Malattie rare, è tempo di aggiornare i Lea

Il 29 febbraio, in occasione della Giornata mondiale delle malattie rare, il mio articolo pubblicato su Avvenire nelle pagine della sezione è vita, con le aspettative delle associazioni dei pazienti, esplicitati dalla presidente della Federazione Uniamo Annalisa Scopinaro, e l’invito al confronto e al dialogo tra i diversi “attori” nel convegno svoltosi oggi all’Irccs “Eugenio Medea” di Bosisio Parini (Lecco) coordinato dalla neurologa Maria Grazia D’Angelo.

Approvato lo scorso anno, il Piano nazionale delle malattie rare (Pnmr) ha cominciato il suo cammino, ma non mancano le criticità che preoccupano la Federazione Uniamo (che riunisce le associazioni dei pazienti), a partire dai passi da compiere per definire i nuovi Lea (Livelli essenziali di assistenza). L’odierna Giornata mondiale delle malattie rare – rare come il 29 febbraio – è l’occasione per ribadire la necessità di dialogo e collaborazione stretti tra malati e famiglie, medici e ricercatori, e istituzioni, sanitarie e non, come evidenzia la campagna lanciata dal ministero della Salute: #Uniamoleforze. Nella stessa ottica va il convegno “Parliamoci” in programma sabato 2 marzo all’Irccs “Eugenio Medea” di Bosisio Parini (Lecco). Ed esempi di alleanza virtuosa sono le recenti collaborazioni strette tra Uniamo e la Società italiana di neurologia (Sin) e tra l’Osservatorio malattie rare (Omar) e la Società italiana di genetica umana (Sigu).

Le malattie sono sì rare (colpiscono non più di 5 persone su 10mila), ma sono oltre 6mila e coinvolgono due milioni di pazienti in Italia. Hanno origine genetica nell’80% dei casi e 7 su 10 hanno esordio in età pediatrica. Il Pnmr prevede un finanziamento per 50 milioni di euro, il cui riparto è stato approvato nel novembre scorso dalla Conferenza Stato-Regioni. Per accedervi è necessario che le Regioni emanino gli atti di recepimento e individuino i centri della Rete nazionale delle malattie rare, comunicando i dati sull’assistenza erogata: numero di pazienti con diagnosi di malattia rara, numero di piani terapeutici assistenziali personalizzati e aggiornamento del Registro nazionale delle malattie rare (attivo presso il Centro nazionale malattie rare all’Istituto superiore di sanità, diretto da Marco Silano).

«I fondi stanno arrivando adesso – osserva Annalisa Scopinaro, presidente della Federazione Uniamo – perché le Regioni stanno ultimando la definizione degli atti richiesti dalla legge. E quindi potranno partire le azioni previste dal Pnmr, anche se alcune attività non si sono mai interrotte perché previste già dalla legge 279/2001». Difficile fare una scelta tra le azioni prioritarie: «Tutto è importante per migliorare la vita quotidiana delle persone con malattia rara – puntualizza Scopinaro –, a partire dall’aggiornamento dei Lea, che sono fermi nonostante la prima loro approvazione risalga al 2017. Nei due decreti che devono aggiornarli sono contenute 12 patologie rare che devono trovare il loro codice di esenzione, oltre alle patologie neonatali inserite negli screening neonatali estesi. Lavoriamo con le istituzioni perché il processo di aggiornamento in futuro possa essere più veloce e abbiamo già presentato 30 domande per l’implementazione dei Lea».

Per garantire maggiore equità, Scopinaro sottolinea la richiesta di «giungere a un accordo tra le Regioni su un “minimo comune multiplo“ dei trattamenti ora garantiti ai pazienti extra Lea, perché alcune Regioni si possono permettere di fornire maggiori prestazioni di altre, causando discriminazioni tra i malati a seconda della loro residenza. L’obiettivo è far inserire queste azioni e terapie nei Lea stessi». Nonostante le difficoltà, Scopinaro ritiene che il bicchiere sia «mezzo pieno perché nel Pnmr sono scritte azioni concrete. Dal punto di vista dei pazienti dobbiamo monitorare per cosa vengono utilizzati i fondi stanziati. E continuare a premere sul mondo politico-istituzionale perché questi i fondi possano diventare strutturali».

Alla collaborazione guarda il convegno “Parliamoci” a Bosisio Parini coordinato da Maria Grazia D’Angelo, responsabile dell’Unità di Riabilitazione specialistica Malattie rare del sistema nervoso centrale e periferico, all’Irccs “Eugenio Medea”, che interverrà sulla comunicazione tra le varie figure: «Noi specialisti siamo in dialogo con i pazienti e le loro famiglie per chiarire il percorso che porta alla diagnosi e le difficoltà che riscontriamo. D’altre parte famiglie e pazienti ci raccontano le loro difficoltà, a partire dal percorso diagnostico, che nasce con il primo sospetto, la segnalazione del pediatra o del medico di famiglia. Se tutto procede bene, si invia il paziente a un Presidio per le malattie rare: ce ne sono in molti ospedali di ogni Regione».

E se arrivare a una diagnosi è una delle difficoltà maggiori per i pazienti, che spesso attendono anni, comunicarla è delicato: «La maggior parte della malattie rare sono geneticamente determinate – osserva D’Angelo –, il che significa che se il paziente ha un gene che determina la malattia, potenzialmente tutta la famiglia diventa oggetto di attenzione. Dobbiamo comunicare a sorelle e fratelli la possibilità di essere portatori di una malattia: è un aspetto nevralgico per il medico genetista e il biologo molecolare. Occorre essere chiari con il paziente». Anche per evitare la ricerca di informazioni su Internet, «dove può capitare di orientarsi verso una direzione sbagliata, o di vedere l’evoluzione della malattia perdendo la capacità di gestire il momento attuale».

Il paziente affronta la malattia a casa: «Va capito come gestire la malattia – conclude D’Angelo – ed eventualmente una terapia, e chiedere sul territorio i trattamenti riabilitativi. Se è un bambino, occorre gestire il rapporto con scuola e insegnanti. Spesso non c’è una figura unica che tenga insieme tutti i percorsi, anche se qualche Presidio delle malattie rare – ma non tutti – offre l’aiuto di assistenti sociali».

Anelli (Fnomceo): basta tagli, la sanità è un investimento

Il mese scorso, al Meeting di Rimini, si è svolto un dibattito sul futuro della sanità, al quale è intervenuto con un messaggio il ministro della Salute, Orazio Schillaci. Aspettative e suggerimenti dei medici sono espressi dal presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), Filippo Anelli, in questa mia intervista comparsa su Avvenire lo scorso 26 agosto. In pagina, la precedeva una breve introduzione (qui in nero) che riassume i termini del dibattito in vista della Legge di bilancio. Di cui presto si tornerà a discutere.

«Ereditiamo un decennio di tagli lineari che è costato 37 miliardi alla sanità», ha sottolineato il ministro della Salute, Orazio Schillaci in un messaggio al dibattito sulla sanità svoltosi al Meeting di Rimini. «Con la prossima legge di bilancio puntiamo a risorse aggiuntive del Fondo che intendo destinare prioritariamente al personale sanitario». Risorse che, un mese fa, lo stesso ministro aveva quantificato in 3-4 miliardi di euro. Una cifra su cui si è acceso il dibattito dopo che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha richiamato tutti al realismo, dichiarando che la prossima Manovra sarà «complicata». Di qui lo scetticismo che serpeggia sulla possibilità di dare corso alla «forte cura ricostituente» per il Servizio sanitario nazionale (San), ritenuta necessaria da Schillaci. Che alla platea del Meeting ha annunciato l’intenzione di «rendere più attrattivo il nostro sistema sanitario» con «stipendi migliori soli operatori della sanità», e rivedendo il «modello organizzativo». Puntando a liberarsi di «paletti e tetti di spesa vari». Il ministro si è detto «impegnato in una strategia di medio-lungo termine: gli interventi tampone o il semplice aumento di fondi non hanno mai portato nei fatti a garantire la salute a tutti. Serve ripensare a una medicina pubblica più vicina alle persone, e più innovativa». Ma il San, dopo la crisi Covid, non può più attendere.

«È chiaro ormai che spendere in sanità rappresenta un investimento, e non solo per la salute. Questo deve essere il criterio che guida ogni futura riforma». Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), concorda con il ministro della Salute, Orazio Schillaci: «Per migliorare l’attrattività del Servizio sanitario nazionale (Ssn) servono incentivi economici per i professionisti, ma anche un’organizzazione che ne valorizzi le competenze». 

«Puntiamo a risorse aggiuntive» ma «il semplice aumento di fondi non basta a garantire la salute a tutti». Il ministro  Schillaci ha detto che il Ssn ha «bisogno di una forte cura ricostituente». Che cosa occorre, secondo la Fnomceo? 

Il tema è di carattere culturale: i problemi sono di lunga data, perché ereditiamo l’idea che la sanità sia un costo. L’inversione di tendenza si è avuta durante il Covid, quando il ministro Roberto Speranza ha più volte ribadito che non saremmo tornati alla stagione dei tagli. Ho fiducia che questa promessa sarà mantenuta dal ministro Orazio Schillaci. Significa un cambio di prospettiva: dall’idea di doversi mantenere entro la spesa stabilita al considerare la sanità come un investimento. Il Ssn genera benefici non solo per la salute (basta pensare che abbiamo l’indice di sopravvivenza tra i più alti al mondo) e per l’equità (un sistema universalistico che garantisce la salute a tutti a prescindere dalla capacità contributiva), ma è anche un motore di sviluppo economico, come alcuni Paesi europei – tra cui Francia e Germania – hanno già ben capito. Uno dei fattori che spinge la produttività è proprio il Ssn, a cui questi Paesi dedicano più del 10% del Pil, perché ogni euro investito torna indietro raddoppiato: le risorse diventando un volano di crescita economica e stabilità sociale. Per l’Italia stiamo raccogliendo nel dettaglio i dati con il Censis e li presenteremo in autunno. 

Schillaci ha parlato di sistema ingolfato, che non si è innovato, e vorrebbe agire su due leve, economica e organizzativa. Su questo fronte cosa servirebbe per migliorare le condizioni di lavoro dei medici? 

C’è un dato sociologico importante, che abbiamo rilevato come Fnomceo due anni fa quando abbiamo posto la questione medica. Abbiamo scoperto che il 30 per cento dei giovani medici era disposto a dimettersi nel momento in cui le condizioni di lavoro non garantivano una qualità di vita privata sufficientemente accettabile. È anche una conseguenza del fatto che la disponibilità di lavoro è piuttosto ampia: se uno lascia il Ssn trova impiego nel privato, o ancora meglio all’estero. 

Ma è anche vero che il mondo della sanità sta cambiando rapidamente: ci sono 31 professioni sanitarie riconosciute, con competenze specifiche. Questo impone che il medico non svolga il suo lavoro da solo, ma in équipe, dove l’interazione tra professionisti è la vera innovazione. Il lavoro svolto con le diverse professioni sanitarie (infermieri, ostetriche, psicologi, tecnici, ecc.) porterà a un passaggio culturale fondamentale che sarà recepito anche nel nuovo Codice deontologico dei medici. 

Schillaci ha focalizzato il problema, l’attrattività della professione non è solo una questione di carattere economico, anche se su questo punto la forbice si è troppo allargata tra Italia ed estero. 

Il dibattito sull’organizzazione chiama in causa il Decreto ministeriale 77 del 2022 sulle cure territoriali. È qui uno dei nodi principali? 

La discussione si è incentrata molto sulla opportunità di avere medici di medicina generale dipendenti o convenzionati, come è adesso. Dal punto di vista deontologico quest’ultima scelta garantisce meglio la libera scelta del cittadino, e il legame con il suo medico di famiglia. In origine, nella legge 833 del 1978, con la convenzione si voleva favorire una competizione basata sulla scelta di chi rispondesse meglio alle esigenze del cittadino. Però poi sono stati modificati alcuni parametri, e si è passati da un medico ogni mille abitanti, a uno ogni 1.300, poi 1.500, poi 1.800, addirittura 2mila in certi casi. Ma in questo modo si perde il rapporto adeguato con il cittadino. Per non parlare di quei territori dove, per mancanza di un numero sufficiente di medici, il cittadino non può scegliere il medico. Detto questo, con la dipendenza si rischia di perdere il rapporto personale (il direttore generale può mandarti dove vuole) e anche la capillarità del servizio, perché il sistema tende a risparmiare, mentre ora c’è praticamente uno studio in ogni paese. 

Una possibile soluzione, che noi suggeriamo, è far entrare i medici di medicina generale nelle Case di comunità attraverso le loro forme associative. Verrebbe garantita un’adeguata presenza dei medici nelle Case di comunità, salvaguardati la capillarità dell’assistenza e il diritto del cittadino alla libera scelta del suo medico di fiducia. Si può approfittare del rinnovo dei contratti per inserire norme che favoriscano questa applicazione del Dm 77. 

Tuttavia la carenza di medici nel Ssn chiama in causa anche le risorse, come ha ammesso il ministro. Come invertire la rotta? 

L’errore del passato è stato di non aver puntato sui professionisti, e soprattutto non aver definito gli standard. E anche il Pnrr, per sua natura, interviene su strutture e strumenti e non sui professionisti, che però sono quelli che “fanno” la sanità. Per il pareggio di bilancio la voce tagliata è sempre stata quella del personale, ma se non si definiscono bene quanti operatori servono per ogni tipo di reparto, le condizioni di lavoro peggiorano, generando il disagio profondo a cui assistiamo. Tra l’altro, noi medici abbiamo l’obbligo deontologico di ascolto e dialogo con il paziente, e la legge 219/2017 ha stabilito che il tempo della comunicazione è tempo di cura e non può essere contingentato, non può essere determinato dal numero carente degli operatori. L’auspicio nostro è che – dopo i decreti 502 e 517 degli anni Novanta, che erano improntati a un criterio economicistico – si torni all’ispirazione della legge 833/78, dando maggior peso a cittadini e professionisti, ma correggendo gli errori che avevano portato la spesa fuori controllo. 

Negli ultimi tempi si è parlato anche di formazione e possibile abolizione del numero chiuso. Serve per rimediare alla mancanza di medici? 

In realtà il numero di medici in Italia è di 4 ogni mille abitanti, la media negli Stati dell’Ocse è 3,8 e negli Stati Uniti è 2,6. Il problema è che non vanno a lavorare nel Ssn. Credo che dobbiamo respingere l’idea nostalgica di tornare al passato abolendo il numero chiuso, facendo una selezione naturale di chi riesce a superare il primo biennio. Quando ho iniziato io, la qualità della formazione non era eccellente: eravamo tantissimi, non tutti entravano nelle aule, e il rapporto con i docenti era di basso livello. Penso piuttosto che sarebbe da incentivare il modello di una selezione che viene anticipata alle scuole superiori, grazie al modello dello studio della biologia con curvatura biomedica negli ultimi due anni di liceo: tra i ragazzi che seguono i corsi, un 30% abbandona, ma gli altri capiscono quale può essere la loro strada e riescono a superare più facilmente anche il concorso di medicina. È un modello che si può migliorare ma che sembra funzionare.  

Il ministro ha parlato anche di dare risposte «appropriate». C’è un problema anche nella domanda di prestazioni, non sempre necessarie o adeguate scientificamente? 

L’appropriatezza delle prestazioni è un tema affrontato da 15-20 anni, ci hanno provato tutti. L’attività medica si basa su due pilastri: l’evidenza scientifica e il diritto del cittadino a scegliere quali cure ricevere. Due principi cardine spesso richiamati dai giudici. Noi medici siamo consapevoli che non possiamo imporre nemmeno le evidenze scientifiche, ma questo principio non può essere in competizione con l’appropriatezza: devono viaggiare insieme. E quello che i cittadini decidono di fare non è irrilevante per il Ssn, ma i principi dell’appropriatezza non possono essere garantiti dal paternalismo medico del passato, ma solo grazie alla capacità di confronto con il cittadino-paziente. Sarà un principio di cambiamento del Codice deontologico e speriamo anche della formazione del medico: la comunicazione diventa strumento essenziale della professione.

“La Pace”, la lezione di Aristofane che gli uomini non hanno imparato

La mia recensione dello spettacolo andato in scena al teatro greco di Siracusa pubblicata su Avvenire del 18 giugno 2023, nella sezione Agorà.

Quanto è desiderabile la pace? A un contadino garantisce lavoro e raccolti, banchetti e festeggiamenti, a un mercante di armi procura la rovina degli affari. Le scene finali della Pace di Aristofane, in cartellone fino al 23 giugno al teatro greco di Siracusa, rappresentano vividamente i differenti punti di vista, ma tutta la trama della commedia evidenza la stolidità degli uomini che troppo spesso preferiscono combattersi anziché collaborare, e seguono i cattivi maestri che fomentano i dissidi.

La pace di Aristofane non era mai stata rappresentata a Siracusa: quest’anno l’Istituto nazionale del dramma antico (Inda) l’ha proposta quale terza opera della 58ª stagione di spettacoli classici. L’allestimento delle commedie aristofanee richiede sempre un certo grado di adattamento del testo, ricco di allusioni e riferimenti all’attualità dell’Atene del V secolo a.C. che al pubblico odierno può facilmente risultare oscura. Ma se è inutile sottolineare l’estrema urgenza del tema “pace”, mentre è in corso una guerra devastante e pericolosa nel cuore dell’Europa, è merito del regista Daniele Salvo non avere ecceduto nei riferimenti alla contemporaneità, richiamata solo da un “Vladimir-Cleone” e dalle bandiere degli Stati europei che appaiono alla fine.

La vicenda è fantasiosa e surreale. Siamo nel 421 a.C. e la guerra tra Atene e Sparta imperversa da quasi dieci anni: il vignaiolo ateniese Trigeo (un deciso e genuino Giuseppe Battiston) è intenzionato a raggiungere Zeus per capire perché stia lasciando distruggere i greci. Si servirà di uno scarabeo stercorario per volare in cima all’Olimpo: i servi di Trigeo sono quindi costretti all’ingrato compito di fornire e impastare grandi quantità di escrementi per rifocillare l’insetto volante.

Giunto alla dimora degli dei, il vignaiolo trova solo Ermes (Massimo Verdastro) perché – disgustati dai greci – gli dei hanno traslocato lontano e hanno lasciato gli uomini in balìa di Polemos, dio della guerra (Patrizio Cigliano), che ha imprigionato la dea Pace. Polemos è rallentato nella sua azione per ridurre in poltiglia i greci dalla scomparsa dei “pestelli”, cioè l’ateniese Cleone e lo spartano Brasida, che erano i maggiori fautori della guerra. Ne approfitta Trigeo che, chiamati a raccolta contadini da tutta la Grecia, si impegna a liberare la Pace dalla caverna dove era rinchiusa. Dopo un lungo tiro alla fune la Pace (Jacqueline Bulnés) riemerge, accompagnata dalle sue ancelle – anch’esse eclissatesi nel clima di guerra – Opora (abbondanza) e Teoria (festa), rispettivamente Federica Clementi e Gemma Lapi, e tutte e tre, avvolte in bianchi veli, non cessano di danzare.

Tornato in patria, Trigeo si prepara a festeggiare il matrimonio con Opora e a donare Teoria ai “parlamentari” di Atene, un insieme di loschi figuri in giacca e cravatta ma dal volto coperto come i rapinatori. Nelle scene finali, mentre si prepara il pranzo nuziale, il fabbricante di attrezzi agricoli e quello di anfore vengono a ringraziare Trigeo per aver potuto riprendere le loro attività, mentre il mercante di armi, accompagnato dai fabbricanti di elmi e di lance, lo maledice perché i suoi affari sono prossimi al fallimento. La festa per il matrimonio fra Trigeo e Opora può iniziare.

La traduzione di Nicola Cadoni avvicina molto il testo al linguaggio contemporaneo. E se, nella resa scenica di un testo già sufficientemente involgarito da battute relative all’alimentazione dello scarabeo, si può apprezzare l’aver sorvolato su alcuni doppi sensi osceni aristofaneschi (peraltro tipici della commedia), risulta francamente incomprensibile rivolgersi a Ermes per «dire messa», in un clima devozionale cristiano del tutto fuori contesto.

Sulla scena (di Alessandro Chiti) trova posto la casa di Trigeo, con annesso porcile per allevare lo scarabeo, che poi si librerà in cielo (installazione di Michele Ciacciofera), mentre al centro una grande sfera lucida rappresenta l’Olimpo. Sul palcoscenico una carta geografica della Grecia, che viene poi “risucchiata” dall’azione di Polemos. Variopinti i costumi (di Daniele Gelsi): soprattutto l’insieme dei contadini richiama le opere di Hyeronimus Bosch e il loro incedere compatto – armati di attrezzi agricoli, una schiera di soldati pacifici – rievoca il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo.

Convincenti i cori (composti dagli allievi dell’Accademia d’arte del dramma antico dell’Inda e guidati da Elena Polic Greco e Simonetta Cartia) con i movimenti di Miki Matsuse, gradevoli le musiche di Patrizio Maria D’Artista, così come azzeccato appare il multilinguismo dialettale dei personaggi, che rende evidente la provenienza dei contadini da diverse città della Grecia. Nel complesso, uno spettacolo che avvince e diverte.

Due aggiunte al testo aristofaneo: all’inizio una battaglia tra due schiere serve bene a introdurre nel clima di guerra. Viceversa appare eccessivo, in chiusura, il discorso della Pace – in realtà pronunciato da Giocasta nelle Fenicie di Euripide – per biasimare la sete di potere degli uomini: la rovina che deriva dall’avidità era già emerso in modo chiaro dall’azione scenica. Peccato, si potrebbe aggiungere, che agli uomini non siano bastati quasi 2.500 anni – che ci separano da Aristofane – per apprendere questa lezione.

Ecco gli “angeli custodi” che proteggono il cuore dall’infarto

Intervista alla ricercatrice italiana Claudia Monaco, cardiologa a capo di un laboratorio all’Università di Oxford (Regno Unito), che ha scoperto nelle arterie la presenza di una cellula fattore protettivo contro l’aterosclerosi, e sta studiando la possibilità di sviluppare un farmaco. L’articolo è stato pubblicato su Avvenire lo scorso 17 febbraio, nelle pagine della sezione èvita.

Un fattore che protegge le arterie dall’aterosclerosi, e quindi che riduce il rischio di infarto, è stato individuato da un gruppo di ricerca guidato dall’italiana Claudia Monaco: lo studio è stato pubblicato il mese scorso su Nature Communications. Specializzatasi in Cardiologia presso l’Università Cattolica di Roma con il professor Attilio Maseri, Claudia Monaco è ora docente di Infiammazione cardiovascolare all’Istituto Kennedy dell’Università di Oxford (Regno Unito). «L’aterosclerosi – spiega – è una malattia subdola che restringe i vasi sanguigni, causando ostruzioni al flusso di sangue a organi vitali, come il cuore e il cervello, tramite un accumulo di grasso e trombi dentro il vaso stesso. Sappiamo che alcune forme di aterosclerosi (un processo comune a tutti con l’età) restano gestibili e croniche, mentre altre hanno un decorso problematico che causa infarti e ictus». La scoperta del gruppo di Claudia Monaco apre la strada a nuove strategie terapeutiche che migliorano la risposta immunitaria contro la placca aterosclerotica. Non si tratta di un gene o di una proteina ma di una nuova cellula di cui non si conosceva l’esistenza.

Il seguito dell’articolo si può leggere sul sito di Avvenire

Discriminazione dei disabili, saper vedere dove comincia

Una riflessione sul sostegno della Fish e di CoorDown al ddl Zan, che non giova alla difesa dei diritti delle persone con disabilità. L’articolo stato pubblicato su Avvenire lo scorso 8 luglio

Stupisce, e un po’ addolora, che il mondo della disabilità abbia deciso di ribadire il suo sostegno al cosiddetto ddl Zan così com’è. Da oltre trent’anni mi occupo di questioni sanitarie e bioetiche, e per motivi familiari sono attento alle attività di CoorDown e di Associazione italiana persone Down (Aipd), due grandi realtà impegnate nella difesa dei diritti e nella promozione dello sviluppo delle persone con sindrome di Down. Ho appreso dai social che la Federazione italiana per il superamento dell’handicap (Fish) – di cui Aipd fa parte, ma anche CoorDown ha preso posizione – ha firmato un appello congiunto con Asgi e con Avvocatura per i diritti Lgbti-Rete Lenford per una rapida approvazione nell’attuale formulazione della proposta di legge contro “omotransfobia, misoginia e abilismo” «perché l’uguaglianza o è di tutti e tutte o non è». Tuttavia il principio – vero in astratto – in questo caso diventa solo uno slogan per diversi motivi. (…) Il testo completo può essere letto sul sito di Avvenire

«Medici al centro delle riforme post pandemia»

Filippo Anelli, presidente nazionale degli Ordini dei medici, sottolinea la necessità di valorizzare le competenze dei professionisti per utilizzare bene le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). La mia intervista è comparsa su Avvenire domenica 6 giugno

«Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) non basta puntare sulle strutture, bisogna valorizzare le professionalità, senza stravolgere le competenze. E il Paese ha bisogno di più medici specializzati, si è visto bene con la pandemia». Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), concorda che la campagna vaccinale anti Covid-19, se diventerà annuale, dovrà andare sul territorio: «Come accade per la vaccinazione antinfluenzale. Ma i medici andranno supportati, per il carico di lavoro extra sanitario che richiede».

La vaccinazione anti Covid-19 sta funzionando, basterà a portarci fuori dall’emergenza?

La vaccinazione ha ridotto il contagio, abbattuto la mortalità e ci ha aiutato a uscire dalla fase critica. Lo avevamo visto già per i medici: dopo che sono stati vaccinati tra gennaio e febbraio, abbiamo assistito a un crollo della mortalità da marzo. Non sappiamo però ancora esattamente quanto duri l’immunità: la campagna è iniziata a fine dicembre. Però vediamo che il green pass è già stato prolungato da 6 a 9 mesi, e quello europeo varrà un anno: significa che i primi studi hanno dato risultati migliori di quanto si era pensato.

Se occorrerà una terza dose, la faranno i medici negli ambulatori?

Sulla terza dose, al momento, non ci sono certezze: la natura di un virus che muta suggerisce di essere prudenti e di adottare strategie di vaccinazione annuale. Per quanto il piano vaccinale basato sugli hub abbia funzionato (a parte la necessità di “inseguire” i soggetti fragili con l’aiuto dei medici di famiglia), è chiaro che, in caso di richiami annuali, la gestione non potrà più essere emergenziale, ma dovrà basarsi su servizi sanitari del territorio. Da un lato occorre che i medici “dirottati” sull’emergenza Covid tornino alle loro attività ordinarie per rispondere alla “pandemia silenziosa”: liste di attesa che si allungano, diagnosi tardive, difficoltà di accesso alle prestazioni. Dall’altro non bastano i dipartimenti di prevenzione delle Asl: è ragionevole prevedere il coinvolgimento dei medici di medicina generale (mmg). Tuttavia il carico di lavoro extra sanitario che i vaccini anti Covid comportano (organizzare e chiamare i pazienti) fa sì che si debbano prevedere adeguati “rinforzi”. Inoltre rispetto al vaccino antinfluenzale, monodose e conservato per sei mesi nei normali frigoriferi, quelli anti Covid a mRna sono in flaconi polidose, 6 per Pfizer e 10 per Moderna, da utilizzare interamente una volta aperti.

Ci sono stati medici che non hanno voluto vaccinarsi. È ragionevole che ci sia un obbligo per il personale sanitario?

Su circa 460mila medici, i “no vax” sono pochissimi. Sull’obbligo vaccinale del personale sanitario c’è una sentenza dalla Corte Costituzionale (137/2019) che ha riconosciuto valida una legge della Regione Puglia che lo prevedeva per chi lavora in alcuni reparti. La Consulta ha stabilito che per un operatore sanitario una protezione come il vaccino rappresenta non un “obbligo” ma un “requisito” per svolgere l’attività, anche in termini di sicurezza del lavoro per sé e per i pazienti (ci sono professioni per le quali la vaccinazione antitetanica è un requisito). Avevamo lamentato la mancanza dei dispositivi di protezione individuale all’inizio della pandemia: oggi la vaccinazione si dimostra il miglior presidio per la sicurezza.

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) prevede 20 miliardi per la sanità. Quali i suggerimenti della Fnomceo?

Il Pnrr è uno strumento teso a colmare le disuguaglianze e le carenze di carattere strutturale. Prevede, per esempio, 4 miliardi per rinnovare le apparecchiature obsolete. Poi risorse per l’ammodernamento tecnologico, il fascicolo sanitario elettronico, la messa in sicurezza degli ospedali secondo la normativa antisismica. Mi pare però che manchi altrettanto investimento sulle professioni. Si parla di case di comunità, ospedali di comunità, assistenza territoriale, ma i professionisti restano ai margini: non è possibile una riforma del Servizio sanitario nazionale (Ssn), soprattutto sul piano territoriale, se non si coinvolge chi deve metterla in atto. Per potenziare l’assistenza primaria, non basta fare le case della comunità, occorre che i medici possano lavorare in équipe con assistente di studio, infermiere, ostetrica, terapisti, psicologi, cioè integrando le professionalità. Siamo contrari allo slittamento delle competenze, cioè a dare i compiti del medico ad altri professionisti: significa abbassare la qualità dell’assistenza. Esiste anche un problema di governance. Bisogna evitare che il modello delle aziende sanitarie serva solo per contenere i budget: di recente il presidente della Consulta ha ribadito che i diritti di salute non possono essere sacrificati per esigenze di bilancio. Nella misura 6 del Pnrr questo tema è accennato, ma solo in termini di principio.

Che cosa proponete dunque?

Sulla scia del dibattito negli Stati generali della Fnomceo, accanto al Pnrr abbiamo lanciato la questione medica, cioè la necessità di definire con precisione i confini della professione. Il medico fa diagnosi e terapia. Se l’infermiere si specializza ben venga, così come altri terapisti, ma senza invasioni di campo. Occorre valorizzare le competenze di professionisti che devono lavorare insieme, e non in conflitto: se nelle case della salute ci saranno équipe multifunzionali, è opportuno che le competenze siano ben definite. E poi manca personale. L’abbiamo visto nella pandemia: non basta raddoppiare i respiratori per le terapie intensive, se per farli funzionare non abbiamo un numero sufficiente di anestesisti rianimatori. Ma per ovviare alla carenza di medici, occorre un’adeguata programmazione.

Si riferisce al cosiddetto “imbuto formativo”?

Sì, tutti i medici devono avere la possibilità di trovare un percorso formativo post laurea: una scuola di specialità o il percorso della medicina generale. È un atto di giustizia nei confronti dei giovani. Servirebbe che fosse stabilito per legge, perché nessuno sia penalizzato e magari scelga di espatriare, causando un danno non solo economico al Paese. Il Pnrr ha stanziato 4mila borse post-laurea per le specialità e 2mila per la medicina generale, ma deve diventare un provvedimento duraturo e non occasionale.

Nel Pnrr è anche accennata la possibilità che i mmg diventino dipendenti del Ssn. Una prospettiva praticabile?

Mi pare che sia una questione più ideologica che pratica. Da quando esisteva il medico condotto a oggi è sempre stato salvaguardato il diritto del cittadino di scegliere il proprio medico. Recentemente uno studio sul British medical journal ha mostrato che seguire per lungo tempo un paziente migliora gli indici di sopravvivenza. La scelta della persona a cui affidare la propria salute sviluppa un importante legame di fiducia che valorizza anche l’autodeterminazione del paziente e la tutela della sua dignità. All’interno del Ssn, la scelta del medico si è realizzata solo con l’intramoenia, che non mi pare una soluzione perfetta dal punto di vista della giustizia sociale.

Contro la didattica a distanza: “uccide” i nostri giovani. E il futuro del Paese

A vincere su tutto sono i numeri (ormai gestiti in modo incomprensibile) utilizzati per spargere paura e paralizzare ogni ragionamento che non sia: chiudiamo tutto e aspettiamo il vaccino. Peccato che finora il virus non sembri aver “obbedito” alla strategia adottata (il discorso sarebbe lungo) e che quando – l’estate scorsa – il contagio aveva rallentato la sua corsa, le misure messe in campo non abbiano riguardato il potenziamento dei trasporti o altre proposte di screening in ambito scolastico, bensì il bonus monopattini o i banchi a rotelle.

I morti sono veri e meritano rispetto, ma non per giustificare una gestione della seconda fase dei contagi che stava diventando una gigantesca e tragica farsa, come si è intuito all’inizio di dicembre. Quando, contraddicendo le promesse di fine ottobre («chiudiamo ora per salvare il Natale» con la creazione delle zone rosse, arancioni e gialle) il governo decise le restrizioni più dure proprio durante le settimane delle festività natalizie, mentre gli indicatori sulla diffusione del virus stavano portando tutte le Regioni a diventare “gialle”. Siamo quindi rimasti gialli per tre giorni (ma vietando spostamenti tra Regioni), poi rossi per quattro, arancioni per tre, rossi per quattro, arancioni per uno, rossi per due, per tornare gialli il 7 gennaio. Come se il virus seguisse questo andamento da sismografo impazzito. L’unico obiettivo era impedire di muoversi senza chiamarlo lockdown.

Numeri per un pensiero unico

Ma anche quando sembrava che finalmente si aprisse uno spiraglio per le esigenze dei giovani, ecco la doccia fredda: preceduta – nei primi giorni dell’anno – da un crescente allarmismo di dichiarazioni di politici e di analisi dei giornali, la notte tra il 4 e il 5 gennaio il governo ha deciso di rinviare il rientro a scuola dal 7 all’11 gennaio. Seguito, in ordine sparso, da ordinanze regionali che rimandavano la didattica in presenza di una, due o tre settimane (ultima ieri la Lombardia). Vanificando anche sforzi e programmazioni dei dirigenti scolastici e dei loro collaboratori, che avevano calcolato le presenze (prima del 75%, poi del 50%) degli allievi, le divisioni delle classi anche in base alla residenza degli studenti per non affollare eccessivamente i mezzi pubblici; che avevano concordato in innumerevoli riunioni con i prefetti gli orari di ingresso scaglionato, rivoluzionando l’organizzazione scolastica (talvolta obbligando gli studenti a uscire da scuola alle 15 o alle 16, con pause pranzo ridicole). E che, ancora prima, avevano organizzato gli spazi, i percorsi e gli orari differenziati tra le classi per evitare occasioni di assembramento degli studenti (ovviamente sempre dotati di mascherina).

Che cosa giustifica la decisione? Numeri misteriosi, scelti con criteri mutevoli. Tralascio di calcolare il numero delle morti, che accadono dopo un tempo variabile e piuttosto lungo dal momento dell’infezione (ricordo solo che, in epoca pre Covid, ogni giorno morivano in Italia 1.700 persone). Si segnala ogni giorno la percentuale di tamponi positivi, una cifra inaffidabile: per limitarsi agli ultimi giorni è stato rilevato del 14,9% (27 dicembre), 12,4 (28), 8,7 (29), 9,6 (30), 12,6 (31), 14,1 (1° gennaio), 17,6 (2) 13,8 (3 e 4), 11,4 (5 e 6), 14,8 (7). Ma davvero crediamo che un indice così variabile da un giorno con l’altro misuri l’effettiva diffusione del virus e non dipenda invece dai diversi soggetti che sono stati sottoposti al tampone e dal numero dei test? O da altri elementi distorsivi?
Senza dimenticare che l’informazione sceglie quasi ogni giorno di valorizzare l’indice peggiorativo (se calano i morti, sale il tasso di positivi; se questo scende, salirà il numero di casi o l’occupazione dei posti letto ospedalieri). Intanto il governo ha anche deciso di abbassare la soglia di Rt sopra la quale le Regioni verranno classificate rosse, arancione o gialle, certificando che dei numeri si fa un uso strumentale. E fa sorgere qualche dubbio sull’impostazione univoca imposta: il virus circola, non si può fare altrimenti. Neanche verso il Vangelo, per chi ci crede, c’è tanta fede come verso questo pensiero unico: ma di fronte a un virus nuovo, e quindi in gran parte ignoto, e dopo avere assistito a scienziati che hanno detto tutto e il contrario di tutto, non mi sembra segno di rigore e metodo scientifico.

Dispersione scolastica e disturbi mentali

Il fatto quasi paradossale è che la decisione di rimandare il rientro in classe viene all’indomani della diffusione del rapporto dell’Istituto superiore di sanità (Iss) che segnala che fra il 31 agosto e il 27 dicembre sono stati rilevati 3.173 focolai in ambito scolastico, meno del 2% di quelli rilevati a livello nazionale, concludendo che «la percentuale dei focolai in ambito scolastico si è mantenuta sempre bassa e le scuole non rappresentano i primi tre contesti di trasmissione in Italia, che sono nell’ordine il contesto familiare/domiciliare, sanitario assistenziale e lavorativo». Negli stessi giorni un’altra indagine (realizzata da Ipsos per Save the children) certifica i danni che il lockdown scolastico provoca negli adolescenti e nei giovani, con la stima di 34mila studenti a rischio abbandono. «I ragazzi – riferisce Avvenire – si sentono frustrati dalle scelte per il contrasto al Covid: il 65% è convinto di star pagando in prima persona per l’incapacità degli adulti di gestire la pandemia, il 43% si sente accusato dagli adulti di essere tra i principali diffusori del contagio, mentre il 42% ritiene ingiusto che agli adulti sia permesso di andare al lavoro, mentre ai giovani non è permesso di andare a scuola. E serpeggia una certa amarezza. Quasi la metà, il 46%, parla di un “anno sprecato”». Dati che confermano precedenti indagini, come quella dell’ospedale Gaslini di Genova che indicava che con la chiusura delle scuole «negli adolescenti compare maggiore instabilità emotiva con irritabilità e cambiamenti del tono dell’umore, verso il tipo depressivo». Su una popolazione già fragile si è svolta invece l’indagine della Neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza dell’ospedale Bambino Gesù di Roma, diretta da Stefano Vicari: su 128 ragazzi che avevano già bisogno di un supporto psicologico per un disturbo mentale, di età tra 12 e i 17 anni, il 40% ha investito molto meno nello studio con la didattica a distanza e il 35% dice che passa molto più tempo a letto durante il giorno, a guardare il soffitto, o a dormire.

«Vittime della disfunzionalità collettiva»

In questi giorni non sono mancate sui giornali alcune voci che hanno sottolineato quanto la situazione sia grave. Ne cito quattro. Giancarlo Frare, presidente dell’Associazione genitori scuole cattoliche (Agesc), in una intervista su Avvenire del 6 gennaio, parla di «colpo basso che le famiglie non meritavano» ricordando che «tutti gli esperti confermano che questo periodo (di Dad, ndr) avrà conseguenze devastanti su tanti ragazzi. Può rappresentare un danno enorme e va a colpire chi non ha voce e magari nemmeno gli strumenti per sopportare una situazione del genere. Gli studenti sono una categoria completamente dimenticata». E ancora: «Le famiglie erano consapevoli di correre un rischio, ma erano disposte a compiere questo passo pur di non far perdere ulteriori giorni di scuola ai ragazzi. Che, dal canto loro, hanno accettato tutte le regole, sono stati più che diligenti e ora si trovano nuovamente al palo. I giovani si fidano degli adulti, di genitori e insegnanti. Non dicono nulla ma vedono tutto. E si ricordano delle promesse fatte e puntualmente disattese».

Lo stesso 6 gennaio, sul Corriere della Sera, interviene il fisico e scrittore Paolo Giordano, il quale commentando le scelte del governo osserva: «Singolare è soprattutto lo stravolgimento del principio di causalità: siamo costretti a estrapolare le informazioni alla base delle decisioni dalle decisioni stesse, e non viceversa». Dopo aver ricordato che c’è incertezza sui dati scientifici (anche quelli del rapporto dell’Iss, dice Giordano) conclude: «Le vittime designate della disfunzionalità collettiva sono i ragazzi e le ragazze delle scuole superiori, gli stessi che hanno visto la loro routine, la loro istruzione e la loro socialità squarciate più a lungo. E che iniziano ormai a soffrire visibilmente». Osservo per inciso che i ragazzi non possono più fare sport di squadra da novembre, ma vedono che i professionisti del calcio non solo giocano regolarmente, ma se vengono trovati positivi si isolano e dopo un tampone negativo tornano in campo.

Sempre il 6 gennaio, su Repubblica, Andrea Gavosto (direttore della Fondazione Agnelli) accanto alla singolare proposta di continuare l’anno scolastico fino ad agosto, sottolinea: «Il prezzo che questa generazione di studenti rischia di pagare – già altissimo dopo il lockdown di primavera e la troppo incerta ripartenza in autunno – sta diventando enorme, con perdite in termini di conoscenze, di prospettive di lavoro e di reddito, di qualità della cittadinanza già ora in parte irrecuperabili».

Infine ieri, ancora sul Corriere della Sera, l’ex leader del Pd Walter Veltroni dice: «Nessuno sembra occuparsi di quello che sta accadendo nel profondo dell’animo degli adolescenti. … Quanto pesa l’assenza dalla dimensione scolastica che è certo apprendimento ma anche scambio, condivisione, definizione di uno spazio proprio, il primo autonomo dalla famiglia, in cui ciascuno mostra sé stesso ed è messo alla prova?». E ancora: «Perdere la pienezza dei quattordici o quindici anni, quando il mondo è una scoperta quotidiana delle sue possibilità e delle sue insidie, non è come vivere quest’esperienza a cinquant’anni. I ragazzi si sono incupiti, chiusi, molti hanno peggiorato i loro risultati scolastici, la maggioranza trascorre il tempo appesa allo schermo di un telefono, che costituisce l’aggancio al mondo esterno». E chiede di ricordare che «nelle case di milioni di italiani c’è una ragazza o un ragazzo che sta annaspando nel tempo decisivo della vita è c’è il rischio che si smarrisca. Per un ragazzo il “distanziamento sociale” è pena più grave che per un adulto (…) In un mondo adulto che è andato in confusione su tutto: vaccini, tamponi, terapie, governi, regole… l’unica cosa su cui tutti si sono sempre uniti è stata randellare i giovani se una sera uscivano, perfino essendo consentito, per vedere amici o semplicemente prendere un aperitivo».

Non basta ripetere che non siamo un Paese per giovani. In modo perlomeno miope, si sta “uccidendo” non solo l’animo dei nostri figli o nipoti, ma anche il futuro del Paese.

La società inglese che vuole la Brexit secondo Jonathan Coe

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Nel giorno in cui i cittadini del Regno Unito vanno al voto per un’elezione politica che è quasi un secondo referendum sulla Brexit, mi capita tra le mani, prima di finire in “archivio”, un vecchio numero di Avvenire. Lo scorso 2 aprile tra le pagine di Agorà figurava un’intervista, a firma di Silvia Guzzetti, allo scrittore inglese Jonathan Coe, focalizzata sul suo ultimo romanzo Middle England. Mesi prima, leggere questo affresco sull’Inghilterra profonda (e non solo londinese) negli anni tra il 2010 e il 2018 mi aveva intrigato e mi aveva spinto a rintracciare i due precedenti libri di Coe con gli stessi protagonisti (più giovani): la Banda dei brocchi (dedicato agli anni Settanta) e Circolo chiuso (ambientato negli anni Novanta), nonché La famiglia Winshaw, che presenta personaggi diversi ma che, coprendo gli anni Ottanta, completa il quadro storico sugli ultimi 40 anni della società inglese con un romanzo innovativo, un giallo estremamente articolato.

L’intervista, titolata «La Brexit? Sragione e risentimento» pone al centro l’esito del referendum del giugno 2016, ma il libro di Coe aiuta ad analizzare un contesto sociale che esprimeva profonde insoddisfazioni di una larga parte della popolazione, ma che la politica non aveva capito. Coe è chiaramente contrario alla Brexit, ma si sforza di comprendere i punti di vista diversi, senza esprimere giudizi netti, e rappresenta fatti verosimili: «Ho voluto dimostrare l’impatto che gli avvenimenti politici hanno sulla vita privata delle persone». Interessante e coraggiosa la rappresentazione dei danni del politicamente corretto in relazione al “processo” a una docente universitaria accusate di omofobia e subito isolata dalla sua facoltà: «Ho cercato di dimostrare quanto intollerante sia diventata la nostra società» dice Coe. Ma il messaggio di speranza, dice ancora l’autore, è il “baby Brexit”, il figlio che riconcilia una coppia che si era separata: «Stephanie capisce che l’amore di Ian è l’áncora della sua vita». Questa conclusione appare tanto più sorprendente osservando che – nel complesso dei quattro romanzi – la coppia tradizionale, fedele, non è presentata come un obiettivo ma, in consonanza con quanto avviene nella realtà, i rapporti sentimentali sono quanto mai aperti (e in ciascun libro c’è almeno una scena di erotismo spinto).

A queste osservazioni aggiungo però che il tema Brexit non esaurisce la varietà dei temi del romanzo, anche in ambito politico sociale: la stessa ragazza politically correct che inguaia la professoressa con l’accusa di omofobia è di famiglia molto ricca e “gioca” però, molto seriamente, a fare la rivoluzionaria nelle manifestazioni di piazza. E il padre, dai giovanili furori, si acquieta in una parabola di giornalista di sinistra che vive nel lusso, salvo essere poi messo da parte da un nuovo direttore.

Non può essere un caso che la famiglia reale e tutto il mondo che le ruota attorno sono molto trascurati. Altrettanto ignorata la dimensione religiosa della vita: c’è un solo matrimonio in chiesa, accompagnato dai commenti di un invitato che lamenta l’ipocrisia della sposa che recita formule di una fede cristiana a cui non crede. Viceversa mi ha incuriosito la rappresentazione dell’orgoglio patriottico che manifestano praticamente tutti i personaggi per la celebrazione delle Olimpiadi di Londra 2012. Quando Coe parla della “politica delle identità” e di come “fattori come nazionalismo e razzismo generano tensioni importanti nella vita delle persone comuni” bisogna, credo, tenere conto di come gli eventi vengano percepiti: se c’è una contraddizione nell’anziana che detesta la domestica polacca, anche se le è quasi indispensabile; al figlio, che ritiene di non essere stato promosso sul lavoro perché gli è stata preferita un’asiatica, non viene offerta una spiegazione logica che smantelli la sua convinzione di essere vittima del politically correct. Il coagularsi di risentimenti, fondati o meno, in vasti strati della popolazione, più che la fantomatica contrapposizione giovani contro vecchi di cui si parlò nel 2016, aiuta a comprendere il risultati del referendum. E Coe mostra di aver saputo indagare «questa dimensione della rabbia dell’Inghilterra di oggi».

Intanto gli exit poll indicano un netto successo dei Tory. La Brexit sembra più vicina.

Paola Bonzi, una vita per le mamme

La morte di Paola Marozzi Bonzi priva tante persone di un punto di riferimento. In primo luogo le centinaia di donne che ogni anno trovavano ascolto da lei nel Centro di aiuto alla vita fondato nel 1984 alla clinica Mangiagalli di Milano. Il Cav Mangiagalli ovviamente continuerà la sua attività, il personale e i volontari non mancheranno, e moltiplicheranno gli sforzi per essere vicini a tutte le donne che sono alle prese con una gravidanza che le preoccupa. Il suo slogan “Oggi è nata una mamma” (titolo anche del suo libro che riassume la storia del Cav Mangiagalli, edito da San Paolo nel 2009) ben rappresenta la sua passione incondizionata per le vite più fragili, secondo la missione del Movimento per la vita. E non serve sapere se sono stati 22mila o quanti i bambini nati da mamme che hanno superato le crisi che le attanagliavano grazie alle parole premurose e simpatetiche e all’aiuto ricevuto al Cav Mangiagalli.

Ma Paola Bonzi mancherà anche ai giornalisti. Ogni volta che si trattava di approfondire il tema delle maternità difficili e degli aiuti per evitare gli aborti, il suo era il primo nome che veniva in mente. E nonostante i mille impegni sul campo, la sua disponibilità a parlare con i giornalisti era pari alla capacità di mettersi all’ascolto delle donne lacerate e confuse (chissà quanto la sua cecità fisica le permetteva una visione più acuta dell’animo altrui), e alla tenacia con cui cercava le risorse economiche necessarie per portare avanti la sua meritoria impresa sociale. Era sorretta da una fede solida, ma non ostentata.

A parte qualche breve contatto telefonico, anch’io ebbi la possibilità di incontrarla quando, nella primavera-estate del 2013, realizzai una breve inchiesta per le pagine della Cronaca regionale di Avvenire visitando una quindicina di Cav lombardi. Mi ricevette a casa sua, con grande cordialità, e mi intrattenne per un paio d’ore, e più che snocciolare cifre (che pure non mancarono) mi fece partecipe del senso della sua missione, del suo amore per la doppia vita in pericolo: del bambino e della mamma. Non so se abbia apprezzato quanto scrissi: certamente era poco rispetto a quanto mi aveva trasmesso, alla sua passione instancabile. Ma lo spazio sui giornali è sempre tiranno, e il suo nome e il suo lavoro erano già ben noti ai lettori del nostro giornale. Mi piace però ricordare che non trascurava di essere vicina a chi aveva vissuto la drammatica esperienza di una interruzione di gravidanza. Mi disse: «È sempre dura l’elaborazione del lutto dopo un aborto: le donne hanno difficoltà col padre del bambino, con i medici, con le altre donne incinte. Penso che sia importante ricordare che per prevenire l’aborto occorre riempire la solitudine della donna ed essere solidali con lei: in questa città dove tutti vogliamo parlare, essere ascoltate è un po’ fuori del comune. Noi qui facciamo anche formazione permanente sull’arte dell’ascolto. Credo che l’ente pubblico dovrebbe porsi in quest’ottica: se si è intellettualmente onesti, non ci si può non porre domande. E guardi che poche donne che abortiscono sono spavalde, molte piangono. Per questo è importante essere presenti in ospedale, dove si fanno gli aborti: per offrire una vera possibilità di scelta».

A Paola Bonzi non si può che rivolgere un grazie incommensurabile. Pari al valore, altrettanto incommensurabile, di ogni vita che ha contribuito a salvare.

Naldini: bimbi “modificati”, l’ora di fermarsi

Diciotto scienziati su Nature hanno lanciato un appello per chiedere di sospendere l’uso delle tecniche di gene editing per far nascere bambini modificati nel loro genoma (una traduzione italiane del testo è sul sito della rivista Le Scienze). Luigi Naldini, direttore dell’Istituto SR-Tiget di Milano, è l’unico italiano a far parte del gruppo e nell’intervista pubblicata ieri su Avvenire spiega le ragioni di questa scelta.

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Luigi Naldini

«Si tratta di un’assunzione di responsabilità da parte degli scienziati, che capiscono di non poter decidere da soli su temi che riguardano l’intera società. E nello stesso tempo si vuole stigmatizzare un atteggiamento “eticamente disinvolto” che può creare nell’opinione pubblica sconcerto e diffidenza nei confronti della scienza». Luigi Naldini, direttore dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica (SR-Tiget) di Milano, è tra i 18 scienziati firmatari dell’appello – pubblicato su Nature – per una moratoria sull’uso clinico dell’editing genetico per far nascere bambini modificati nel loro genoma. Naldini è l’unico italiano a far parte di un gruppo di lavoro internazionale che ha stilato le prime linee guida sull’uso del gene editing con la potente tecnologia del Crispr/ Cas9. A suscitare la richiesta di moratoria è stato soprattutto il caso delle gemelline fatte nascere con il Dna modificato in laboratorio per migliorare la resistenza all’infezione da Hiv: un “esperimento” condotto dal biologo cinese He Jiankui a Shenzen, che ha trovato il biasimo unanime della comunità scientifica internazionale, e della sua stessa università.

Chi sono e perché hanno ritenuto di dover intervenire gli scienziati che hanno chiesto la moratoria?

È un gruppo di scienziati che ha preso l’iniziativa autonomamente, senza “investiture”, ma che rappresenta il fulcro dell’avanzamento tecnologico, che gravita principalmente intorno a Boston (Stati Uniti). Sono tutti ricercatori “in prima linea”, molti autori o sviluppatori di queste tecniche biotecnologiche, come Emmanuelle Charpentier, che ha contribuito a scoprire il Crispr/Cas9, o Feng Zhang; o Eric Lander, il direttore del Broad Institute. Altri sono bioeticisti, oppure ricercatori (come il sottoscritto) attivi nel gene editing sul fronte clinico o della ricerca, ma tutti nel campo somatico, cioè per correggere malattie di individui già nati: un ambito di applicazione che nessuno vuole fermare. Hanno deciso di intervenire per rispondere a quanto successo in Cina con la nascita delle gemelline nel novembre scorso. Questo ricercatore si è mosso in modo spregiudicato: ora è stato “condannato” ma il caso ha evidenziato che la rete di controllo ha maglie troppo larghe, perché la comunità degli scienziati aveva già invitato alla prudenza e a non applicare il gene editing per far nascere bambini, sia per motivi scientifici, relativi alla sicurezza, sia per motivi etici, non ancora affrontati dalla società.

Scienza ed etica: quali sono i benefici attesi e quali le incognite di questa tecnica sull’uomo? E perché un ricercatore pensa di lavorare per un miglioramento genetico o un potenziamento delle facoltà umane?

La tecnica di per sé ha una grande promessa, perché ci permette di intervenire in modo preciso e mirato sul genoma per correggere alcune mutazioni: nella maggior parte dei laboratori che operano sulle cellule somatiche si lavora con cautela alla sperimentazione sull’uomo per curare una malattia, inattivando un gene o correggendo una mutazione genetica. È una forma di terapia genica avanzata complessa, un ambito non controverso, non toccato dalla moratoria. Le cose cambiano se pensiamo di applicare la tecnica alla linea germinale (ovociti e spermatozoi) o agli embrioni, perché non interveniamo su una malattia ma su quello che sarà il corredo genetico di un nascituro e decidiamo noi di modificarne alcune componenti: nella migliore delle ipotesi per prevenire la trasmissione di un gene-malattia, ma in Cina sono arrivati a inattivare un gene perché potrebbe dare un vantaggio rispetto all’infezione di un virus. È un intervento non supportato dalla scienza, esce da una logica di prudenza. Se quel gene c’è nel genoma probabilmente serve anche per altre cose, che non conosciamo. E se uno scienziato vuole modificare il genoma umano mi sembra un dottor Stranamore che opera con presunzione (hybris, avrebbero detto i greci), che vuole ignorare i limiti delle conoscenze scientifiche. Sul potenziamento, bisogna distinguere: nelle terapie si cerca di rendere più forte una cellula, per esempio del sistema immunitario contro il tumore, come con la terapia Car-T, cellule prelevate dal paziente e reinfuse dopo averle modificate in laboratorio. Lo stesso non si può fare per potenziare l’intero sistema immunitario, che risulterebbe senza freni. E così, correggere un difetto genetico che impedisce a un bambino di crescere può avere un significato, ma potenziare il genoma della linea ereditaria mi sembra oggi fuori da una logica scientifica.

Perché nell’appello prospettate il coinvolgimento degli Stati? E quello dell’opinione pubblica? La gente ne sa poco o nulla: come può costruirsi un giudizio fondato e non solo emotivo, o condizionato dal business?

Il potere decisionale e normativo appartiene agli Stati. Non sono i comitati scientifici a poter decidere se certe operazioni sono lecite o meno. Ci sono legislazioni (come quella italiana, ma non è l’unica) che vietano la ricerca sugli embrioni, anche se è importante continuare a seguire il dibattito. La chiamata di apertura alla società è un’assunzione di responsabilità, ma anche di umiltà, da parte della comunità scientifica, che accetta che su questi temi non possa decidere la tecnica («si fa perché si può fare») ma neanche gli scienziati da soli, che hanno i loro conflitti di interesse. Sono d’accordo sulle difficoltà di interpretare la pubblica opinione: si tratta di coinvolgere gruppi e rappresentanti di interessi diversi nella società, per costruire un meccanismo di consenso più allargato, che non riguardi solo gli scienziati. Una posizione che forse non tutti i ricercatori condividono.

Nella ricerca sono presenti interessi commerciali ingenti, e il vostro appello ammette passati fallimenti, come sul bando alla clonazione: la moratoria funzionerà, questa volta?

Proprio nell’area di Boston su queste tecnologie c’è un grosso investimento industriale, ma finalizzato al gene editing in campo terapeutico, con le cellule somatiche. Quel mondo tecnologico è il primo a sconsigliare di toccare la linea germinale, perché teme di suscitare reazioni negative nella società – dal punto di vista etico – che portino a legislazioni capaci di bloccare ogni esperimento, come è accaduto in alcuni Stati con gli Ogm in agricoltura. Il mondo industriale tecnologico è necessario perché servono risorse e capacità. Quanto alla clonazione, è vero che non si è arrivati a un divieto formale, ma quel dibattito ha creato una forte stigmatizzazione di ogni tentativo di realizzarla. Non è più stata nell’agenda di nessuno la clonazione terapeutica di un essere umano. Nel nostro caso, non siamo tutelati al 100 per cento, ma i Paesi hanno tutti una posizione fortemente contraria a un uso del gene editing per far nascere esseri umani modificati geneticamente. E il dibattito degli scienziati, delle agenzie internazionali come l’Organizzazione mondiale della sanità, e degli Stati contribuisce a tenere alta l’attenzione per evitare simili derive.