In Tauride la salvezza «rocambolesca» degli ultimi Atridi

Ifigenia in Tauride messa in scena nella primavera 2022 al teatro greco di Siracusa era solo alla terza rappresentazione nelle stagioni di spettacoli classici della Fondazione Inda (Istituto nazionale del dramma antico). Euripide riprende e riforma alcune vicende della versione principale dei miti relativi agli Atridi, con la salvezza degli ultimi eredi. Nell’Agamennone, Eschilo fondava parte del risentimento che spingeva Clitemenestra a uccidere il marito, al rientro da Troia, sul sacrificio della figlia Ifigenia che lo stesso comandante aveva voluto per propiziare la partenza della spedizione dei greci dall’Aulide. In questa tragedia invece, Euripide immagina che la dea Artemide abbia misteriosamente salvato Ifigenia, sostituendola con una cerva sacrificata al suo posto sull’altare e trasportandola nella lontana Tauride (l’odierna Crimea). Una conclusione a cui Euripide terrà fede nella sua più tarda Ifigenia in Aulide. Il testo dell’Ifigenia in Tauride risale agli anni tra il 414 e il 411 ed è discusso tra gli studiosi se sia precedente o successiva a quello dell’Elena, che ha un impianto narrativo simile. Può vantare diverse citazioni nella Poetica di Aristotele, che ne lodava l’intreccio (1455b), ma apprezzava solo a metà la scena del duplice riconoscimento tra i fratelli Ifigenia e Oreste. Questa versione del mito ottenne interesse in molti drammaturghi in epoca moderna, compreso Johann Wolfgang Goethe.

La tragedia si apre con il racconto di Ifigenia (Anna Della Rosa) che, indossando significativamente una maschera con muso e corna di cerva, riferisce la sua storia e il suo arrivo in Tauride: qui il compito della fanciulla era di essere sacerdotessa al tempio della dea Artemide, presiedendo i riti di sacrificio a cui per legge dei Tauri erano destinati gli stranieri catturati. Una schiera di schiave, anch’esse greche, le sono ancelle e costituiscono il coro. A questa terra lontana approdano Oreste (Ivan Alovisio) e l’amico Pilade (Massimo Nicolini) perché devono impossessarsi della statua di culto di Artemide custodita nel santuario di cui Ifigenia è sacerdotessa. Anche in questo caso Euripide “riforma” la versione eschilea, che aveva fatto assolvere Oreste dal delitto di matricidio dal tribunale ateniese dell’Areopago grazie al voto decisivo di Atena. Secondo Euripide questo processo non esauriva la pena per Oreste: alcune Erinni non avrebbero accettato il verdetto e avrebbero continuato a perseguitare Oreste. Di qui la richiesta di Apollo di recarsi in Tauride per riportarne il simulacro di Αrtemide.

I due inseparabili amici giunti in Tauride si accorgono dell’estrema difficoltà dell’impresa e rabbrividiscono al vedere il tempio a cui sono appesi i resti degli stranieri uccisi, secondo un rituale macabro. In più vengono presto catturati dopo una breve lotta riferita da un mandriano (Alessio Esposito). Per ordine del re Toante, sono condotti dalla sacerdotessa per le purificazioni necessarie prima di essere offerti in sacrificio. Ifigenia, che all’inizio della tragedia lamentava la sua nostalgia della Grecia e temeva che un sogno oscuro le avesse rivelato la morte del fratello Oreste, viene turbata dalla sorte dei due giovani greci. Ignorando la scia di sangue che aveva invaso la casa paterna, pensa di utilizzare uno dei due prigionieri per i suoi scopi: vuole salvarlo perché svolga un’ambasceria ad Argo in suo favore. Oreste e Pilade si rimpallano con generosità reciproca il diritto di scampare la morte: alla fine la lettera di Ifigenia viene consegnata a Pilade perché la porti in patria. Oreste è destinato a perire.

A questo punto avviene la scena del duplice riconoscimento. Infatti per essere sicura che Pilade porti a termine la missione anche se per un naufragio perdesse la lettera, Ifigenia gliene legge il contenuto. Grande è la sorpresa di Oreste che capisce di avere davanti a sé la sorella che credeva morta. A sua volta descrivendo la stanza di Ιfigenia giovinetta nel palazzo di Αrgo, la convince di essere il fratello da lei rimpianto. Secondo Aristotele (1454b), mentre il primo riconoscimento è molto ben riuscito, del secondo non si può dire altrettanto perché «non esce dal racconto» in modo spontaneo, come faceva il testo del “sofista Poliido” (1455a) che metteva in bocca a Oreste il lamento per essere sul punto di essere sacrificato come la sorella. Che a questo punto lo riconosceva.

La trama cambia direzione: ora Ifigenia e Oreste, con Pilade, condividono gli stessi obiettivi e studiano il modo di tornare in Grecia, portando con sé la statua di Artemide, senza cadere nelle mani dei Tauri. È la sacerdotessa a escogitare lo stratagemma decisivo per ingannare il re Toante, sfruttando il matricidio di Oreste: dirà che deve portare la statua a purificare perché è stata toccata dal greco, ancora impuro per il matricidio. Toante (Stefano Santospago), che inorridisce di fronte a un tale delitto («Nemmeno un barbaro farebbe una cosa simile» sottolinea), le concede di recarsi in riva al mare a compiere la purificazione, e accetta tutte le condizioni poste da Ifigenia, che cerca di rendere la fuga il più possibile sicura. Un messaggero (Rosario Tedesco) torna per avvisare Toante che gli stranieri sono fuggiti con l’inganno, e lo incita a inseguirli perché il vento sta rispingendo verso la riva la loro nave. Toante, dopo aver minacciato le schiave greche del tempio, ritenute complici, si prepara a inseguire i greci, ma interviene la voce di Atena che gli intima di desistere, spiegando che la fuga è approvata dagli dei. E poi incarica i due giovani Atridi della fondazione di due nuovi culti ad Artemide in Attica: ad Ale per Oreste, e a Brauron per Ifigenia, destinata a rimanere per sempre sacerdotessa della dea. Infine prefigura il rientro in Grecia anche delle altre schiave.

Il regista Jacopo Gassman parla dell’Ifigenia in Tauride come di «un testo intriso di domande e contraddizioni» e dalla «natura stilisticamente ibrida». Da scura e inquieta diventa la narrazione di una «fuga rocambolesca» ritiene «la Tauride di Euripide, un portentoso labirinto della mente, un paesaggio lunare e metafisico costellato di enigmi». E dove – dopo il riconoscimento tra i fratelli – Ifigenia «riappropriarsi di sé» e a compiere «un vero e proprio viaggio di liberazione e di emancipazione». La scenografia presenta un parallelepipedo che rappresenta il tempio di Artemide, davanti al quale si trova la vasca lustrale per la preparazione delle vittime sacrificali. E alcuni oggetti simbolici custoditi in teche trasparenti: in primo piano, una cerva evidente richiamo all’animale ucciso al posto di Ifigenia. Altri (toro, agnello: meno comprensibili), spiega lo scenografo Gregorio Zurla, sono sempre presenti a metà: «una forma che ci fa sospettare della veridicità di quello che vediamo». Un modo per assecondare la scelta registica di muoversi «tra finzione e realtà». Tanta “oniricità” non mi pare del tutto aderente agli intenti di Euripide, che pur trasportando la vicenda in un mondo lontano dalla Grecia, mantiene chiaro il senso della missione di Oreste e il dolore per l’isolamento che vive Ifigenia, lontana dalla patria, pur essendo scampata alla morte in Aulide. Pietà e paura, che Aristotele voleva producesse nella mimesi il testo tragico (1453b), sono presenti in abbondanza nell’Ifigenia in Tauride, anche se la vicenda si conclude senza ulteriore spargimento di sangue.

La «messa in discussione del mito» si traduce in una contaminazione con oggetti «contemporanei, appartenenti al contesto teatrale moderno» conclude Zurla. Vediamo infatti i microfoni che servono alle componenti del coro, fino ai protagonisti che riappaiono in abiti moderni seduti in un’ipotetica sala teatrale. Una “svolta” che però francamente pare snaturare il contesto, e appare poco comprensibile. Così come la proiezione sul tempio dei versi finali della tragedia convince a metà: se appare efficace per riferire con una voce fuori campo le parole di Atena, che viene così percepita senza essere vista, amplificando l’effetto della divinità che impone il suo volere, meno motivato mi pare il seguito, con le battute del coro e dello stesso Toante, che compaiono scritte mentre vengono pronunciate dagli attori sulla scena.

Convincenti gli attori, a partire da Anna Della Rosa (già a Siracusa come Elettra nel 2021 e Antigone nel 2017), Stefano Santospago e la coppia di amici Oreste-Pilade (Ivan Alovisio e Massimo Nicolini). Meno apprezzabili mi sono parsi i costumi di Gianluca Sbicca: non per la foggia ma per i colori, che vanno dal bianco al nero, passando per molte sfumature di grigi. Ridurre la gamma cromatica mi pare diventata una tendenza che si ripete negli anni (penso che fosse l’unico difetto dell’Edipo a Colono messo in scena nel 2018), ma continua a non piacermi.

Come spiega Anna Beltrametti nella sua edizione di Euripide (Millenni, Einaudi, 2002), il poeta tragico non accetta l’assoluzione “politica” di Oreste di eschilea memoria, e pretende un rapporto tra gli uomini e gli dei scevro da menzogne. Osservo poi che, come già in altri drammi, Euripide non fa sconti ai suoi connazionali: se i sacrifici umani in Tauride paiono agghiaccianti, i greci si sono resi responsabili dell’uccisione di una fanciulla innocente come Ifigenia, e Oreste viene perseguitato in quanto matricida. E la madre Clitemnestra aveva ucciso il marito. Infine attribuire alla dea ex machina una funzione convenzionale (come sostiene Giorgio Ieranò, autore della traduzione limpida e moderna) mi pare insufficiente. Proprio la sua “inutilità” (i giovani Atridi avrebbero potuto salpare e basta) deve interrogarci, perché dimostra che Euripide ha “voluto” introdurre la figura di Atena che conclude il dramma, per sottolineare l’origine di due culti attici: forse una captatio benevolentiae verso un pubblico, quello di Atene, che non lo amava molto?

La rinascita del teatro greco a Siracusa in una mostra. E in un romanzo “dannunziano”

Ad accompagnare la stagione 2021 degli spettacoli classici al teatro greco di Siracusa (ma anche quella 2022), l’Istituto nazionale del dramma antico (Inda) ha dato vita a una mostra storica – che resterà aperta fino al 30 settembre prossimo – intitolata “Orestea: atto secondo”. Il tema è una rievocazione del secondo spettacolo realizzato a Siracusa: infatti nel 1921, sette anni dopo la prima rappresentazione assoluta (Agamennone), furono portate sul palcoscenico le Coefore, la seconda tragedia della trilogia Orestea di Eschilo. E analogamente a un secolo fa, quando gli spettacoli classici ripresero vita dopo l’interruzione causata dalla Prima guerra mondiale e dall’epidemia di Spagnola, nel 2021 l’Inda – dopo la forzata interruzione del 2020 decisa dal governo per la pandemia di Covid-19 – ha messo in scena CoeforEumenidi, che completano la trilogia eschilea.


La mostra si divide in due parti: la prima è una ricostruzione storica dei protagonisti di quegli anni, ricca di documenti: lettere, spartiti musicali, disegni e verbali di riunioni; la seconda, multimediale, permette di vedere foto originali e – grazie alla tecnologia – un filmato di quella storica rappresentazione. L’idea per la mostra – progetto di Carmelo Iocolano, coordinamento di Marina Valensise, consigliere delegato dell’Inda, e supervisione del regista Davide Livermore –, è partita dalle foto inedite che il giovane fotografo siracusano Angelo Maltese (1896-1978) realizzò nel 1921 documentando la rappresentazione di Coefore. Oltre a svolgere un ruolo di supporto per la realizzazione di locandine e manifesti che, insieme con le immagini degli attori, erano utili per far conoscere gli spettacoli e attirare pubblico a Siracusa. Una selezione di 44 foto di Maltese, che comprendono gli attori della compagnia di Emilia Varini (che interpretò Clitemnestra), Ettore Berti (Oreste) e Giuseppe Masi (Egisto), ma anche le giovani siracusane scelte per il coro, introducono alla sala in cui il progetto multimediale prende vita: grazie alla realtà aumentata, Alain Parroni colora e mette in movimento le immagini che si trasformano in un filmato, che riporta lo spettatore indietro di un secolo. Si assiste quindi a uno spezzone suggestivo dello spettacolo, tra le scenografie di Duilio Cambellotti, realizzate dalla Regia Scuola d’arte applicata all’industria diretta da Giovanni Fusero, mentre si ascoltano i cori eseguiti dagli allievi dell’Accademia d’arte del dramma antico (Adda) dell’Inda sulle musiche originali di Giuseppe Mulè. Il tutto viene accompagnato dalla recita, da parte di Stefano Santospago, di un brano del discorso pronunciato a Siracusa dall’ex presidente del Consiglio, il palermitano Vittorio Emanuele Orlando, che espresse il suo sostegno all’iniziativa siracusana.

Ma non minore interesse rivestono i documenti della prima parte dell’esposizione, che rendono conto della frenesia del lavoro del Comitato per le rappresentazioni classiche, della tenacia di Gargallo e della quantità di ostacoli da superare perché il successo del 1914 non rimanesse un isolato, per quanto splendido, ricordo. Leggiamo per esempio, nella lettera di Mario Tommaso Gargallo al cugino Ugo Bonanno dell’11 ottobre 1920, a proposito dei suoi concittadini: «Mi duole sapere che tutti si disinteressano di quel movimento da noi iniziato che dovrebbe tornare a far di Siracusa una città intellettuale». E, con notevole lungimiranza, aggiungeva: «Bisogna che si comprenda che noi facciamo qualcosa di grande, che il nostro tentativo tende in ultima analisi all’innalzamento morale di Siracusa e della Sicilia che ove si istituisca l’Istituto per la Tragedia Antica una corrente di studii affluirà a Siracusa». Non mancano i particolari curiosi, come la lamentela di Gargallo per il fatto che Romagnoli era «un uomo la cui venalità è enorme» (lettera del 9 giugno 1920 a Francesco Caffo, segretario del Comitato). O la raccomandazione del Sopraintendente agli scavi per la Sicilia orientale, Paolo Orsi, di non praticare alcun buco in nessuna parte del teatro, o la richiesta dello stesso, che era anche direttore del Museo archeologico, di una lettera di libero ingresso a un rappresentante della Sopraintendenza, e ai suoi collaboratori, dai custodi del museo al disegnatore Rosario Carta. Altrettanto significativa la lettera che il Comitato per le rappresentazioni classiche invia l’11 gennaio 1921 a Romagnoli, mentre Gargallo è a Palermo per prendere accordi con la stampa «onde svolgere nei futuri mesi una larga propaganda in Sicilia» mentre è «molto preoccupato della stampa del Settentrione, sulla quale non ha che scarsa influenza». Pertanto al grecista viene rivolta «viva preghiera perché voglia interporre i Suoi buoni uffici presso il Corriere della Sera, la rivista “La Lettura”, ed altri importanti giornali per una benevola propaganda e per la pubblicazione di buoni articoli, di tanto in tanto, cui Ella dovrebbe dare il Suo interessamento». Dopo gli spettacoli, tra le relazioni entusiaste per il successo e le lettere di ringraziamenti, mi piace segnalare quella del 13 maggio 1921 di Giovanni Fusero che, in risposta ai complimenti ricevuti da Gargallo, si schermisce per la sua “modesta opera”. Peraltro a riconoscimento della qualità della scenografia, di cui sono in mostra un bozzetto e un modello, il Comitato per le rappresentazioni classiche decise di fare un dono allo stesso Fusero e di gratificare 12 allievi della Scuola d’arte con premi in denaro, da 20 a 120 lire.

Gargallo, còrego sognatore del ventesimo secolo

La figura di Gargallo è protagonista anche di un romanzo storico pubblicato da Morellini editore: I fantasmi di Dioniso. Mario Tommaso Gargallo e il sogno del Teatro Classico a Siracusa. Ne è autrice Giovanna Strano, dirigente scolastico di un istituto superiore, che ricostruisce la figura di questo nobiluomo siciliano, che si fece promotore del recupero del teatro greco di Siracusa, quale sede della rappresentazione di spettacoli classici, e diede origine all’antenato dell’Istituto nazionale del dramma antico (Inda). La vita non mancherà di riservargli amarezze quando fu di fatto estromesso dalla gestione della sua “creatura”, ma i suoi meriti sono indubitabili e grandissimi.

Discendente di Tommaso Gargallo, letterato siracusano noto nell’Ottocento soprattutto quale traduttore di Orazio, Mario Tommaso – futuro marchese di Castel Lentini – rimase presto orfano di padre, ma fu educato dalla madre, assieme al fratello maggiore Filippo, all’amore per l’arte. Anche grazie al suo carattere «risoluto e diretto» – scrive l’autrice – divenne un perfetto imprenditore culturale, quando maturò l’idea di riportare Siracusa ai lustri del passato grazie al recupero della tradizione del teatro classico. Gli fu d’aiuto nell’impresa il grande lavoro dell’archeologo trentino Paolo Orsi, direttore del Museo archeologico di Siracusa dal 1888, artefice di un’enorme opera di valorizzazione dei beni archeologici del territorio della Sicilia orientale, nonché del recupero del patrimonio artistico medievale, come Palazzo Bellomo. In particolare, il teatro greco era diventato un’area che, per la presenza di sorgenti di acque sul colle Temenite, veniva utilizzata dalle lavandaie e dai mulini, fatti costruire dai possidenti siracusani. E diventava anche area di pascolo per il bestiame, e le grotte circostanti venivano usate come stalle.

Mario Tommaso Gargallo – racconta Giovanna Strano – fece studi privati e si dilettava di fare lo scultore. Ma soprattutto, ancora molto giovane, maturò un grande interesse per il teatro. Frequentò a Firenze il circolo di letterati che – intorno a Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli – diede vita alla rivista Il Marzocco, ed ebbe modo di assistere alle esibizioni di Eleonora Duse e alle prime rappresentazioni di drammi antichi, messi in scena al teatro romano di Fiesole. Altro incontro cruciale fu quello con il grecista Ettore Romagnoli, impegnato a far riemergere una lettura del teatro antico filologicamente corretta. Questi stimoli suscitarono e rafforzarono in lui l’idea di riportare a nuova vita il teatro greco di Siracusa, che vide le rappresentazioni di Eschilo e di Epicarmo.

In patria riuscì a vincere le resistenze e gli interessi diversi che ostacolavano la nascita di un progetto tanto innovativo, anche grazie al peso della sua famiglia nobile, e con il sostegno di Paolo Orsi. Nel romanzo c’è spazio anche per il disegnatore Rosario Carta (ma perché chiamarlo Mario?), fido assistente dell’archeologo, a cui è stata dedicata una mostra a Siracusa nel 2017. Il grande merito di Gargallo, osserva opportunamente Strano, fu di fungere da catalizzatore o, come diceva egli stesso ispirandosi all’antica Atene, da còrego, cioè da finanziatore degli spettacoli pubblici. Si inebriò del suo sogno (fino a vaneggiare di «messe a Dioniso» che scandalizzavano l’arcivescovo) ma seppe tradurlo in realtà, mantenendo la calma anche di fronte alle provocazioni dei futuristi, scesi a Siracusa con la volontà di rovinare una manifestazione che richiamava le tradizioni del passato remoto. Coinvolto ufficialmente Ettore Romagnoli per la traduzione e le musiche, reclutati gli attori e lo scenografo Duilio Cambellotti, messi al lavoro gli allievi della Regia Scuola d’Arte per l’Industria per la realizzazione dell’allestimento, spinta attraverso varie vie la pubblicità dell’evento, finalmente il 16 aprile 1914, il teatro greco di Siracusa ospitava nuovamente una tragedia: l’Agamennone di Eschilo, di fronte a un pubblico eterogeneo quanto caloroso.

Ma la storia riservava un’altra salita: la prima guerra mondiale e l’epidemia di Spagnola interruppero subito la neonata iniziativa. Fu ancora merito di Gargallo, con la compagnia di quanti l’avevano sostenuto nella prima impresa, se nel 1921 gli spettacoli poterono riprendere (come testimonia la mostra dell’Inda) e diventare una tradizione. Il successo tuttavia attirò l’attenzione del regime fascista, che pensò di centralizzare a Roma la regia delle manifestazioni, trasformando il Comitato nell’Istituto nazionale del dramma antico: da un lato garanzia di un ruolo di primaria importanza, dall’altro espropriazione dei siracusani – e di Gargallo in particolare – della gestione delle attività.

Alla storia “ufficiale” il romanzo affianca notizie e interpretazioni della vita privata di Mario Gargallo e della sua famiglia. Qui, accanto a notizie sul matrimonio poco felice, l’autrice sparge pagine “dannunziane” con avventure erotiche del protagonista (con una ballerina immaginaria) e divagazioni oniriche di non evidente interpretazione. È la parte caduca di un libro per il resto apprezzabile, che rievoca una stagione e un personaggio che ebbero un ruolo decisivo per lo sviluppo degli spettacoli all’aperto al teatro di Siracusa. Se dopo un secolo possiamo ancora assistere a rappresentazioni classiche nell’incanto della cavea del colle Temenite, lo dobbiamo certamente in massima parte a Mario Tommaso Gargallo.

Baccanti, la vendetta crudele dell’ambiguo Dioniso

Le Baccanti di Euripide sono una delle tragedie più rappresentate al teatro greco di Siracusa: questa di Carlus Padrissa, della compagnia teatrale spagnola La Fura dels Baus, è infatti la loro settima apparizione nei cicli realizzati dall’Istituto nazionale del dramma antico (Inda), solo Agamennone e Coefore di Eschilo ne hanno avute di più. L’ultima tragedia a noi nota – opera di un Euripide già trasferitosi in Macedonia, anche se rappresentata postuma dal figlio ad Atene, probabilmente nel 403 a.C. – ci riporta alle origini del teatro greco, a quel Dioniso a cui erano dedicate le rappresentazioni, inserite com’erano nelle feste delle Grandi Dionisie e messe in scena ad Atene nel teatro, appunto, dedicato a Dioniso. È anche l’unica tragedia che ci è giunta in cui un dio è protagonista assoluto della scena: è figlio di Zeus e della tebana Semele, che – incinta e ingannata da Era – chiede improvvidamente al signore degli dei di mostrarsi nel suo pieno splendore, e viene incenerita dal fulmine. Tuttavia Dioniso viene salvato da Zeus che se lo cuce nella coscia fino al momento della nascita.


La storia delle Baccanti di Euripide è semplice quanto terrificante. Dopo essersi fatto conoscere in Oriente, Dioniso (Lucia Lavia) giunge a Tebe, dove si manifesta sotto forma di un uomo bello ed effemminato, seguace del dio. Questo straniero vuole convincere i concittadini di Semele a rendere il culto dovuto a Dioniso, che nel prologo si è detto pronto a vendicarsi in caso contrario. Ma né le sorelle di Semele, né tanto meno il re Penteo (Ivan Graziano), nipote di Cadmo (Stefano Santospago), sono disposti a riconoscere la loro parentela con Dioniso e la sua divinità: ritengono che Semele abbia millantato l’amore con Zeus per nascondere una relazione con un uomo. Dioniso intanto, accompagnato da un seguito di baccanti dalla Frigia, ha fatto uscire di senno tutte le donne di Tebe e le spinge a svolgere i suoi riti sul monte Citerone.

Penteo non intende ascoltare gli inviti alla prudenza che l’indovino Tiresia (Antonello Fassari) e il nonno Cadmo gli rivolgono, convinti che – almeno per precauzione – sia più opportuno adeguarsi al nuovo culto, anche se non ci credono. Il re intende porre fine con la forza alla situazione, che ritiene frutto di irrazionalità e – soprattutto – di immoralità, supponendo che le donne sul Citerone siano solo preda di istinti sessuali disordinati, che sovvertono l’ordine cittadino.

Catturato lo straniero, Penteo vorrebbe punirlo, ma deve assistere impotente al suo incredibile liberarsi senza fatica, cui segue la distruzione della reggia per un terremoto. Nonostante i segni evidenti, e il racconto straordinario di come le donne sul monte vivano in uno stato di pace con la natura, salvo diventare sanguinarie assassine nel caso vengano disturbate, Penteo non vuole – razionalmente – accettare il culto di Dioniso. Tuttavia – cadendo nella rete tesagli dallo straniero/Dioniso – cede alla tentazione morbosa di spiare i riti che le tebane stanno celebrando lontano dalla città, e – ormai privato di senno dal dio – accetta di travestirsi da donna nell’illusione di potersi così confondere tra le baccanti. Condotto sul Citerone da Dioniso, è destinato invece a essere preda della furia delle baccanti che, invasate dal dio, lo scambiano per un leone: proprio la madre Agave (Linda Gennari), sorella di Semele, dà il via allo squartamento del figlio Penteo, la cui testa viene conficcata su un tirso. Rientrata a Tebe trionfante, con il padre Cadmo rientra in sé e riconosce l’atrocità della punizione subita da Dioniso. Che aveva detto di Penteo, prima della catastrofe: «Essendo un uomo, ha osato battersi con un dio».

La rappresentazione di Padrissa è coinvolgente e “sfrutta“ l’ambiente aperto del teatro di Siracusa per distribuire le baccanti nell’ampia cavea, creando un’immersione nello spettacolo. La scena resta piuttosto scarna, ma arricchita da alcuni “effetti speciali”: una gigantesca figura umana “partorisce” Dioniso, mentre una macchina teatrale – che richiama quella del deus ex machina – viene utilizzata per rappresentare balletti aerei di una parte del coro. Una gigantesca struttura che rappresenta una testa, che si apre a metà e rappresenta il palazzo reale di Penteo, viene richiamata anche nella sua corona, simbolo del suo strenuo razionalismo.

Lucia Lavia, con una interpretazione eccellente, dà vita a un personaggio multiforme e indecifrabile, capace di esprimere ira, dolore, seduzione, astuzia e inganno, che le è valso il premio “Siracusa teatro stampa” (ben più meritato rispetto a quello assegnatole per l’Ifigenia in Aulide nel 2015). Convincono anche Stefano Santospago, che spiega l’albero genealogico della sua parentela, intenerendosi al pensiero della moglie Armonia (con una citazione di Franco Battiato, scomparso a maggio) e Antonello Fassari che ben rappresenta l’ipocrisia di chi non crede, ma si adegua. Poco autoritario Ivan Graziano nella parte del tiranno, molto più ispirato quando si adegua al volere di Dioniso, travestendosi da donna. Un’intensa Linda Gennari dà vita all’angoscia di Agave quando torna in sé, scoprendo l’orrore del suo delitto. Una certezza le capocoro, Elena Polic Greco e Simonetta Cartia, apprezzabili i messaggeri, Spyros Chamilos, Francesca Piccolo e Antonio Bandiera.

Discorso a parte è la rappresentazione del coro: estremamente spettacolari le danze aeree della parte del coro issata dalla gru, un magnifico ornamento, che esprime la pace della vita dionisiaca e dei suoi riti. Il coro che agisce sulla scena, definito da Padrissa “coro dei cittadini” (estraneo al testo euripideo, a volte simile a contemporanei manifestanti urbani), dà voce alle caratteristiche più tipiche del dionisismo (le danze sfrenate) ma anche sorprendenti («il sapere non è saggezza») e rivendica insieme al tempo stesso «la vita tranquilla», «il piacere del vino che libera dal dolore» e il desiderio di recarsi a Cipro o nella Pieria, dove «sono lecite le orge delle baccanti». La traduzione di Guido Paduano dà conto della «ambivalenza radicale dell’ideale idillico della pace e quello illimitato della violenza».

«La religione di Dioniso non fu mai rappresentata così suggestivamente nella sua enigmatica polarità», scrive Albin Lesky nella sua Storia della letteratura greca, premettendo che «nessun altro dramma di Euripide è stato oggetto di interpretazioni così contrastanti». E com’è noto, a partire dalla Nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche, anche se dapprima respinto, l’aspetto dionisiaco della religiosità dei greci in contrapposizione a quello apollineo ha influenzato significativamente gli studi sul teatro tragico. Un utile compendio della acuta disputa – a fine Ottocento – tra Nietzsche e Ulrich von Wilamowitz-Moellendorf si trova nelle pagine di Gherardo Ugolini nell’opera a più mani Storia della filologia classica (a cura di Ugolini e Diego Lanza, Carocci editore), che ricorda la valorizzazione molto “postuma” che il dionisiaco ha ottenuto tra gli studiosi dell’antichità, soprattutto – direi – «la considerazione della cornice religioso-cultuale degli spettacoli tragici». E alle feste dionisiache come «opera d’arte totale» (come nella tradizione della Fura dels Baus), nonché all’interpretazione di Nietzsche si richiama esplicitamente Padrissa, nelle sue note di regia, sentendosi in dovere di giustificare anche la scelta di una donna, per interpretare Dioniso, maschio, ma dio dell’ambiguità per eccellenza. Del resto «la scena moderna ha sciolto molti nodi del teatro antico, non l’enigma delle Baccanti» osserva Margherita Rubino (docente di Teatro e drammaturgia dell’antichità all’Università di Genova e componente del consiglio di amministrazione dell’Inda). Il fascino della lettura di Padrissa a Siracusa resterà comunque nella memoria.

A Siracusa un Eschilo trasfigurato (e pasticciato)

Dopo l’assenza forzata dell’anno scorso, conseguenza delle restrizioni decise dal governo per fronteggiare la pandemia di Covid-19, l’estate del 2021 ha visto la ripresa degli spettacoli classici al Teatro greco di Siracusa. Il 56° ciclo messo in scena dall’Istituto nazionale del dramma antico (Inda) ha leggermente modificato il programma annunciato nel 2020. Al posto dell’Ifigenia in Tauride di Euripide (rimandata al 2022) è stata realizzata la rappresentazione di CoeforEumenidi di Eschilo in coproduzione con il Teatro nazionale di Genova, diretto da Davide Livermore, che ne firma la regia a Siracusa. È una scelta che si ricollega al 1921, quando le Coefore furono messe in scena dopo l’interruzione dovuta alla prima guerra mondiale e all’epidemia di Spagnola (allo stesso modo l’Orestea monopolizzò il cartellone alla ripresa del 1948, dopo la pausa dovuta alla seconda guerra mondiale). Le Baccanti di Euripide, con la regia di Carlus Padrissa, e le Nuvole di Aristofane, con la regia di Antonio Calenda, sono gli altri due spettacoli andati in scena tra luglio e agosto, e che erano previsti già nel 2020. A sottolineare il richiamo al 1921 è stata allestita una mostra nella sede dell’Inda a Palazzo Greco, che rievoca con foto e materiali d’epoca quella storica rappresentazione e di cui scriverò a parte. Inutile cercare un filo rosso fra i tre spettacoli: Coefore ed Eumenidi fanno parte della grandiosa trilogia dell’Orestea, ultimo grande trionfo negli agoni tragici ad Atene di Eschilo nel 458 a.C., prima del suo trasferimento in Sicilia. Le Baccanti, pur essendo l’ultima tragedia rappresentata ad Atene (403) di cui abbiamo il testo si richiama all’origine stessa delle tragedie, a quel culto di Dioniso che caratterizzava le feste in cui si rappresentavano le opere teatrali. Nelle Nuvole (423) il giovane Aristofane prende di mira un Socrate “sofista” con accuse molto simili a quelle che 24 anni dopo ne determinarono la condanna a morte.

Coefore ed Eumenidi completano l’Orestea, dopo l’Agamennone, che racconta l’uccisione del comandante della spedizione greca a Troia, da cui torna vittorioso accompagnato dalla concubina Cassandra, la figlia del re Priamo. A differenza di quanto narra Omero nell’Odissea (XI, 405-426), che attribuisce il delitto a Egisto, amante di Clitemnestra, moglie di Agamennone, Eschilo rende colpevole proprio Clitemnestra, spinta da due moventi: la relazione con Egisto e la vendetta per il sacrificio della figlia Ifigenia, fatta uccidere da Agamennone per favorire la partenza della flotta dei guerrieri greci diretti a Troia. Più in ombra, anche se in parte sottintesa, la volontà di regnare con l’amante.

Oltre alla trilogia dell’Orestea di Eschilo (l’unica giunta fino a noi) a teatro la vicenda del delitto di Oreste per vendicare il padre Agamennone fu rappresentata anche dagli altri due maggiori poeti tragici, Sofocle ed Euripide, autori entrambi di una Elettra.

Ed eccoci alle Coefore (le portatrici di offerte). Dieci anni dopo il delitto, Clitemnestra è sconvolta da un sogno premonitore e manda a offrire libagioni sulla tomba di Agamennone. Nel frattempo però il figlio Oreste, spinto da Apollo a vendicare il padre, è tornato in patria in incognito per sorprendere e uccidere i due amanti assassini. Dopo essersi fatto riconoscere dalla sorella Elettra, che accompagna le coefore, Oreste mette in atto il piano di morte e uccide prima Egisto e poi Clitemnestra. Per quest’ultimo delitto viene immediatamente perseguitato dalle Erinni, decise a punire il matricida.

Eumenidi (le benevole) concludono la trilogia: Oreste si rifugia al santuario di Apollo a Delfi. Pur protetto da Apollo, non cessa la persecuzione delle Erinni e deve sottoporsi al processo all’Areopago di Atene. Qui sarà assolto grazie al voto decisivo di Atena, che riesce a placare la furia vendicatrice che le Erinni volevano riversare sulla città per mantenere l’antica legge, e le convince a trasformarsi in dee benevole, omaggiate dalla città di Atene, a cui esse assicurano protezione.

Sul fondo della scena appaiono sulla destra il palazzo reale, mentre al centro campeggia un enorme palla “multimediale”, che pare essersi abbattuta come un meteorite su un ponte. Al centro del palcoscenico campeggia un rilievo circolare che rappresenta la tomba di Agamennone. Il tutto è coperto da un sottile strato di neve, «una neve dolorosa – spiega il regista Davide Livermore nelle note di regia – che congela il corpo della tragedia, lo sospende per dieci anni, dieci lunghissimi anni in cui un bambino, Oreste, diventerà un assassino matricida».

Oreste (Giuseppe Sartori) giunge ad Argo accompagnato dall’amico Pilade (Spyros Chamilos) – abbigliati come partigiani – e pone un proiettile di pistola sulla tomba del padre: ovviamente Eschilo parla di un ricciolo dei capelli, ma le sparatorie in scena si vedranno davvero. Poi Elettra (Anna Della Rosa) e le coefore (in abiti eleganti) riescono a superare l’ostilità delle guardie (vestite da soldati nazifascisti e armate di mitragliatori) e a portare le loro libagioni sulla tomba di Agamennone, dove il ritrovamento del proiettile mette Elettra in agitazione. Dopo il riconoscimento tra i fratelli e la predisposizione del piano uccidere gli assassini del padre, viene fatto chiamare Egisto (Stefano Santospago). Arriva a bordo di un’auto, da cui scarica violentemente una ragazza, che subito uccide con un colpo di pistola. L’odiosità del personaggio viene accentuata dalle molestie che riversa sulle coefore presenti, che poi uccide. Ma, essendo privo di guardie, viene facilmente eliminato da Oreste e Pilade, addirittura con un proiettile nella schiena. Più problematica – ovviamente – si rivela l’eliminazione di Clitemnestra (Laura Marinoni). Arriva anche lei a bordo di un’auto, con abiti sontuosi, e capita la sorte che sta per toccarle, si difende con il figlio, rivendicando i torti subiti dal marito (in particolare l’uccisione della figlia Ifigenia), ma commette l’errore di rivelarsi innamorata di Egisto. A nulla poi le vale scoprirsi il seno materno per indurre pietà in Oreste: la sua sorte è segnata. E viene fatta morire come Socrate, bevendo una coppa di veleno. Le Erinni (Maria Layla Fernandez, Marcello Gravina e Turi Moricca), subito cominciano a perseguitare il matricida.

E siamo alle Eumenidi. Per purificarsi nel tempio di Apollo, che gli aveva ordinato di vendicare il padre, Oreste corre disperato su un tapis roulant (unica trovata “moderna” che appare utile). Anche la Pizia (Maria Grazia Solano) si allontana dal tempio, occupato dal matricida di cui si citano le mani insanguinate, e dalle Erinni che non gli danno pace, anche se poi si addormentano. Apollo (Giancarlo Judica Cordiglia) ne approfitta per invitare Oreste a recarsi ad Atene per essere giudicato, e poi scaccia le Erinni dal proprio tempio.

La scena si trasferisce ad Atene, dove la dea Atena (Olivia Manescalchi) presiede il processo i cui giurati sono sagome dei cittadini migliori della città riuniti nell’Areopago, che viene pertanto istituito per giudicare i fatti di sangue. Dopo le ragioni contrapposte di Oreste, spalleggiato da Apollo, e delle Erinni, Atena fa votare i cittadini, ma il verdetto è in parità (che significa assoluzione) solo grazie al voto decisivo della dea, che esprime valutazioni “arcaiche” sulla prevalenza dell’uomo sulla donna. Le Erinni, furiose, minacciano vendette sulla città, ma poi accettano l’invito di Atena a essere onorate dagli ateniesi e a restare a proteggere quindi la fecondità della terra e dei cittadini. Oreste, diretto ad Argo, proclama che mai la sua città dovrà dimenticare l’alleanza con Atene.

La messa in scena richiama gli anni Trenta-Quaranta, ma alcuni anacronismi rispetto a Eschilo appaiono assurdi e fastidiosi. A Livermore, si capisce, non piace l’assoluzione di Oreste grazie a un giudice e un avvocato «che per la loro stessa natura divina determinano una disparità di giudizio al limite dell’iniquo», scrive nelle note di regia (in cui paragona la sorte di Ifigenia a quella di Mafalda di Savoia, “sacrificata” dal padre Vittorio Emanuele III). E questa “combine” viene accentuata dalla telefonata (!) che i due si scambiano prima del verdetto.

Viceversa viene trascurato un tema che stride con la mentalità moderna, oltre che con i dati della biologia: la riduzione della donna a contenitore del seme maschile, considerato vero tramite della discendenza; lo svilimento del ruolo della madre nelle parole di Atena, che si proclama figlia del solo Zeus. Scorrevole la traduzione di Walter Lapini, convincenti le prove degli attori, in particolare Oreste – preda di dubbi e poco “eroico” – e Clitemnestra, personalità “dominatrice” della scena. Invece i proiettili e le sparatorie (così come il veleno o l’automobile) appaiono fuori luogo, visto anche che il testo continua a essere recitato indicando le spade come strumenti di morte. Il costume delle tre Erinni (perché due uomini? drag queen?), scintillante da cabaret, non appare consono al loro ruolo di paurose persecutrici. Il rogo finale delle sagome dei giurati vuol forse indicare che vanno puniti? Infine la palla multimediale che campeggia sullo sfondo (una soluzione che Livermore aveva adottato anche nell’Elena rappresentata a Siracusa nel 2019): viene sfruttata opportunamente per evocare l’ombra di Agamennone (Sax Nicosia), ma anche per mostrare, alla fine dello spettacolo, famose immagini di tragedie italiane: dall’assassinio di Aldo Moro alla strage di Capaci, dalla Costa Concordia al ponte Morandi (rievocato anche dalla scenografia) che appaiono del tutto estranee al clima del testo eschileo, se non forse nel pensiero del regista che le mostra per indicare fatti che non hanno ricevuto giustizia. Lo spettacolo, grazie anche a un accompagnamento musicale sostenuto, è vivace e “piacevole”, Eschilo però è un’altra cosa.

Edipo trova la pace a Colono, ma la sua vita disgraziata resta un mistero

Inda

Il 54° ciclo di spettacoli classici al teatro greco di Siracusa curati dall’Istituto nazionale del dramma antico (Inda) comprende quest’anno due tragedie, Edipo a Colono di Sofocle ed Eracle di Euripide, e la commedia I cavalieri di Aristofane. La presentazione del direttore artistico dell’Inda Roberto Andò parla della «scena del potere», anche se Edipo ne è ormai estraneo, solo di fronte ai problemi esistenziali, ed Eracle, al culmine della gloria, viene stravolto dalla follia. Un tema su cui insiste anche il grecista Luciano Canfora sottolineando nel suo intervento («Tiranno, eroe, governo: ascesa e declino») il rischio che il governante saggio ed equilibrato si trasformi in sovrano assoluto, in tiranno, generando un tragico corto circuito. Delle due tragedie peraltro, mi pare opportuno sottolineare anche il tema della disgrazia in cui possono cadere i potenti, e della difficoltà nel sopportare il peso di sciagure irrimediabili. Un discorso che chiama in causa il destino dell’uomo rispetto a volontà che appaiono a lui superiori, si chiamino dei o fato.

Il dramma di Sofocle che racconta l’ultimo atto della vita di Edipo è una tragedia molto particolare. Non c’è infatti un vero e proprio evento di sangue: Edipo muore, ma senza soffrire, quasi “beato”, pacificato con gli dei che avevano oscuramente determinato la sua vita a un destino di parricida e incestuoso. La tensione tragica si proietta sulla guerra fratricida che incombe tra Eteocle e Polinice, destinati a uccidersi a vicenda, distruggendo la famiglia di Edipo. Ma il testo di Sofocle è anche molto altro: costituisce un omaggio del poeta novantenne alla sua patria, quel borgo di Colono, di cui il tragediografo era originario, e dove si trovava una “tomba di Edipo”, in un luogo caratterizzato dall’aura di soprannaturale per un bosco sacro, dove si percepiva la presenza delle dee “innominabili”, le Eumenidi (trasformazione benefica delle Erinni). E di Atene celebra la gloria non solo nella figura del mitico re Teseo, ma anche nei canti corali: dall’ambiente naturale rigoglioso di Colono e in generale dell’Attica al rispetto religioso che caratterizza l’intera città, consacrata ad Atena, ma che onora l’intero pantheon olimpico. A una meditazione sulla fragilità umana sono dedicati gli ultimi due canti corali, composti da un uomo che vedeva ormai vicino l’ultimo traguardo. La tragedia – che fu rappresentata postuma verosimilmente nel 405 a.C. – risente della mancanza di un’ultima revisione dell’autore, come nota Giulio Guidorizzi in diversi punti del suo commento (pubblicato nella collana “Scrittori greci e latini” della Fondazione Valla-Mondadori). E secondo Albin Leski (nella sua Storia della letteratura greca) «non si può ignorare che il legame fra le varie parti sia meno solido che nelle opere del periodo migliore; anche la continuità e la scioltezza dello sviluppo drammatico non sono le stesse». Peraltro «in virtù della sua generale intonazione lirica questa tarda tragedia contiene alcune perle della poesia corale sofoclea».

20180525_192747_001Edipo (Massimo De Francovich) giunge a Colono, sobborgo di Atene, presso un boschetto sacro, nella condizione di vecchio cieco e malandato, accompagnato dalla figlia Antigone (Roberta Caronia), che costituisce il sostegno indispensabile alla sua sopravvivenza. Capisce di essere arrivato al luogo della sua morte, secondo quanto gli avevano predetto gli oracoli. L’arrivo dell’altra figlia Ismene (Eleonora De Luca) ricompone un nucleo di pietà familiare contrapposto ai figli maschi che non hanno difeso il padre, preoccupandosi solo di prendere il potere su Tebe. Ma il percorso di Edipo verso una fine che ponga termine alle sue sofferenze è ancora irto di ostacoli: innanzi tutto deve farsi accettare dalla nuova comunità cittadina, e cerca di liberarsi dello stigma che lo marchia protestando vigorosamente la sua “innocenza”, perché inconsapevole che fosse Laio e che fosse suo padre l’uomo che egli anni prima aveva ucciso, e tanto meno che Giocasta fosse sua madre. Alla iniziale presa di distanza degli abitanti di Colono, preoccupati della contaminazione del supplice, fa da contraltare l’accoglienza che gli accorda il re Teseo (Sebastiano Lo Monaco), che porta in scena i valori dell’umanità ateniese. A cercare di riportare Edipo nella lotta per il potere a Tebe giungono prima Creonte (Stefano Santospago), poi il figlio Polinice (Fabrizio Falco): ancora un oracolo aveva predetto che la vittoria sarebbe toccata a chi avrebbe potuto contare sul sostegno di Edipo. In due scene successive il vecchio ma ancora iroso Edipo – reso anche più sicuro dall’essere stato integrato tra i cittadini stranieri di Atene – rifiuta ogni tentativo di essere sostegno di una delle parti in causa: Creonte è rappresentante della città governata da Eteocle, che rifiutando di rispettare il patto dell’alternanza ha provocato la reazione di Polinice, che si prepara a muovere guerra alla sua patria. Tuoni a cielo sereno avvisano Edipo che è giunta l’ora della fine: si allontana accompagnato da Teseo e dalle figlie e un messaggero (Danilo Nigrelli) riferirà della sua misteriosa scomparsa, senza dolore, in un luogo noto solo al re ateniese.

IMG_4944L’allestimento siracusano del regista greco Yannis Kokkos, da tempo attivo in Francia, si fa apprezzare innanzi tutto per la qualità degli interpreti. In scena per quasi tutto il dramma, De Francovich riesce efficace in tutto il registro drammatico: da quando compare mendico e sfinito a quando supplica il coro dei cittadini di Colono di accoglierlo, dall’invettiva contro Creonte e Polinice all’accettazione della chiamata finale degli dei verso la sua morte misteriosa. Anche Roberta Caronia (già Antigone nel 2009, la precedente rappresentazione dell’Edipo a Colono a Siracusa, una delle ultime presenze su un palcoscenico di Giorgio Albertazzi) difende appassionatamente il diritto del padre a trovare finalmente pace. Bravo Stefano Santospago a mostrare il volto odioso e ipocrita del potere, che usa le persone per i propri scopi: vestito in modo elegante, ma accompagnato da uomini armati, non esita a rapire le figlie di Edipo quando vede preclusa la via della persuasione. Sebastiano Lo Monaco troneggia calmo ma deciso nel proteggere il suo ospite e nel rendergli giustizia. Fabrizio Falco, roso dalla rabbia verso il fratello, spera invano che il padre abbia dimenticato il trattamento ricevuto dai figli. Meno convincenti mi sono parse invece altre scelte: se l’enorme busto di spalle che domina il palcoscenico allude efficacemente a Edipo che si appresta a lasciare la scena del mondo, non altrettanto comprensibile è lo svolgimento di tutta l’azione drammatica all’interno di quel perimetro “sacro” da cui all’inizio i coloniati fanno allontanare il supplice. La torretta militare e il filo spinato orientano precisamente l’attenzione sul tema del confine e della difesa armata, trascurando però la bellezza di un ambiente incantevole e fiorente (ben noto al pubblico ateniese perché si trovava a breve distanza dal teatro in cui si rappresentava la tragedia). Anche i costumi, con un prevalere complessivo di tonalità scure e neutre (a parte Creonte), trasmettono un senso di uniformità che mi pare contrastare con la vivacità del testo sofocleo: a parte l’ovvia modestia dell’abbigliamento degli esuli, quello del re Teseo, ma anche quello degli ateniesi e che lo accompagnano e dei coloniati che lo attendono, meritavano forse maggior risalto.

Una riflessione finale sul destino di Edipo è ineludibile. Il potente sovrano che era precipitato nell’orrore di due delitti esecrabili nella tragedia più nota (Edipo re) appare qui un reietto, e ormai prossimo alla fine. Tuttavia – in modo misterioso – gli dei gli hanno assicurato non solo una morte a suo modo “eroica”, ma anche che il suo corpo rappresenta un valore, un bene inestimabile per chi lo ospiterà (agli ateniesi non poteva sfuggire il ricordo della vittoria militare conseguita contro i tebani nel 407 a.C. anche grazie all’intervento – si diceva – del fantasma di Edipo). Tuttavia pare un “riscatto” che non ripaga lo sventurato figlio di Laio e la sua (e nostra) sete di giustizia. Il testo di Sofocle, peraltro spesso presentato in una anomala trilogia con Edipo re e Antigone (composte decenni prima), contiene inoltre una delle affermazioni più cupe del pessimismo umano (traduzione scenica di Federico Condello per l’Inda): «Non essere mai nati è la fortuna che supera ogni altra. Ma se l’uomo viene alla luce, ritornare presto là da dove è venuto è la migliore sorte che ti rimane» (vv. 1224-8). Per quanto si tratti di espressioni tipiche, come osserva Guidorizzi, di una tradizione della poesia lirica (per esempio Teognide), sembra di leggere una resa circa la possibilità di una comprensione del reale: siamo ben lontani da qualche consolatoria interpretatio christiana per la sorte di Edipo, opportunamente rifiutata dal traduttore Condello.

Il sacrificio a lieto fine dell’eroina Alcesti

2016-05-14 18.57.49Rappresentare un testo come l’Alcesti di Euripide pone alcune difficoltà particolari. Non può essere infatti valutata come una tradizionale tragedia greca: fu rappresentata nel 438 come quarta opera dopo una trilogia tragica, ma non è un dramma satiresco. Da secoli le interpretazioni dei critici sulla sua esatta classificazione sono discordanti. La vicenda infatti nasce tragica (Alcesti accetta di morire al posto del marito Admeto, re della tessala Fere, e muore in scena) ma termina con un apparente lieto fine (la regina viene strappata al dio Thanatos da Eracle), non senza avere attraversato il territorio della commedia (la scena pantagruelica dello stesso Eracle in casa di Admeto). E nell’intreccio tra morte e vita Euripide pone in discussione alcune consuetudini del codice tragico.

Lo spettacolo allestito dall’Istituto nazionale del dramma antico (Inda) al teatro greco di Siracusa a cura del regista Cesare Lievi si apre con un singolarissimo adattamento: alla presenza di due divinità greche (Apollo e Thanatos) in abiti adatti al mito, si svolge un funerale cattolico con tradizionale processione, che crea però un certo senso di disorientamento, apparendo un elemento totalmente fuori contesto. Il telo che gli dei mitologici calano in modo repentino sul corteo funebre sembra una catastrofe (come il crollo di un palazzo) che colpisce all’improvviso l’umanità e rappresenta – forse – l’imprevedibilità della vita, che può da un momento all’altro tramutarsi in morte per chi casualmente si trova nel posto sbagliato.

Non è un caso invece la sciagura di Alcesti, prevista da tempo (secondo Euripide), e argomento del dialogo successivo tra Apollo (Massimo Nicolini) e Thanatos (Pietro Montandon) che chiariscono l’antefatto: il primo ha ottenuto con un inganno che il re Admeto potesse scampare la morte, il secondo ha preteso che un altro ne prendesse posto, ma nessun amico o parente (neppure gli anziani genitori) ha accettato, se non la giovane moglie Alcesti. Ora Thanatos non accetta più alcuna dilazione, anche se Apollo prefigura la salvezza finale della donna.

2016-05-14 19.14.25Si è giunti al giorno in cui deve compiersi il destino di morte. Dal palazzo (bella e lineare la scenografia, accompagnata da un tappeto di 1.400 papaveri rossi, il fiore dell’oblio) esce un’ancella (Ludovica Modugno) per raccontare al coro di uomini di Fere (sorti redivivi da sotto il telo di morte che ha coperto la processione funebre iniziale) la preparazione di Alcesti ad abbandonare la vita. Con una trovata scenicamente molto efficace, il tendaggio del palazzo viene sollevato e gli spettatori hanno modo di vedere all’interno la rappresentazione di Alcesti (Galatea Ranzi) che compie gli atti narrati dall’ancella: purificazione rituale, preghiera a Estia, compianto della propria sorte sul letto coniugale. Segue la scena straziante della morte di Alcesti in scena, davanti ad Admeto (Danilo Nigrelli), ai due figli, all’ancella, al coro (e agli spettatori): si fa però promettere da Admeto (che accetta), che egli mai si risposerà per non dare una matrigna ai figli di primo letto, che rischierebbero di essere maltrattati.

L’incipiente cordoglio funebre del coro dei cittadini di Fere (e nel palazzo di una schiera di donne) viene interrotto dall’arrivo di Eracle (Stefano Santospago), che sta recandosi a compiere una delle sue fatiche, la cattura delle cavalle di Diomede in Tracia. La banda che accompagna Eracle con una musica festosa indica un netto cambiamento di clima: Admeto, per non tradire il legame di amicizia e il dovere di ospitalità, nasconde la verità e dichiara che il lutto è per una donna morta in casa sua, ma non la moglie, e convince Eracle ad accomodarsi nel palazzo.

2016-05-14 20.00.08-2L’entrata in scena del padre di Admeto, Ferete (Paolo Graziosi) che vuole onorare la nuora morta, genera un violento scontro con il figlio, che gli rinfaccia di non aver voluto sacrificarsi dopo una vita lunga e felice. Ma Admeto deve fare i conti con la realtà: il padre lo rintuzza mettendolo di fronte al fatto che nessuno (nemmeno i genitori) ha il dovere di morire al posto di un altro, e che egli – Admeto – è in fondo il vero responsabile della morte di Alcesti, del cui destino la famiglia di lei potrebbe chiedergli conto. Il corteo funebre (coro e ancelle di casa) si avvia poi a seppellire Alcesti, mentre sulla scena un servo (Sergio Mancinelli) racconta le indecenti gozzoviglie di Eracle nella casa in lutto, ancora una volta efficacemente mostrate sulla scena sollevando il tendaggio del palazzo. Nel dialogo con il servo (inutilmente caratterizzato in senso omosessuale) Eracle finalmente scopre chi è la donna per cui c’era lutto e se ne va per cercare di recuperarla.

Admeto, rientrato dal funerale, sembra ormai consapevole («ora capisco») che non solo ha perso la moglie, ma che il giudizio di contemporanei (e posteri) lo biasimerà, ed egli raccoglierà solo disprezzo: gli verrà rinfacciato di non aver avuto «il coraggio di morire», mentre Alcesti risulterà un’eroina. Mentre il coro (ben guidato dai corifei Sergio Basile e Mauro Marino) cerca invano di consolare Admeto, rientra Eracle spingendo un piccolo carretto, inizialmente coperto da un telo: togliendolo, appare una donna che – spiega l’eroe – egli stesso ha vinto quale premio in una competizione molto faticosa. Eracle si lamenta di non essere stato avvisato della reale portata della sciagura che aveva colpito Admeto, e cerca di convincere il re a portarla in casa, ma questi – tenendo fede alle promesse fatte alla moglie – vuole rifiutare, evitando persino di guardare con attenzione la figura femminile che gli sta vicino. Quando alla fine riconosce che la donna (muta perché ancora sotto l’effetto degli dei inferi) è Alcesti, la riconduce in casa come con un nuovo ingresso nuziale. Nel lasciare la scena Eracle impugna la croce della processione funebre che aveva aperto la rappresentazione e la scaraventa lontano come un oggetto senza senso. Se – circolarmente – questo gesto riporta alla scena iniziale dello spettacolo, ancora una volta non se ne comprende il significato: la distanza tra fede cristiana e politeismo greco sul tema della morte (e della risurrezione) è già evidente nelle reazioni al discorso di Paolo all’Areopago di Atene (At 17,32) e difficilmente colmabile da un personaggio come l’Eracle delle 12 mitiche fatiche. Inutile quindi – come fa il regista Lievi nella volume di presentazione degli spettacolo – sottolineare il «nessun rimedio al nulla se non la speranza di un ricordo» della concezione greca, quando Euripide ha sollevato altri problemi.

Come ha efficacemente esposto Anna Beltrametti, docente di Letteratura greca all’Università di Pavia, alla conferenza di “ScenAntica” (lo scorso 22 aprile a Pavia) riferendo le conclusioni di un suo studio in corso di pubblicazione, tema principale dell’Alcesti di Euripide è quello del rapporto tra patti sociali (le nozze, l’ospitalità) e legami di sangue, collocato nel racconto mitico della sostituzione nella morte di una persona giovane, cui si rende disponibile solo il coniuge, che viene poi con qualche “miracolo” salvato. Morire al posto di un altro è un motivo narrativo diffuso sin dall’antichità, che Albin Lesky analizzava in uno studio giovanile (Alkestis, der Mythus und das Drama, del 1925) individuandone la diffusione nell’area germanico-russo-baltica, dove in genere trova la morte il marito, e nell’area turco-armena e tessalica (greca), dove muore la moglie. La novità di Euripide – sottolinea Maria Pia Pattoni, traduttrice del testo rappresentato a Siracusa – è mettere una distanza di anni tra la decisione di sacrificarsi in favore dello sposo e la sua effettiva realizzazione. Il che aggiunge pathos tragico a tutta la vita dei protagonisti.

La rottura delle convenzioni sceniche da parte di Euripide, ha spiegato Anna Beltrametti, risulta evidente in alcune scene: la tradizionale preparazione del cadavere avviene prima della morte nei gesti che Alcesti compie in casa; nel dialogo tra Admeto e Alcesti l’eroina rivendica in modo assoluto ed eccessivo un proprio valore superiore a quello di qualunque altra donna e – nello stesso tempo – mai Admeto viene sfiorato dall’idea di rinunciare all’oblazione di sé da parte della moglie e affrontare il suo destino.

2016-05-14 20.23.25Fino alla scena finale con il «mancato» riconoscimento, in cui un Admeto spaesato e straniato stenta a riconoscere la propria moglie nella donna muta che Eracle gli porge. Si tratta di una scena in cui Alcesti viene quasi sempre presentata coperta da un velo da una tradizione che nasce addirittura con l’argomento di Dicearco e con gli scoli antichi: un particolare però che non si trova nel testo di Euripide, e quindi decisamente contestato da Anna Beltrametti. Proprio il senso di «fuga dalla realtà» di Admeto che non «vede» la moglie perché non riesce a immaginare che possa essere tornata dai morti, conferma il fatto che Alcesti non potesse essere velata. Opportunamente la rappresentazione siracusana presenta Alcesti a capo scoperto, statica e terrea in volto: Admeto cerca di non guardarla se non di sfuggita, non la riconosce se non quando viene quasi obbligato da Eracle a prendersene cura. Molti quindi i pregi dello spettacolo in scena al teatro greco di Siracusa, poco comprensibili alcune scelte fuori contesto rispetto alla complessità del dramma euripideo.