis. Questo filologo dedito ai lombardi, come conferma la raccolta di saggi I Lombardi in rivolta (1984), svolse buona parte del suo magistero all’università di Pavia (1967-1977). Purtroppo giunsi all’Alma Ticinensis Universitas quando Isella se n’era già andato. Però di lui conservo un ricordo splendido: la conferenza che tenne in Aula Foscolo a metà degli anni Ottanta, nell’ambito di un ciclo di appuntamenti dedicati al bicentenario della nascita di Manzoni, organizzato dall’Istituto di Italianistica della facoltà di Lettere. 

Ulteriori segnalazioni dallo stesso numero della “Domenica” erano un articolo del cardinale Gianfranco Ravasi sulla monumentale opera teologica di Hans Urs von Balthasar: Jaca Book ha da poco ripubblicato i cinque volumi di TeoDrammatica. E una recensione di Andrea Kerbaker del libro di Alessandro  Magrini, Il dono di Cadmo, ricco di curiosità sulla storia dell’alfabeto, pubblicato da Ponte alle Grazie (pagg. 192, € 16).

Cent’anni di Corti. Eugenio, scrittore cristiano emarginato ma di successo

Per il centenario della nascita dello scrittore besanese, il 21 gennaio è uscito questo mio articolo su Avvenire, tra le pagine della sezione Agorà, sulle iniziative avviate dalle Edizioni Ares e dal Comune di Besana in Brianza. Su Eugenio Corti ho avuto modo di scrivere anche in passato su Avvenire: una intervista quando lo scrittore compì 90 anni e un articolo per i 100 anni di don Mario Cazzaniga, personaggio tra gli ispiratori del Cavallo rosso. Altri miei articoli sono usciti in occasione della morte e del funerale dello scrittore nel 2014. Infine ripropongo il primo articolo che ho dedicato a Eugenio Corti, sempre su Avvenire nelle pagine di Agorà («Corti, 25 anni da longseller») pubblicato il 28 giugno 2008 in occasione del 25° della prima edizione del Cavallo rosso e della ristampa in tre tomi che veniva venduta allegata a Famiglia cristiana. Accennavo all’emarginazione che la critica “ufficiale” ha riservato allo scrittore cristiano e anticipavo qualche notizia su Medioevo e altri racconti che lo scrittore stava completando.

Riscoperta delle proprie radici, apertura al mondo. Oscillano tra microcosmo e macrocosmo le celebrazioni del centenario di Eugenio Corti, nato nella casa paterna di Besana in Brianza (Monza) al mattino del 21 gennaio 1921 (e dove è morto la sera del 4 febbraio 2014). Se infatti la sua città natale si appresta a valorizzarne l’opera – grazie alla collaborazione della moglie Vanda – con la creazione di un centro studi a lui dedicato, le Edizioni Ares, che hanno in catalogo l’intera produzione letteraria di Corti, hanno progettato iniziative non solo editoriali per l’intero anno del centenario per favorire la conoscenza di uno dei maggiori scrittori cattolici del Novecento italiano.

A partire da stasera, il giorno 21 di ogni mese, una diretta sui canali social delle Edizioni Ares presenterà una diversa opera dello scrittore: Il cavallo rosso, il romanzo più importante (34 edizioni, oltre 400mila copie vendute), che facendo centro sulla famiglia Riva di Nomana (trasparente trasposizione dei Corti di Besana) dipinge un grandioso affresco di storia italiana tra il 1940 e il 1974; I più non ritornano, l’esordio letterario del 1947, uno dei primi resoconti della ritirata di Russia, seguito da Gli ultimi soldati del re, l’esercito italiano che affiancò gli Alleati tra il ’43 e il ’45; la tragedia Processo e morte di Stalin, i romanzi per immagini La terra dell’indio, L’isola del paradiso, Catone l’antico; Medioevo e altri racconti; i saggi raccolti in Il fumo nel tempio e infine la memorialistica: le lettere alla famiglia dalla Russia di Io ritornerò e quelle alla fidanzata Vanda di Voglio il tuo amore. Inoltre entro la fine del 2021 Ares renderà disponibili in ebook tutte le opere di Corti.

Ma la novità editoriale più rilevante di questo “anno cortiano” di Ares è la prossima pubblicazione dei corposi Diari di guerra e di pace (1940-1949), documento notevole sia dal punto di vista storico, sia letterario, perché svelano le origini di molti episodi rielaborati nel romanzo maggiore: «I primi diari che Eugenio scrisse al fronte – spiega la moglie Vanda, che ne sta curando l’edizione – furono distrutti da lui stesso al momento di iniziare la ritirata dalla Russia, perché temeva che essendo pieni di valutazioni negative sui tedeschi avrebbero potuto essere usati dalla propaganda russa. Quando – nel 1943 – ricominciò la vita militare nel Sud Italia tra i soldati del re, riscrisse tutta la prima parte sulla base del ricordo (che addolcisce un po’ le vicende) e continuò poi a compilarli negli anni successivi, dalla ripresa degli studi in università all’elaborazione del suo primo libro I più non ritornano, uscito da Garzanti nel 1947». I diari terminano nel novembre 1949: «L’ultimo episodio è la mia visita, qui a Besana, a casa Corti. Avevo terminato gli studi all’Università Cattolica e stavo per rientrare in Umbria, in famiglia. Ed Eugenio volle che conoscessi i suoi genitori. Ci siamo sposati due anni dopo ad Assisi, celebrò don Carlo Gnocchi».

Altrettanto significativo il progetto del Comune di Besana in Brianza di trasferire nella Villa Filippini, sede anche della biblioteca civica “Peppino Pressi”, gli arredi dello studio dello scrittore, tra cui la scrivania, la poltrona, gli scaffali e alcuni oggetti: le divise militari, la medaglia d’argento al valor militare, le targhe di alcuni premi ricevuti. «Vorremmo che la città – spiega il sindaco Emanuele Pozzoli, che è anche assessore alla Cultura – assumesse maggiore consapevolezza della figura dello scrittore. Non vogliamo però che si tratti di un museo, bensì di un luogo vivo, un “Centro studi Eugenio Corti”, come ha suggerito la signora Vanda che generosamente mette a disposizione tutti questi cimeli. Un luogo dove speriamo che in futuro si possa svolgere anche la cerimonia del premio internazionale a lui dedicato (destinato a studi e tesi di laurea sulle sue opere, ndr). E la biblioteca civica, oltre a realizzare un’area cortiana al suo interno, ospiterà gran parte dei libri di proprietà di Corti, che sarà possibile consultare». Mentre la corrispondenza e i testi più importanti che gli sono serviti per scrivere i suoi libri sono già custoditi alla Biblioteca Ambrosiana, come Corti stesso desiderava.

Non si ferma qui la spinta a valorizzare l’illustre concittadino: «Nel Cavallo rosso troviamo una splendida rappresentazione della nostra storia, del nostro territorio e della nostra gente di Brianza – continua il sindaco – . Ho già parlato con la dirigente scolastica del nostro istituto comprensivo auspicando che nella scuola secondaria di primo grado possa esserci spazio per la conoscenza dell’opera di Corti. E stiamo pubblicando un numero speciale dell’informatore comunale, interamente dedicato all’autore».

Il cavallo rosso galoppa da tempo per il mondo (è tradotto in otto lingue): ora in Francia – dove Corti gode di ottima fama grazie all’editore Vladimir Dimitrjievic e al professor François Livi – la casa editrice Noir sur blanc ha cominciato dal romanzo maggiore la pubblicazione dell’intero corpus dello scrittore besanese.

Corti, 25 anni da longseller

Venticinque anni dopo la prima edizione, Il cavallo rosso di Eugenio Corti continua la sua corsa per le librerie, e (ora) le edicole: un vero e proprio “longseller” che è giunto ormai alla ventitreesima ristampa. Quasi un prodigio editoriale per un romanzo di 1270 pagine e privo del sostegno promozionale degli editori che contano (è pubblicato dalle Edizioni Ares di Milano). Eppure, anno dopo anno, edizione dopo edizione, questo scrittore cristiano, estraneo ai “salotti culturali”, ha venduto in Italia oltre trecentomila copie del suo maggior romanzo, che vanta anche un bel numero di traduzioni: in spagnolo, francese, inglese, romeno, lituano, persino giapponese; mentre sono in preparazione quelle in olandese, polacco e serbocroato. «Non dimentico la febbrile attesa della prima edizione, nel maggio 1983 – rievoca Corti -. La stampa era finita, la copertina no: così quindici libri furono lucidati a mano perché potessi consegnare la prima copia a papa Giovanni Paolo II in visita a Desio». E ora, quasi a suggello del venticinquesimo anniversario, la prossima settimana uscirà con Famiglia Cristiana un’edizione (altre cinquantamila copie) in tre tomi, corrispondenti ai tre volumi di cui il romanzo si compone.

Eugenio Corti, nato nel 1921 a Besana in Brianza (Milano), ha fatto parte di quella gioventù che nel 1940 si trovò catapultata sui diversi scenari di guerra, proprio come molti dei personaggi del romanzo. Scampato alla morte nella ritirata dal fronte russo (raccontata nell’opera I più non ritornano del 1947, ora reperibile nella Bur), ha combattuto ancora tra i reparti dell’esercito regolare che hanno accompagnato gli Alleati nella liberazione dell’Italia (materia del suo Gli ultimi soldati del re). Dal dopoguerra in poi ha visto le trasformazioni di una società che, modernizzandosi, ha via via perso quell’impronta cristiana che caratterizzava gran parte dell’Italia, certamente la Brianza dei “paolotti”. Corti sente di dover contribuire alla battaglia per il Regno (di Dio), come aveva promesso in un momento tragico della ritirata di Russia. «L’idea del Cavallo rosso – spiega Corti – era di rendere la realtà dell’uomo del mio tempo con un romanzo storico contemporaneo. Credo nel valore del romanzo: il completamento della fantasia serve a rendere la realtà storica in modo più compiuto. Se vogliamo ricordare la peste del Seicento a Milano, infatti, pensiamo ai Promessi Sposi e non alla Storia della colonna infame». Assoluto però resta il rispetto della verità: «Anche se non volevo entrare nel romanzo come voce narrante, gran parte delle vicende che racconto le ho vissute in prima persona, ma le ho distribuite tra i vari personaggi. Che hanno tutti tratto spunto da persone reali».

Facendo centro sul microcosmo cristiano di Nomana, Corti accompagna Ambrogio, Stefano, Manno, Michele, Alma, Giustina, Colomba, Fanny nei risvolti lieti e dolorosi della vita e compone un grandioso affresco delle vicende del nostro Paese dal 1940 al 1974. Ciò che non è autobiografico è stato scrupolosamente verificato: Corti ha perlustrato le coste della Tunisia per riferire della traversata di uno dei protagonisti dall’Africa così come ha percorso migliaia di chilometri in Paraguay per documentarsi sulle Riduzioni dei gesuiti (ambiente del romanzo La terra dell’indio, il primo dei “racconti per immagini”, seguito da L’isola del paradiso e Catone l’antico). «I tre volumi del Cavallo rosso sono intitolati con espressioni tratte dall’Apocalisse: il cavallo rosso simboleggia la guerra, il cavallo livido (verdastro dice il testo biblico) raffigura la guerra civile, mentre l’albero della vita indica il ritorno della pace che sempre segue anche le vicende più tragiche». E la conclusione del romanzo, con la salvezza ultraterrena anche dei malvagi, ci ricorda che «la Provvidenza sa far nascere il bene anche dal male».

Nella tragedia Processo e morte di Stalin (con la geniale intuizione del dittatore sovietico eliminato dal una congiura dei suoi fedelissimi) e in altri testi di saggistica Corti ha messo a frutto la conoscenza del comunismo acquisita in Russia per cercare di illuminare sugli orrori di un mondo che voleva fare a meno del cristianesimo. Sono opere che hanno decretato l’emarginazione di Corti, ma se la critica “ufficiale” lo ignora, il sostegno dei lettori non è mai venuto meno a questo cantastorie, come gli piace definirsi: i raccoglitori nel suo studio conservano migliaia di lettere di ammirazione giunte da tutto il mondo. All’estero le opere di Corti hanno trovato ottima accoglienza, soprattutto in Francia: numerose sono le ristampe e tra i lettori entusiasti del Cavallo rosso si può annoverare anche il cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione. Con 87 primavere sulle spalle, Eugenio Corti continua il suo lavoro di narratore: «Scrivo sempre prima a matita (ne ha una schiera sulla scrivania, ndr) e poi batto il testo, un tempo a macchina ora al computer. Ora sono alla seconda stesura di una storia ambientata nel mio amato Medioevo, l’epoca delle cattedrali gotiche, che ha come protagonista una monaca, antenata della famiglia di mia moglie, che fondò un ordine francescano femminile dedito alla vita attiva e non solo a quella contemplativa». Il soldato del Regno è ancora in servizio.

Università di Pavia, le immagini di una cronaca che diventa storia

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Salone Teresiano, Biblioteca Universitaria di Pavia

Cultura, politica, goliardia: quasi un secolo di immagini e notizie erano raccolti nella mostra documentaria e fotografica «Il tempo di uno scatto. Personaggi celebri in visita all’Università di Pavia», che è stata ospitata nel Salone Teresiano della Biblioteca Universitaria a Pavia (Corso Strada Nuova, 65). Dall’inaugurazione del monumento agli universitari caduti durante la Grande Guerra (nel giugno 1922) alla presenza del duca d’Aosta Emanuele Filiberto di Savoia, sino al conferimento della laurea honoris causa all’astronauta Samantha Cristoforetti da parte del rettore Fabio Rugge (nel 2017) i visitatori illustri di cui si registra la presenza spaziano dalle più alte cariche istituzionali (re, presidenti della Repubblica, ministri e capi di governo) a esponenti del mondo della cultura, dell’arte e della scienza, sino a capi religiosi, quali i papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

La prima testimonianza è anteriore all’inizio del regime fascista: nel primo dopoguerra il comandante della “invitta” Terza Armata presenziò all’inaugurazione di un monumento che era stato concepito sin dal 1917 per onorare docenti e studenti caduti in guerra e che dal 1920 lo scultore Alfonso Marabelli aveva iniziato a realizzare. Per coprire le spese si erano mobilitati anche gli studenti: fu pubblicato un numero unico della rivista “Riso e… crape” al costo di 2 lire per raccogliere i fondi necessari (lo scultore lavorò gratis). Tre anni dopo fu la volta di Vittorio Emanuele III: nel maggio 1925 il re visitò Pavia per partecipare ai festeggiamenti per l’XI centenario dell’università. Le foto d’epoca lo mostrano su un cocchio trainato da quattro cavalli sfilare per le vie del centro e il quotidiano La Provincia Pavese pubblicò un ricordo del professor Archia Poderini, che rievocava l’iniezione di fiducia che rappresentò per i soldati il passaggio dell’auto del sovrano fra le truppe in ritirata dopo Caporetto. Alla piena epoca fascista – oltre dieci anni dopo – risalgono le successive visite di esponenti politici di primo piano, tutte caratterizzate da una tappa al monumento ai caduti. Dopo il principe Umberto di Savoia nel maggio ’36, è curioso notare che la visita del capo del governo Benito Mussolini nel novembre ’36 fu seguita a breve distanza (due mesi) da quella del maresciallo Pietro Badoglio, una successione che prefigura quella alla guida dell’esecutivo, che avverrà solo sei anni e mezzo più tardi.

Più attinenti alla vita accademica due altri appuntamenti commemorativi. Nel 1939, in occasione del 140° anniversario della morte, l’università celebra Lazzaro Spallanzani con un convegno scientifico e l’inaugurazione della statua nel cortile centrale del palazzo di Strada Nuova. Per l’occasione giungono a Pavia il duca di Bergamo, Adalberto di Savoia, e il ministro della Giustizia Arrigo Solmi (già rettore dell’Università di Pavia quando ci fu la visita del re). Il convegno scientifico ricorda gli studi del pioniere della fecondazione artificiale animale del biologo (e gesuita) che insegnò a Pavia negli ultimi trent’anni della sua vita e fu anche rettore dell’ateneo. Nel giugno 1942 in onore di Contardo Ferrini – nel 40° della morte – si svolge il convegno nazionale di diritto romano, che porta a Pavia insigni giuristi da tutta Italia. Nel consueto brulicare di camicie nere e di alti papaveri del regime, che si osservano nelle foto, c’è da sperare che almeno monsignor Cesare Angelini, rettore del collegio Borromeo che nel cortile commemorò l’antico allievo, abbia ricordato la figura di fervente cristiano di Ferrini, di cui era in corso il processo canonico che cinque anni dopo doveva portarlo agli onori degli altari.

Passata la guerra, sono documentate due visite del presidente della Repubblica Luigi Einaudi: nel 1951 e un mese prima della scadenza del suo mandato, nell’aprile 1955. Oltre alle foto e alla prima pagina della Provincia Pavese sono esposti il telegramma di ringraziamento del presidente in occasione della prima visita e il biglietto di invito alle cerimonie firmato dal rettore Plinio Fraccaro in occasione della seconda, quando a Einaudi venne conferita la laurea honoris causa in Scienze politiche. Lo stesso titolo onorifico fu conferito al presidente Giovanni Gronchi, giunto a Pavia nell’ottobre 1961 in occasione delle solenni celebrazioni per i 600 anni dell’Ateneo: è esposta anche una pergamena in latino, composta da Enrica Malcovati, che compie un excursus sulla storia dello Studium Generale citando alcune delle figure che gli diedero maggior lustro.
Per restare alle cariche istituzionali, sono documentate le visite anche dei presidenti Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano (manca la documentazione sulla veloce visita di Francesco Cossiga nel maggio 1986), di un presidente del Consiglio (Amintore Fanfani) e di un ministro (Alfredo Biondi), nonché del re di Svezia, Gustavo VI Adolfo, noto appassionato di archeologia. In particolare la visita di Fanfani (nel 1962) si segnala per l’inaugurazione del collegio universitario del governo italiano “Luigi Rocchetti Bricchetti”, destinato a ospitare borsisti di Paesi stranieri, prevalentemente africani. Nonostante la lungimiranza, l’iniziativa, promossa dall’entomologo Mario Pavan, ebbe vita breve: nella primavera del 1964 fu chiuso dal ministero degli Esteri perché «i risultati non avevano risposto alle aspettative».

Il papiro goliardico per Enzo Ferrari
Il papiro goliardico per Enzo Ferrari

Un’ampia sezione della mostra viene a rievocare invece una tradizione che intrecciava goliardia e fama culturale. Grazie a un gruppo di ex studenti dell’università di Pavia, era nata nel 1961 l’Associazione laureati ateneo ticinense (Alat), che tra le sue attività aveva inaugurato la tradizione di conferire il titolo di “matricola ad honorem” a una nota personalità del mondo della scienza, delle lettere o delle arti. Il primo a ricevere il premio fu nel 1963 lo scrittore Riccardo Bacchelli, seguito dal chimico Giulio Natta, dal musicista Herbert von Karajan, dal sociologo Salvador de Madariaga, dallo scienziato Albert Bruce Sabin, dall’ingegnere Pier Luigi Nervi, dall’ingegnere Enzo Ferrari, dal cineasta Federico Fellini, dallo scrittore Georges Simenon (ritirato dall’attore Gino Cervi), dal pittore Giorgio De Chirico, dal fisico Emilio Segrè, dal musicista Gianandrea Gavazzeni, dal filosofo Norberto Bobbio e dall’editore Valentino Bompiani. Il cerimoniale di queste giornate prevedeva, dopo i discorsi del rettore e del presidente dell’Alat in Aula Magna, sia l’imposizione del cappello goliardico (curiose le foto di Sabin e di von Karajan), sia il dono di una targa con la Minerva d’oro (incisione dello scultore Francesco Messina, che concesse all’Alat l’uso esclusivo della matrice) e di un papiro goliardico, opera dell’illustratore Giuseppe Novello. Tra i papiri più originali quello per Enzo Ferrari, in cui la statua di Alessandro Volta si china verso l’ingegnere che mostra una sua auto, e quello per Albert Sabin, in cui è un bambino sorretto dalle braccia del rettore dell’università a imporre il cappello goliardico allo scienziato. Inoltre veniva assegnato al più anziano laureato presente alla cerimonia il Goliardone, berretto con i nastri dei colori di tutte le facoltà. Un docente presentava la figura dell’illustre premiato, che veniva poi accompagnato in corteo e sulle note dell’inno goliardico fino alla piazza Leonardo da Vinci: qui a 50 metri d’altezza sulla torre dell’orologio (gli ultimi dalla torretta della Specola) veniva srotolato il gonfalone del Gran Pavese con il nome della matricola d’onore a caratteri cubitali. Infine un banchetto, accompagnato dalla goliardia.

L’ultima parte della mostra presentava una serie più varia di visitatori illustri ed eventi: il conferimento della medaglia teresiana al fisico Carlo Rubbia e all’astronauta Samantha Cristoforetti, il premio internazionale Wendell Krieg Lifetime Achievement Award alla scienziata Rita Levi Montalcini, la laurea honoris causa al musicista Riccardo Muti e all’artista Moni Ovadia, la presenza del giornalista Indro Montanelli in occasione dell’inaugurazione della nuova sede del Fondo Manoscritti avviato da Maria Corti. Infine, particolare emozione mi suscitano le testimonianze sulle visite di Giovanni Paolo II (accolto dal rettore Alessandro Castellani) e di Benedetto XVI (rettore Angiolino Stella). Il primo giunse a Pavia il 3 novembre 1984 nel corso del suo viaggio in Lombardia per il quarto centenario della morte di san Carlo Borromeo: e nel suo discorso a professori e alunni, oltre a ricordare l’arcivescovo di Milano laureatosi in utroque iure all’università di Pavia e promotore del collegio che porta il suo nome, difese l’importanza dell’incontro tra fede e cultura. Ma il ricordo personale è quello dell’attesa gioiosa di noi studenti nei cortili del Palazzo centrale dell’università per il passaggio del Pontefice che, cordiale come sempre, strinse le mani a tutti (almeno a chi riuscì ad avvicinarsi alla prima fila). Il secondo, nel corso della sua visita pastorale alle diocesi di Pavia e di Vigevano, il 22 aprile 2007 nell’incontro con il mondo della cultura rievocò la figura a lui tanto cara di sant’Agostino da Ippona, copatrono dell’Ateneo pavese (e le cui spoglie sono conservate a Pavia nella chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro) e ribadì l’importanza dell’incontro «tra cultura ecclesiastica e laica», che nel corso della storia favorì il cammino del sapere nelle università.

La mostra è stata voluta dal direttore dell’Archivio storico di Ateneo, Fabio Zucca, e ideata e curata da Roberta Manara, con Alessandra Baretta e Maria Piera Milani. Realizzata in collaborazione con la Biblioteca Universitaria, l’Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea e il Centro interdipartimentale di ricerca e documentazione sulla storia del Novecento, era una miniera di notizie e curiosità e spiace solo che sia rimasta aperta meno di due mesi e fosse priva di catalogo. C’è da sperare che almeno parte del materiale venga utilizzato dalla meritoria e accurata storia dell’università di Pavia, Almum Studium Papiense, che gli studiosi coordinati da Dario Mantovani (docente di Diritto Romano e presidente del Centro per la storia dell’Università di Pavia) stanno preparando dal 2011, un progetto nato in occasione della celebrazione dei 650 anni dell’ateneo. Siamo infatti in attesa del terzo volume (come i precedenti articolato in due tomi) che sarà dedicato al Novecento: è una trattazione più orientata agli aspetti istituzionali e scientifico-accademici, ma che non trascura approfondimenti su singoli documenti o personaggi. E la mostra ha dato un’ampia testimonianza del vivace e duraturo rapporto dell’Università di Pavia con il tessuto sociale e culturale dell’intera nazione.

Vita e letteratura, l’impresa critica di Giancarlo Vigorelli

mostra_vigorelliUn panorama straordinario si dispiega nella mostra «Brama di Vita e di Letteratura. Giancarlo Vigorelli nel clima culturale del Novecento», in corso alla Biblioteca Sormani di Milano fino a sabato 5 maggio (aperta nei pomeriggi dei giorni feriali). Lettere originali, fotografie, riviste, libri con dediche autografe – oltre a chiari pannelli riassuntivi delle tappe della carriera di Vigorelli – offrono un quadro approfondito della poliedricità del critico letterario (nato a Milano nel 1913 e morto a Marina di Pietrasanta nel 2005) che per circa settant’anni ha spaziato tra poeti e prosatori (occupandosi anche di pittura e di cinema), con grande acutezza e indipendenza di giudizio. Curata da Giuseppe Langella, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università Cattolica, di cui dirige anche il Centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita”, la mostra dà conto del grande patrimonio custodito proprio dalla Biblioteca Sormani, che dal 2008 ospita l’intero archivio Vigorelli: e sullo scalone che porta alla sala del Grechetto, le bacheche espongono i loro “gioielli” in ordine cronologico, accanto alle molte fotografie che testimoniano la dimestichezza e i rapporti di amicizia intessuti con numerosissimi uomini di cultura del Novecento italiano.

Documenti rari

Impossibile – e superfluo – citare tutti i letterati presenti (sarebbe stato utile prevedere almeno un piccolo catalogo della mostra): mi sembra opportuno segnalare però alcune testimonianze particolari, o anche solo di difficile reperibilità. Parto con la lettera di Giovanni Papini, che nel 1934 ringraziandolo di un articolo pubblicato sull’Italia, mette un giovane Vigorelli tra gli «entusiasti ricercatori d’ogni pensiero e d’ogni letteratura». Una chicca filologica è la lettera di Eugenio Montale che accompagna la prima versione del sonetto elisabettiano «Gli orecchini», comparso poi a stampa in forma molto diversa: lo stesso Vigorelli lo definisce (nel 1989) un inedito. Interessante la lettera di Carlo Emilio Gadda di apprezzamento per la pubblicazione (1941) dello studio su Matteo Maria Bandello (il primo lavoro di Vigorelli in volume, di cui è esposta una copia con dedica ai genitori). Si può leggere anche l’articolo (uscito sul settimanale Il tempo nell’agosto del ’43) in cui esprimeva soddisfazione per la caduta del regime fascista – in toni molto civili, a leggerlo oggi – e per il quale fu costretto a rifugiarsi in Svizzera. Emozionanti la busta e la carta da lettera intestata della Libreria antiquaria di Trieste per la missiva di Umberto Saba (1950), così come quella del Gabinetto Viesseux per il biglietto di Montale (1938). E ancora le lettere dattiloscritte dell’amico Pier Paolo Pasolini o le diverse risposte che diedero Elio Vittorini, Alberto Moravia, Elsa Morante, Salvatore Quasimodo, Guido Piovene per l’inchiesta lanciata da Vigorelli sulla rivista Successo nel 1961, dal titolo: «È finito il fascismo in Europa?». Fino agli autografi di Leonardo Sciascia (1971), Gesualdo Bufalino (1981) e Claudio Magris (1992).

Alle recensioni di spettacoli teatrali corrispondono biglietti di ringraziamento da parte di Franco Zeffirelli, Vittorio Gassman, Carmelo Bene, Giorgio Strehler. Invece le sue frequentazioni artistiche sono testimoniate dalle dediche di volumi da parte di alcuni pittori: Renato Guttuso, Aligi Sassu, Enrico Baj, Salvatore Fiume, Dino Buzzati; oltre all’intervista, comparsa nel 1977 sul settimanale Gente, in cui Vigorelli rievoca l’amicizia con Antonio Ligabue, l’artista di cui contribuì a diffondere la conoscenza, e dal quale fu ritratto (e l’opera, ora in collezione privata, è qui esposta).

Amico di tutti, ma critico rigoroso

La visita della mostra richiama alla mente il volume Carte d’identità. Il Novecento letterario in 21 ritratti indiscreti, opera di Vigorelli pubblicata nel 1989, cui si rifanno anche molte didascalie dei documenti esposti. La lettura di questa raccolta di saggi, in parte molto remoti, in parte scritti per l’occasione, permette di approfondire il «metodo critico» di Vigorelli, di apprezzarne la libertà di pensiero e di comprendere meglio anche il titolo della mostra. «Se un presunto metodo mi sta sotto la pelle – scrive “In apertura” del volume – è un non preordinato bisogno di rinvenire in uno scrittore quella coincidenza (…) che a mio modo tento in me di pareggiare, quanto meno di parallelizzare, tra Vita e Letteratura». E poco oltre: «Una e unica è la voce di un’autentica Letteratura, pur che riesca a conglobare il romanzo convergente della Vita e della Letteratura».

Di questa stella polare si serve per vagliare le opere degli autori, siano essi critici, da Benedetto Croce a Gianfranco Contini, passando per Giuseppe Antonio Borgese, Emilio Cecchi e Carlo Bo, poeti (Eugenio Montale e Vittorio Sereni) o narratori, da Carlo Emilio Gadda a Vitaliano Brancati, da Beppe Fenoglio a Italo Calvino e Goffredo Parise. Se il superamento – in ambito letterario – di Croce e del crocianesimo appare al giorno d’oggi abbastanza consolidato, non lo era ancora all’epoca in cui Vigorelli (e ancor prima Cecchi) si espressero. Ma anche verso Contini (ritenuto ottimo come filologo) manifesta riserve: la sua storia letteraria dell’Italia unita «non è che un passaggio da un “caso letterario“ all’altro, da una poetica all’altra, ma negligendo intenzionalmente il corso delle idee, che possa in qualche maniera determinare o no quei passaggi e quei mutamenti». Anche sui romanzieri non mancano giudizi netti: rivalutazione di Brancati (trascurato dai critici) e di Fenoglio (penalizzato da Vittorini) rispetto a Cesare Pavese, sferzato il degenerare di Alberto Moravia nel decennio 1970-80, stroncato Parise (salvo una palinodia a proposito del suo primo romanzo, Il ragazzo morto e le comete) nonostante l’apparire delle sue opere nei «Meridiani» Mondadori (anzi contesta la tendenza «a far passare per “classici“ non pochi “contemporanei”», addirittura viventi).

La «lunga fedeltà» ad Alessandro Manzoni

Ho lasciato in fondo i riferimenti al “manzoniano” Mario Pomilio, che già nel 1955 gli scriveva per complimentarsi per le «aperture impreviste», «le suggestioni inedite e feconde» che Vigorelli aveva espresso l’anno prima in Manzoni e il silenzio dell’amore. Oltre all’apprezzamento per Il quinto Evangelio («un libro di speranza, e di profezia»), Vigorelli vede nel Natale del 1833 (che scandaglia la crisi di Manzoni alla morte della moglie Enrichetta Blondel) una «splendida perlustrazione del dramma manzoniano». E manzoniano sin dalle origini può essere definito Vigorelli, che aveva pubblicato un innovativo commento alla Storia della colonna infame già nel 1942: non solo fu presidente del Centro nazionale di studi manzoniani (avviando l’Edizione nazionale ed europea delle opere), ma al romanziere lombardo dedicò a più riprese la sua attenzione. Mi piace ricordare quella singolare antologia di testi manzoniani Il “mestiere guastato” delle Lettere (1985) che documenta il “processo” che Manzoni intentò alla letteratura italiana in nome di un desiderio di aderenza al reale. Nel saggio introduttivo «Manzoni, e la rivalutazione dei valori romantici» Vigorelli sottolinea che «tutta l’intrepida polemica del Manzoni contro la nostra letteratura proveniva dalla constatazione inappellabile che il tradizionale letterato italiano si è sempre presentato e rappresentato sotto la livrea e la maschera dell’uomo della “doppia verità”: e la sua spesso presunta “poesia” copriva immoralmente e l’una e l’altra “verità”, e cioè la sottostante ma dominante falsità». Oltre a suggerire di «rileggere il Manzoni, non limitandolo ai Promessi Sposi, che oltretutto esigono riletture in tempi diversi della vita» (è diventato un libro scolastico, ma non era stato certo scritto per gli studenti), Vigorelli invita a prendere «coscienza proprio nel nome di Manzoni che la letteratura plagiata sulla letteratura è finita sul letto di morte e non avrà neppure una bella morte». E conclude che «la letteratura non può essere – Manzoni ne ha data l’unica definizione corrispondente al valore – che “un ramo delle scienze morali”». Una definizione appropriata per chi, come Vigorelli, voleva pareggiare vita e letteratura.

I globi di Coronelli, una geografia fatta di arte e scienza

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La mostra alla Biblioteca Marciana di Venezia

Per studiare bene la geografia non si può fare a meno di un grande planisfero, come quelli appesi nelle aule scolastiche, o almeno di un mappamondo. Me lo confermavo pochi giorni fa visitando la mostra su Vincenzo Coronelli (1650-1718), aperta fino a domenica 15 aprile alla Biblioteca Marciana di Venezia in collaborazione con The International Coronelli Society for the Study of Globes. In occasione del terzo centenario della morte del frate cosmografo «L’immagine del mondo», curata da Marica Milanesi e Heide Wohlschläger, espone disegni, incisioni e testi che Coronelli pubblicò dopo avere realizzato nel 1681-83 i due monumentali globi, terrestre e celeste, per il Re Sole, Luigi XIV, ora conservati a Parigi alla sede François Mitterand della Biblioteca nazionale di Francia. Nei giorni scorsi – complice l’evento europeo della “notte della geografia” – sui quotidiani sono apparse rivalutazioni e approfondimenti su questa disciplina, di cui molti lamentano la penalizzazione negli ultimi programmi scolastici, accorpata com’è alla storia. E i globi di Coronelli, esempio formidabile di scienza e arte, ci testimoniano proprio quanto la osservazione del mondo può risultare affascinante ancora oggi, nonostante satelliti e strumenti informatici sembrerebbero avere dissolto ogni mistero sulla conoscenza della Terra.  

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Vincenzo Coronelli (da Epitome cosmografica, 1693)

L’esposizione veneziana ci riporta a un’epoca in cui le esplorazioni geografiche stavano rivoluzionando il patrimonio di ipotesi e certezze tramandate dagli scienziati antichi. Il francescano Vincenzo Coronelli acquistò notorietà con i primi globi realizzati per il duca di Parma Ranuccio II Farnese e fu poi “ingaggiato” per realizzarne due enormi (hanno un diametro di quasi quattro metri e pesano due tonnellate ciascuno) per il re di Francia. Tornato in patria e residente nel convento di Santa Maria Gloriosa dei Frari, fu apprezzato “cosmografo” per la Repubblica di Venezia e – oltre a realizzare numerosi altri globi di  diverse dimensioni – pubblicò opere che illustrano le sue conoscenze geografiche: in particolare l’Epitome cosmografica e l’Atlante Veneto. Sua anche l’idea di avviare un esperimento di “enciclopedia” che precedette gli illuministi francesi, mentre in una vera e propria società di appassionati geografi, l’Accademia cosmografica degli Argonauti, si discuteva delle novità che si andavano scoprendo in cielo e in terra. Per alcuni anni, tra il 1701 e il 1704, fu anche generale del suo ordine religioso.

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Il globo celeste di Coronelli da restaurare (1689)

Coronelli produsse una quantità davvero rilevante di globi e di carte terrestri e celesti e alcuni fusi esposti in questa mostra permettono di leggere la grande messe di informazioni che venivano riportate su questi capolavori: in quelli celesti notizie astronomiche, zodiacali, la rosa dei venti; in quelli terrestri nazioni, città, fiumi e montagne, popoli ed eventi storici. E spesso in più di una lingua, greco, latino e arabo compresi. Al centro dell’attenzione dell’ «Immagine del mondo» è comunque la coppia di globi (terrestre e celeste) da 106 centimetri di diametro che Coronelli donò nel 1689 alla repubblica di Venezia e che sono tuttora conservati alla Biblioteca Marciana. Il globo celeste (che ha la particolarità di essere stato completato a mano perché furono usate per l’incisione lastre ancora incomplete) è però bisognoso di restauri: il costo stimato per l’intervento, che verrà effettuato senza spostarlo dalla sala dove si trova, è di 25mila euro e la Marciana incoraggia potenziali donatori a fare uso dell’Art bonus, la misura prevista dal governo che permette di avere sgravi fiscali in caso di donazioni finalizzate al recupero di opere d’arte.

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Globo da tre oncie (8,5 cm). Collezione Rudolf Schmidt

La passione per i globi, tra XVI e XVIII secolo, prese sovrani e famiglie nobili e fece crescere la domanda. Altre opere di Coronelli sono conservate in Austria, Germania, in diverse istituzioni venete (nello stesso museo Correr di Venezia) ed emiliane, a Genova e Firenze. Due molto belli sono ospitati a Bergamo, nella Sala Tassiana della Biblioteca Angelo Mai, restaurati pochi anni or sono grazie al Fondo Ambiente Italiano (Fai). Per restare a Venezia, alla Fondazione Querini Stampalia sono esposti due globi dell’olandese Willem Blaeu (1571-1638), allievo dell’astronomo Tycho Brahe, e quindi precedenti a Coronelli, e due piccoli globi di Gilles Robert de Vaugondy (1688-1766), di età successiva.

Chiudo con una curiosità. Coronelli ideò anche mini-globi di tre oncie, dimensioni di poco superiori a una pallina da tennis: e li indicava per essere «accomodati per portare nella sacoccia». Di questo globo tascabile, la mostra offre un esempio raro e, grazie a un modellino su carta con le istruzioni, la possibilità di costruirsene uno uguale per sé.

Tempo di Libri, bilancio in chiaroscuro

Qual è il bilancio di Tempo di Libri, la nuova rassegna voluta dall’Associazione italiana editori (Aie) che si è svolta nei padiglioni della Fiera di Milano a Rho? È stato un flop o era inevitabile che si pagasse un pegno per il disorientamento suscitato negli addetti ai lavori per una fiera che è nata in contrapposizione al Salone del libro di Torino? Ma come si valutano eventi del genere: dal numero di visitatori, dal numero di editori presenti, dal numero di libri venduti? O dalla qualità delle proposte di incontri e dibattiti? Sui giornali negli ultimi giorni le valutazioni si sono moltiplicate, puntando soprattutto sul più evidente dei dati: il numero di quanti hanno varcato gli ingressi dei padiglioni della Fiera.

I primi bilanci erano già negli articoli pubblicati domenica 23, giorno di chiusura della manifestazione. Sul Corriere della Sera, Alessia Rastelli mentre osservava che era stata penalizzante la scelta di date “scomode”, strette tra Pasqua e il ponte del 25 aprile, dava conto dell’arrivo in fiera di Chiara Appendino, sindaco di Torino in visita con la famiglia, accompagnata dal presidente del Salone del Libro, Massimo Bray: «Milano e Torino si parlano. Ma resta il nodo delle date». I due torinesi si sono incontrati con Federico Motta, presidente dell’Aie, e con Renata Gorgani, presidente di Fiera del Libro, e l’articolo dava conto delle dichiarazioni “dialoganti” tra Bray e Motta, il quale parlava di edizione numero zero, più che numero uno; mentre Gorgani ammetteva che non c’era stato il tempo di organizzare il rapporto con le scuole, mentre la presenza degli studenti – ricordava Appendino – è uno dei punti di forza del Salone di Torino. Aggiungeva, sempre domenica 23, Alessandro Zaccuri su Avvenire che a Rho si potevano trovare chicche per bibliofili (per esempio all’Aldus club), ma che i maggiori risultati in termini commerciali li stava registrando il punto vendita del Libraccio, dove «i visitatori non soltanto entrano, ma pure comprano». Sulla Stampa, un ottimista Enrico Selva Coddè, amministratore delegato di Mondadori Libri ribadiva da un lato l’errore delle date, ma rispetto al dialogo con Torino sosteneva che «le condizioni a cui si era giunti rendevano problematica la realizzazione di un progetto per un ulteriore sviluppo e promozione dell’intera filiera del libro» e che a Rho «le decisioni sono in mano agli editori, là come sappiamo erano di competenza della fondazione».

Le prime cifre, pubblicate sui giornali di lunedì 24, parlavano di circa 70mila presenze, ben al di sotto delle 126mila dell’ultimo Salone di Torino. E il paragone con l’appuntamento piemontese che giunge quest’anno al trentesimo compleanno ha catalizzato ogni valutazione. Intervenendo alla conferenza stampa di chiusura, riferisce sul Giorno Simona Ballatore, il sindaco Giuseppe Sala si è detto soddisfatto: «La partecipazione è stata buona, la città risponde. Mi assumo la colpa del fatto che non diciamo oggi quando sarà l’edizione dell’anno prossimo. Rimarrà nel palinsesto primaverile di Milano, non ci saranno sorprese». Sullo stesso giornale, sono stati interpellati i piccoli editori: Denis Arcangeli (Gruppo Macro) promuove e frequenta entrambe le manifestazioni, Vera Minazzi (Jaca Book) teme che in prospettiva uno cannibalizzi l’altro, e Milano ha dalla sua la logistica, una storia per i saloni e «continua a essere la capitale del libro». Era ormai evidente che erano mancate le visite degli studenti: «La scuola è mancata anche a me», osservava Gorgani su Repubblica. «La scuola è stata quella – osserva Simonetta Fiori – che per anni ha salvato i primi giorni del Salone del libro a Torino. È mancata la scuola ma l’impressione è che sia mancata la città con le reti associative, le biblioteche, quella comunità ampia del libro che è tessuto civile di Milano». Restando su Repubblica, nelle pagine milanesi Franco Bolelli proponeva di valorizzare la formula Bookcity («dinamica, diffusa, multiforme») «molto più in sintonia con un mondo dove è un madornale errore trattare le persone come visitatori e numero di biglietti staccati. Tempo di libri e Bookcity insieme: non sarebbe la migliore soluzione?». Una proposta cui risponde negativamente, sullo stesso giornale, Solly Cohen, amministratore delegato della Fabbrica del Libro. E se Il Fatto quotidiano parla di «megaflop» in relazione ai visitatori, Il Giornale ritiene che la fiera milanese «decolli» ma voli «a bassa quota». Il Corriere della Sera dedica spazio anche agli appuntamenti in città, il cosiddetto Fuorisalone, che ha ottenuto presenze altalenanti: spazi culturali semivuoti, un discreto successo per i ristoranti. E qualcuno ancora si appella al modello Bookcity.

I dati definitivi delle presenze sono stati diffusi lunedì: 60.796 visitatori a Rho e 12.133 nelle cento sedi Fuori Fiera. «Numeri giù ma Tempo di Libri rilancia la sfida per il 2018» titola il Corriere: l’articolo di Alessia Rastelli ricapitola le ragioni delle presenze inferiori alle attese, segnala che è andato bene il Mirc, la struttura per lo scambio dei diritti con oltre 500 partecipanti di 34 Paesi e riporta l’auspicio di Renata Gorgoni per una fiera che nel 2018 si svolga nel mese di maggio. Anche se Simonetta Fiori, su Repubblica, va oltre: a Rho è mancata «un’anima, il profilo riconoscibile di una comunità civile, quell’identità che traspare in modo nitido al Lingotto».

Ricco è apparso il programma degli eventi (ben 720), secondo alcuni anche troppi, in sale spesso affollate perché un po’ piccole. Tuttavia un caustico ma argomentato articolo di Giuseppe Scaraffia sul Messaggero («Se la fiera del libro dimentica i lettori») punta il dito verso la «politica culturale inesorabilmente clientelare» del nostro Paese: «Colpisce, in un momento di autentica e pervicace crisi editoriale, la riottosità a proporre reali innovazioni, a parte il colore della moquette e la qualità della sala stampa e del suo catering, decisamente migliori di quelli finora offerti a Torino. Colpisce, in un nuovo salone del libro, la prevedibilità dei rituali e dei nomi prescelti. Hanno in questo il loro peso, forse, anche i premi letterari, che da un numero di anni che è meglio non calcolare premiano inesorabilmente gli esponenti della stessa troupe de théâtre. Autori che dovendo occuparsi di cose concrete come scalare le colonne dei giornali, le torri d’avorio delle case editrici e talvolta i contrafforti di incarichi privati e pubblici non hanno purtroppo il tempo di dedicarsi con calma a quella frivola impresa che è lo scrivere». Su Avvenire, il bilancio di Alessandro Zaccuri puntualizza un altro particolare: la «quota di maggioranza (51%) detenuta da Fiera Milano nella Fabbrica del Libro, la società che organizza la manifestazione e della quale l’Aie è socia al 49%. La decisione sul calendario resta sostanzialmente in mano a chi gestisce gli spazi espositivi, dunque». E ricorda un dato spicciolo ma importante: alla Fiera si arriva con un biglietto della metropolitana che costa – tra andata e ritorno – 5 euro: «Sommati ai dieci dell’ingresso, equivalgono al prezzo di copertina di un tascabile». Non può stupire allora che il boom di vendite lo abbia ottenuto il Libraccio, che offre  libri usati ma in ordine, e anche alcune edizioni rare. C’è stato perfino qualche stand – l’ho verificato di persona – che non faceva nemmeno uno zero virgola di sconto sul prezzo di copertina di libri normalmente in catalogo: perché allora andare fino a Rho, quando si possono acquistare online?

Alla scoperta di Quarenghi, architetto bergamasco alla corte degli zar

Spunti e divagazioni su una mostra in corso alla biblioteca civica “Angelo Mai” di Bergamo

La biblioteca Angelo Mai di Bergamo

Ha un profilo più storico che artistico la mostra sull’architetto Jacopo Quarenghi (1744-1817) in corso a Bergamo fino al prossimo 30 aprile. E non potrebbe essere diversamente visto che è dedicata a esplorare il costituirsi del fondo quarenghiano – con i suoi 761 pezzi è il più ampio esistente al mondo (disponibile anche su Dvd) – nella biblioteca civica “Angelo Mai”. La visita può essere peraltro l’occasione di scoprire altri piccoli tesori dello storico Palazzo Nuovo di Città Alta.

Strumento utile per addentrarsi nel significato della mostra è la breve guida di Giulio Orazio Bravi e Piervaleriano Angelini. Quarenghi, giunto a Roma nel 1761 per perfezionarsi nella pittura e uscitone architetto chiamato alla corte di Caterina II di Russia nel 1780, fu uno dei primi a capire l’importanza della neonata biblioteca, mandandole in dono i primi volumi di disegni delle sue realizzazioni architettoniche (Teatro dell’Ermitage e Banca di Stato) eseguite per la capitale degli zar, dove divulgò uno stile neoclassico che si rifaceva ad Andrea Palladio. Era stato pochi anni prima un altro illuminato bergamasco, il cardinale Giuseppe Alessandro Furietti (segretario di papa Clemente XIII), con un’eredità di 1.500 volumi a condizione che fossero fruibili dai cittadini, a “imporre” alla sua patria l’istituzione di una biblioteca pubblica. Il saggio di Bravi e Angelini procede a illustrare le vicende del fondo Quarenghi che cresce di consistenza tra le bufere dell’epoca napoleonica e i contraccolpi della restaurazione, in parallelo all’arricchirsi della biblioteca, che passa dalla stanza di Palazzo Nuovo alla canonica del Duomo, prima di essere trasferita negli ambienti appositamente arredati del Palazzo della Ragione, e solennemente inaugurati nel 1845. Nel frattempo Quarenghi era morto in Russia, ma l’orgoglio di mantenerne vivo il ricordo in patria viene fatto proprio dal figlio Giulio, che subito dona un’edizione aggiornata (la prima risaliva al 1821) del catalogo delle opere paterne e nel 1870, in età avanzata (era nato nel 1790), propone alla amministrazione cittadina l’acquisto (a un prezzo di favore) di un corposo gruppo di ben 535 suoi disegni allo scopo di «conservare alla patria i parti dell’artistico suo ingegno». La raccolta che entra a far parte della biblioteca civica viene poi integrata da altre donazioni: in particolare la nipote Antonietta Quarenghi, figlia di Giulio, consegna un Minutario della corrispondenza dell’architetto, che diventa «fondamentale documentazione per la conoscenza dell’artista» scrivono Bravi e Angelini. Che sottolineano anche il circolo virtuoso innescato: le successive donazioni hanno permesso nuovi studi storico-artistici sull’opera di Quarenghi, la cui divulgazione ha stimolato ulteriori lasciti.

E in effetti, dalle primissime segnalazioni a stampa circa l’attività dell’architetto neoclassico nella lontana San Pietroburgo da parte dei letterati suoi contemporanei Ippolito Pindemonte, Pier Antonio Serassi e Francesco Maria Tassi, al lavoro di catalogazione di Bartolomeo Secco Suardo a metà Ottocento sino all’opera del pittore Giuseppe Macinata che passa in rassegna la raccolta dei 535 disegni, la biblioteca di Bergamo si è mostrata adeguata al compito di mantenere vivo il ricordo del concittadino. Persino le autorità russe nel 1874 manifestarono l’interesse ad avere copia di documenti del fondo Quarenghi perché tra essi si trovavano tracce della loro illustre sovrana del secolo precedente.

Accanto a minute notazioni di biblioteconomia, con la storia della collocazione della raccolta quarenghiano nelle sedi della biblioteca (che torna nel Palazzo Nuovo nel 1927) e delle cassapanche utilizzate per esporre i suoi documenti, il saggio di Bravi e Angelini ricostruisce poi, nel corso del Novecento, i momenti della riscoperta di un autore che è stato per molto tempo trascurato. Le mostre del 1967 (150° della morte) e del 1994 (bicentenario della nascita) hanno rappresentato le ultime tappe di una rivalutazione che si è concretizzata in iniziative editoriali e culturali in senso lato, quali la nascita dell’Osservatorio Quarenghi, promotore delle iniziative di questo bicentenario, e che si protrarranno per l’intero 2017 (proprio domani apre a Milano un’altra esposizione dedicata al rapporto di Quarenghi con l’Accademia di Brera, di cui era socio onorario).

Infine due curiosità. La biblioteca civica, intitolata nel 1954 ad Angelo Mai (filologo bergamasco del primo Ottocento, eternato soprattutto dalla poesia che gli dedicò Giacomo Leopardi) merita comunque una visita: al primo piano invita allo studio l’ampio salone Furietti, e la bella sala tassiana ricorda le origini bergamasche di Bernardo e Torquato Tasso. Una sala dove – oltre al busto di un giovane Torquato e alla ricca raccolta di opere dei due poeti e di studi critici – si possono ammirare due grandi globi (terrestre e celeste) realizzati alla fine del Seicento dal geografo Vincenzo Coronelli.

L’altra è invece un interrogativo: il figlio Giulio Quarenghi nomina il padre come Giacomo e così la maggior parte dei documenti a stampa successivi. Ma l’architetto, in una lettera esposta in mostra e risalente al 1788, si firma Jacopo Quarenghi. Nella lingua italiana Giacomo e Jacopo sono varianti dello stesso nome. Resta però la curiosità di capire (a meno che non esistano molti altri documenti autografi di segno opposto) perché in questo caso si sia affermata la forma diversa da quella usata dal legittimo interessato.

Manoscritte e a stampa, splendono le carte di Dante

Presentazione della mostra dantesca in corso a Torino, mio articolo pubblicato oggi sulle pagine culturali di Avvenire

Riccardiano 1035
Riccardiano 1035
Tesori così preziosi che meritano di essere custoditi in un caveau, anche se di una biblioteca. Sono i manoscritti medievali e le antichissime edizioni a stampa delle opere di Dante Alighieri, soprattutto della Commedia, esposti appunto nei caveau della Biblioteca Reale di Torino fino al 31 luglio nell’ambito della mostra «Più splendon le carte. Dante dal tempo all’etterno», curata da Giovanni Saccani (direttore della Biblioteca Reale) e da Donato Pirovano (docente di Filologia dantesca all’Università di Torino) con il sostegno dell’associazione Metamorfosi.

L’ampia diffusione della Commedia, trasmessa da centinaia di codici (ci sono rimasti circa 300 manoscritti solo del periodo 1330-1400), è di per se stessa un segno del successo che arrise subito al poema. Tuttavia – a scorno degli studiosi – di Dante non si è conservato un solo foglio autografo, neanche un’epistola, magari di quelle che riferisce di aver visto – un secolo dopo la morte del poeta – il cancelliere della Repubblica fiorentina Leonardo Bruni, precisando che «era la lettera sua magra e lunga e molto corretta». E il diffondersi di manoscritti emendati dai copisti sin dall’età più antica e poi variamente contaminati rende oggi quasi impossibile realizzare un’edizione critica secondo il metodo stemmatico.

Della trasmissione dei testi e della attività dei commentatori sono offerti al pubblico una sessantina di capolavori di arte miniata, di incunaboli e di cinquecentine (oltre a importanti edizioni dei secoli seguenti) sommando al ricco patrimonio della Biblioteca Reale di Torino (e di biblioteche universitarie del capoluogo piemontese) alcuni esemplari eccezionali custoditi a Firenze (Biblioteca Nazionale Centrale, Riccardiana e Mediceo Laurenziana) e a Milano (Biblioteca Trivulziana). Si va dall’Ashburnham 828, verosimilmente il più antico codice datato della Commedia, copiato a Pisa nel 1334, al facsimile del Trivulziano 1080, trascritto a Firenze nel 1337 dal calligrafo Francesco di Ser Nardo da Barberino (forse l’iniziatore dell’officina scrittoria dei «cento Danti»); dal Riccardiano 1035, uno dei tre eseguiti da Giovanni Boccaccio (l’illustrazione mostra l’incipit dell’Inferno), al codice del XV secolo (danneggiato da un incendio nel 1904 alla Biblioteca Nazionale Universitaria torinese) con il commento di Iacomo della Lana, composto tra il 1323 e il 1328. Eccezionale valore documentario riveste il facsimile dell’Officiolum di Francesco da Barberino, cioè il Libro d’Ore, in formato «tascabile», che risalirebbe agli anni tra il 1304 e il 1309 e che mostra due illustrazioni che sembrano ispirate dall’Inferno dantesco.

Non meno importanti alcune edizioni a stampa: dal facsimile dell’editio princeps (Foligno 1472) alla «aldina» in ottavo curata da Pietro Bembo nel 1502 (e divenuta il testo standard per tutto il Cinquecento) fino all’edizione curata nel 1555 da Ludovico Dolce, che «inventò» il fortunato aggettivo Divina accanto al titolo Commedia. O ancora, l’edizione degli Accademici della Crusca nel 1595 a Firenze per avere un testo affidabile da citare nel Vocabolario. In mostra anche molti volumi ottocenteschi con dediche ai sovrani di casa Savoia, e una rassegna di edizioni in alcune lingue straniere (anche ebraico e russo). Tra le altre opere dantesche da segnalare le prime edizioni della Vita nuova (1576), del De vulgari eloquentia (nella traduzione italiana di Giorgio Trissino) e della Quaestio de aqua et terra (testimone principe di un’opera di cui non esiste copia manoscritta).

Il catalogo (edito da Hapax) è utile per addentrarsi nei sentieri intricati della tradizione delle opere dantesche guidati dal saggio introduttivo di Donato Pirovano e dalle approfondite schede realizzate da quattro sue studentesse della Laurea magistrale in Filologia, letteratura e linguistica italiana, autrici anche dei pannelli e delle didascalie che nella sede della mostra illustrano le opere esposte. (Per informazioni: http://mostre.bibliotecareale.beniculturali.it ).

Pagine in eccesso

cavaliere_half_ Apprezzo e condivido la riflessione di Riccardo De Benedetti, già pubblicata sul suo blog “Cronache di Pastrufazio”
http://tinyurl.com/c48h3c3

I libri e la speranza di vita

È da qualche tempo che credo di aver superato, e di molto, la soglia che mi permette di dire: se anche evitassi tutte le attività, gli impegni, le occupazioni familiari e lavorative che riempiono le mie giornate; se le lasciassi scorrere senza parteciparvi, ebbene, anche se si verificasse questa strana e impossibile situazione, nel tempo che mi resta da vivere, non riuscirei a leggere tutti i libri che ho nella mia biblioteca. È una sensazione di finitezza maggiore di quella che mi dà l’invecchiamento delle mani o la comparsa di quei segni, labili ancora per poco, di decadenza del corpo. A tal punto i libri entrano nella biologia di una persona?