Editing genetico, tecnica potente che richiede responsabilità

Al convegno nazionale di Scienza & Vita è stato affrontato il tema delle più avanzate tecniche di editing genetico. Questo il mio articolo pubblicato sabato 25 maggio su Avvenire, seguito dalle testimonianze di studenti di una scuola superiore del Torinese che ha seguito il dibattito

20190524_130233Modificare le caratteristiche genetiche di un individuo è la prospettiva che ci presentano le tecniche di editing genetico. Un tema affascinante per la speranza di correggere malattie, inquietante per la possibilità della nascita di individui “diversi”, modificati geneticamente (come accaduto in Cina). All’editing genetico è stato dedicato il convegno nazionale di Scienza & Vita (S&V): il sottotitolo «Saremo davvero tutti perfetti?» sintetizza le domande che sconcertano.

Nel suo saluto, il vescovo Stefano Russo, segretario generale della Cei, si è augurato che «Scienza & Vita diventi sempre più un ambito in cui si approfondiscono queste tematiche, perché se il nostro è uno sguardo di fede – come ha osservato papa Francesco – è uno sguardo che ci fa prossimi all’uomo, e tutto quello che riguarda la vita dell’uomo ci interessa». Mauro Ferrari, bioingegnere e medico, vice presidente della St. Thomas University di Houston (Stati Uniti), ha svolto un’ampia panoramica sui progressi della terapia genica, a partire dagli anni ’70 del Novecento. Infatti, prima di Crispr/Cas9 – la tecnica più avanzata, di cui si contendono il brevetto Feng Zhang (del Mit di Cambridge) e Jennifer Doudna (di Berkeley) – per intervenire sul genoma, tagliarlo e correggerlo sono state sviluppate piattaforme basate su enzimi: meganucleasi, Zfn o Talen. Ma è stato con le sequenze di Dna utilizzate con Crispr/Cas che è stato possibile intervenire con maggiore precisione. Ferrari ha segnalato come gli esperimenti finora condotti su embrioni hanno mostrato una bassa efficienza, rendendone quindi rischioso l’uso anche dal punto di vista scientifico. Sabrina Giglio, genetista dell’ospedale Meyer di Firenze, ha illustrato la difficile consulenza a un paziente con cardiomiopatia ipertrofica, e antenati morti presto per causa cardiaca, che vorrebbe preservare i figli dalla stessa sorte. Luigi Naldini, direttore dell’Istituto San Raffaele Tiget per la terapia genica di Milano, ha raccontato i passi da gigante compiuti dalla terapia genica, diventata farmaco “personalizzato” (cellule prelevate dal paziente, ingegnerizzate e reinfuse al malato) in una immunodefi- cienza letale: Ada-Scid. Ma la ricerca procede nella ricerca della cura per alcuni tumori (soprattutto del sangue), e altre malattie genetiche: la sindrome di Wiskott-Aldrich o la leucodistrofia metacromatica. Naldini ha poi ribadito la necessità della moratoria verso l’utilizzo dell’editing genetico sugli embrioni, per motivi sia scientifici sia etici: «È una presa di responsabilità della comunità scientifica».

Il direttore scientifico dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù, Bruno Dallapiccola, ha sottolineato l’impegno per trovare diagnosi, ancor prima di una cura, per pazienti affetti da moltissime malattie genetiche ancora ignote: al Bambino Gesù è stato avviato un progetto su 1.272 pazienti “rari” che ha portato a dare un nome alla loro patologia nel 60% dei casi. «Molto resta da fare ma la genetica deve ricordare che ha responsabilità anche verso le generazioni future».

Di fronte «alla corsa tumultuosa sul sentiero del fattibile – ha osservato Luca Grion, docente di Filosofia morale all’Università di Udine – la nostra comprensione etica fatica a stare dietro». «La scienza è affascinante e utile – ha aggiunto Vittoradolfo Tambone, docente di Medicina legale all’Università Campus Biomedico di Roma – ma si deve trovare un’etica che sia coerente con la scienza. Qualcosa che nichilismo, esistenzialismo o relativismo non riescono a fare: solo il realismo cognitivista, che ritiene che esista una verità conoscibile è utile allo scopo».

La sintesi del presidente Alberto Gambino: «Scienza & Vita da sempre segue temi che hanno a che fare con il rapporto tra innovazione e senso antropologico della vita. Se in passato erano “semplici” adesso sono estremamente complessi, da addetti ai lavori. Il ruolo di S&V ne esce potenziato, con il compito di coinvolgere la cittadinanza con un’informazione corretta e offrendo criteri etici». Sull’editing genetico la posizione di S&V è chiara: «Se si usano embrioni – chiarisce Gambino – il nostro è un “no” assoluto, sono esseri umani. Su persona adulta per curare una patologia siamo molto favorevoli. Ma se si fa per potenziare l’essere umano vediamo i pericoli di favorire una parte dell’umanità discriminandone un’altra».

Gli studenti: interessante trovare un’etica che si conformi alla scienza

Al convegno hanno preso parte studenti di quarta e quinta del liceo delle scienze applicate, scienze umane e istituto tecnico “J.C. Maxwell” di Nichelino, in provincia di Torino, grazie al presidente di Scienza& Vita di Moncalieri, Pietro Bucolia. Erano accompagnati dai docenti Roberta Opezzo, Corrado Cantarello, Simona Tesi: «Abbiamo pensato – spiegano i prof, che insegnano materie scientifiche – che il convegno fosse utile anche in vista dell’esame di Stato che richiede competenze di cittadinanza». «Bello lo scenario sulla scienza – osserva Letizia – per me che vorrei dedicarmi alla ricerca farmaceutica di base, magari negli Stati Uniti ». «I relatori – riferisce Driss – sono stati capaci di spiegarci argomenti difficili in modo semplice. Interessante trovare un’etica che si conformi alla scienza». Sheila è rimasta colpita «dal dilemma etico posto dal paziente che teme di trasmettere ai figli il suo gene che causa malattia». Conclude Nour: «I contributi hanno offerto spunti di riflessione partendo da prospettive diverse. È stato un arricchimento culturale».

«Grandi speranze dalla terapia genica, ma attenzione al dilagare dei test»

Un rapido sguardo alle prospettive che offre oggi la genetica nella mia intervista a Maurizio Genuardi, docente dell’Università Cattolica e presidente della Società italiana di genetica umana, pubblicata mercoledì 5 dicembre sulle pagine di Avvenire.

fiori_dnaSperanza o incubo. Da quan­do nel 1953 è stata chiarita la struttura del Dna, la geneti­ca è sempre in primo piano tra le terapie innovative, ma ha anche spalancato le porte a prospettive inquietan­ti. Ne parliamo con Maurizio Genuardi, docente di Genetica medica all’Università Cattolica e direttore dell’Unità di Genetica medica dell’Irccs Poli­clinico Gemelli di Ro­ma, e presidente della Società italiana di ge­netica umana (Sigu).

Quali prospettive ha oggi la genetica?

Offre una conoscenza sempre più approfondita dei meccanismi bio­logici del corpo umano, inclusi quelli che sono alla base delle ma­lattie. Grazie alla lettura del patri­monio genetico, sappiamo che co­sa fa la maggior parte dei nostri cir­ca 20mila geni. E conosciamo le cause genetiche di una buona par­te delle malattie ereditarie. La prevenzione basata sui fattori di ri­schio genetici è “mirata”, induce ad adottare strumenti più strin­genti per le persone a ri­schio più alto. Un e­sempio: il 5% dei tumo­ri al seno nasce in don­ne che hanno una mu­tazione dei geni Brca1 o Brca2. Se identificate grazie a esami genetici, possiamo consigliare loro di fare controlli più frequenti e accurati ed eventualmente inter­venti chirurgici preventivi. Il ver­sante preoccupante è l’uso della scoperta per selezionare in epoca prenatale gli embrioni che non presentano la mutazione e quindi non sono a rischio di ammalarsi.

C’è il rischio di un abuso dei test genetici?

Il Progetto Genoma ha facilitato la scoperta di geni che sono causa o predispongono alle malattie. I te­st sono utili quando ci indirizzano verso strategie mirate di preven­zione o di terapia. Problemi sor­gono da test genetici per malattie per le quali ancora non esistono strumenti preventivi o terapeuti­ci, per esempio sclerosi laterale a­miotrofica o Parkinson. E non tut­ti i test sono accurati: avere il fat­tore di predisposizione non signi­fica ammalarsi e alcuni fattori ge­netici hanno un peso specifico molto basso. Questo vale per mol­te malattie, tra cui patologie car­diovascolari, diabete e molte altre, comprese quelle infettive, perché da fattori genetici dipende la mag­giore o minore resistenza a batte­ri e virus. La diffusione dei test ge­netici rischia di ridurre tutto a tec­nicismi con risposte fuorvianti, se non ingannevoli. In particolare, quelli diretti al consumatore (ven­duti su Internet, in farmacia o in istituti di bellezza) possono por­tare a misure di prevenzione o te­rapie non giustificate.

Quali risultati può portare la te­rapia genica?

Dopo grandi speranze, 30 anni fa, tutto si è quasi bloccato per gravi reazioni avverse in pa­zienti con fibrosi cisti­ca. Ma molti hanno continuato a lavorare e si sono ottenuti risulta­ti con alcune malattie, come l’immunodefi­cienza tipo Ada-Scid e l’atrofia muscolare spi­nale (Sma1). Sui tumo­ri siamo a buon punto con manipolazioni genetiche del sistema immunitario: è il caso delle Car-T cells, terapia applicata al Bambino Gesù di Ro­ma. Credo che nessuno possa pre­vedere i tempi per avere risultati concreti per specifiche malattie.

Fino a che punto ci si può spin­gere nel manipolare il genoma?

Pioniere nel campo è stato l’ita­loamericano Mario Capecchi (pre­mio Nobel 2007), che ha inventa­to il ‘gene targeting’ cioè la mo­difica mirata di singoli geni, usa­to a scopo sperimentale in animali di laboratorio. Gli studi si sono e­voluti fino al Cri­spr/ Cas9: la “forbice molecolare” taglia in punti precisi del geno­ma e consente modifi­che in modo mirato ed efficace che, in pro­spettiva, possono cu­rare malattie geneti­che. L’uso sull’embrio­ne – possibile dal pun­to di vista tecnico – è bandito nella grandissima parte dei Paesi occidentali perché non sappiamo ancora gli effetti colla­terali, i danni potenziali di queste manipolazioni, che talvolta agi­scono in maniera diversa da come ipotizziamo.

«Non scartare le vite come quella di Alfie»

Dopo la triste conclusione della vicenda di Alfie Evans, la mia intervista a Sergio Picardo, primario anestesista dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, pubblicata oggi su Avvenire nella sezione è vita

bambino gesù logo«Le valutazioni diagnostiche e terapeutiche devono essere sempre molto attente e coscienziose, poco emozionali, ma certamente non sono autorizzato a togliere un supporto vitale». Sergio Picardo, responsabile dell’Anestesia, rianimazione e comparto operatorio dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, riflette sulla vicenda del piccolo Alfie Evans, morto nella notte tra venerdì e sabato scorsi dopo oltre quattro giorni dal distacco del ventilatore, e con l’interruzione (poi ripresa) di idratazione e nutrizione. Una vicenda che ha lacerato prima di tutto la famiglia ma anche l’opinione pubblica e ha messo in evidenza una gestione che si può definire almeno problematica del rapporto con i genitori da parte dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool, che ha ottenuto dai giudici l’autorizzazione a interrompere i supporti

«Le valutazioni diagnostiche e terapeutiche devono essere sempre molto attente e coscienziose, poco emozionali, ma certamente non sono autorizzato a togliere un supporto vitale». Sergio Picardo, responsabile dell’Anestesia, rianimazione e comparto operatorio dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, riflette sulla vicenda del piccolo Alfie Evans, morto nella notte tra venerdì e sabato scorsi dopo oltre quattro giorni dal distacco del ventilatore, e con l’interruzione (poi ripresa) di idratazione e nutrizione. Una vicenda che ha lacerato prima di tutto la famiglia ma anche l’opinione pubblica e ha messo in evidenza una gestione che si può definire almeno problematica del rapporto con i genitori da parte dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool, che ha ottenuto dai giudici l’autorizzazione a interrompere i supporti«Le valutazioni diagnostiche e terapeutiche devono essere sempre molto attente e coscienziose, poco emozionali, ma certamente non sono autorizzato a togliere un supporto vitale». Sergio Picardo, responsabile dell’Anestesia, rianimazione e comparto operatorio dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, riflette sulla vicenda del piccolo Alfie Evans, morto nella notte tra venerdì e sabato scorsi dopo oltre quattro giorni dal distacco del ventilatore, e con l’interruzione (poi ripresa) di idratazione e nutrizione. Una vicenda che ha lacerato prima di tutto la famiglia ma anche l’opinione pubblica e ha messo in evidenza una gestione che si può definire almeno problematica del rapporto con i genitori da parte dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool, che ha ottenuto dai giudici l’autorizzazione a interrompere i supporti«Le valutazioni diagnostiche e terapeutiche devono essere sempre molto attente e coscienziose, poco emozionali, ma certamente non sono autorizzato a togliere un supporto vitale». Sergio Picardo, responsabile dell’Anestesia, rianimazione e comparto operatorio dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, riflette sulla vicenda del piccolo Alfie Evans, morto nella notte tra venerdì e sabato scorsi dopo oltre quattro giorni dal distacco del ventilatore, e con l’interruzione (poi ripresa) di idratazione e nutrizione. Una vicenda che ha lacerato prima di tutto la famiglia ma anche l’opinione pubblica e ha messo in evidenza una gestione che si può definire almeno problematica del rapporto con i genitori da parte dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool, che ha ottenuto dai giudici l’autorizzazione a interrompere i supporti vitali al bambino.

Al Bambino Gesù come gestite con i genitori i casi più delicati, legati alle malattie per le quali non ci sono terapie?

L’atteggiamento è innanzi tutto quello di creare il miglior clima possibile con i genitori. Questo significa avere un rapporto professionale, ma anche un rapporto umano: i medici non sono solamente tecnici, sono anche uomini che devono stabilire con i genitori un rapporto di fiducia, di collaborazione e di alleanza. Lo scopo, nostro e dei genitori, è curare i bambini: non significa guarire, ma prendersene cura. È l’aspetto fondamentale in tutti i casi di pazienti gravi, specialmente quelli in cui la mancanza della diagnosi non permette una prognosi assoluta e certa. Peraltro ci deve essere il massimo impegno da parte dell’équipe medica per cercare la diagnosi: la strada talvolta può essere lunga e difficile, e prevedere anche ripensamenti, ma senza diagnosi non si può fare nessuna prognosi e nessuna terapia certa. In ogni caso favoriamo l’eventuale richiesta di un secondo parere da parte dei genitori, o lo proponiamo noi stessi se pensiamo che possa servire.

E quando la prognosi appare infausta a breve termine?

Quando la strada è segnata bisogna essere franchi, onesti, partecipativi nei confronti dei genitori, coinvolgendoli nel percorso assistenziale, senza arrivare a forme di contrapposizione o di guerra. Perché in tal caso tutti i ruoli diventano molto più difficili. Credo che il personale medico e paramedico dell’ospedale di Liverpool sia stato sottoposto a un impatto mediatico estremamente difficile da gestire. Mi sono anche messo nei panni di chi, all’interno dello staff, poteva non essere perfettamente in accordo con quanto era stato deciso, e che ugualmente era coinvolto nelle cure del bambino. Come avrà potuto vivere la situazione?

Cosa dire del divieto di portare altrove il bambino, anche solo perché morisse a casa?

È fondamentale capire che il paziente non è di proprietà del medico, che interviene solo per le sue competenze: non decido, io medico, il momento della morte. Ci sono interessi generali la cui definizione è estremamente difficile, vale a dire se la patria potestà possa dipendere anche dalla comunità. I genitori hanno una partecipazione affettiva, e quindi emozionale, molto importante, e possono non avere la lucidità per poter fare la migliore scelta. Credo che l’eredità maggiore di questo caso per evitare che si ripetano simili contrapposizioni, che hanno accentuato il dramma della famiglia, sia creare un consesso di esperti medici, giuristi e bioeticisti, per approfondire i problemi di fine vita e arrivare a un consenso più diffuso e convinto.

Ma si può definire una vita ‘futile’, come ha fatto il giudice di Liverpool, e pensare che prendersene cura sia accanimento?

Queste situazioni non sono bianco o nero: il limite tra accanimento terapeutico e accompagnamento alla morte non è una linea netta, va calibrata sulla singola situazione clinica. Alcuni supporti che i medici consideravano vitali si sono dimostrati non così vitali. Da medico non sono autorizzato a togliere un supporto vitale. Ed è impossibile dare un giudizio sull’utilità di una vita. Se fossero utili solo le persone economicamente attive e non bisognose di cure avremmo un’enorme fascia di pazienti esclusa. Al Bambino Gesù seguiamo tanti pazienti che hanno subìto anossìa al momento del parto, e nessuno li ritiene inutili. La nostra società consumista lega l’utilità al guadagno e alla produttività e vede le persone disabili come pesi. Una forma di discriminazione che dovremmo rifiutare ispirandoci a valori superiori.

Le famiglie, che talvolta vogliono l’impossibile, più spesso chiedono solo di non rinunciare alla cura: perché in Gran Bretagna è apparso ‘troppo’?

Il medico non può garantire l’immortalità, cerca di curare e si adopera per la vita: ma queste vicende devono essere viste sotto tutti gli aspetti, e anche la valutazione delle risorse non illimitate per la sanità ne fa parte. Per questo è fondamentale l’alleanza con la famiglia, prestando la massima attenzione alle richieste e cercando di assecondarle nei limiti del possibile. In Gran Bretagna c’è una cultura molto pragmatica, con regole e protocolli, che aiutano nei momenti difficili ma che andrebbero adattati alle singole situazioni evitando atteggiamenti troppo rigidi. La logica anglosassone non è la nostra, o la mia.

«Al Bambino Gesù siamo pronti ad accogliere Alfie»

Intervista a Mariella Enoc, presidente dell’ospedale pediatrico del Papa, sul caso del bimbo inglese a cui il tribunale vuole interrompere i supporti vitali. Oggi su Avvenire

Ospedale Bambino Gesù
Ospedale Bambino Gesù

«Siamo pronti ad accogliere Alfie, come facciamo con tanti bambini che giungono qui da ogni parte del mondo. Non promettiamo certo di guarirlo, ma di prendercene cura, senza accanimento terapeutico». Mariella Enoc, presidente dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, è pronta a mettere a disposizione della famiglia di Alfie le competenze e l’attenzione di un centro di eccellenza noto in tutto il mondo. Anche ora che la vicenda si è inasprita, con la presenza addirittura della polizia all’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool, l’«ospedale pediatrico del Papa» ribadisce la sua missione umanitaria, per la quale stanzia ingenti risorse ogni anno: «Quando è in gioco la vita non possiamo tirarci indietro».

Quali contatti avete avuto con il caso di Alfie?

Siamo stati interessati nel luglio scorso, quando è stata chiesta una consulenza ai nostri specialisti. Poi a settembre è arrivata la richiesta ufficiale da parte dei rappresentanti in Italia della famiglia, l’associazione Giuristi per la vita, di accogliere al Bambino Gesù il bambino con la sua famiglia. Lo scorso 11 settembre un’équipe di nostri tre medici, neurologi e anestesisti, ha visitato il bambino ricoverato presso l’ospedale di Liverpool. Al ritorno abbiamo più volte offerto e confermato la disponibilità ad accogliere Alfie presso la nostra struttura di Roma. Il bambino ha una malattia genetica neurodegenerativa associata a epilessia, ed è in uno stato – definito dai medici del Bambino Gesù – semi vegetativo. Secondo i nostri specialisti, sarà difficilissimo che per il bambino possa esserci un esito positivo, però sono possibili altri approfondimenti.

Non è un trasferimento a rischio?

La valutazione dell’anestesista è stata che il bambino potrà avere dei problemi durante il viaggio ma sarà assistito da un’équipe. C’è qualche rischio, ma che i genitori possono accettare, rispetto a staccare la spina. Noi non andiamo a negare che la diagnosi che ha fatto l’ospedale inglese possa essere corretta, offriamo solo la possibilità che il bambino possa continuare a vivere. Per noi è un po’ difficile capire perché non si voglia permettere il trasporto.

Si può cadere nell’accanimento terapeutico?

Noi diamo la disponibilità ad accoglierlo e prendercene cura: non diciamo che il bambino potrà essere guarito. Siamo disponibili a curarlo come facciamo con ogni bambino, senza accanimento terapeutico. Il bambino ha sondini, e i nostri medici – per farlo soffrire meno – propongono una tracheotomia e un’alimentazione tramite Peg. L’accanimento non è tenere in vita, ma tenere in vita procurando sofferenze. Oggi si può curare senza procurare sofferenze. La Chiesa non vuole che si muoia soffrendo, si possono dare farmaci che rendono anche il passaggio verso la morte meno doloroso. Non sono una bioeticista, ma credo che, se non facciamo soffrire, la cura sia dovuta.

Significa attuare quell’accompagnameno di cui parlava il Papa nel suo tweet su Alfie pochi giorni fa?

Noi certo siamo l’ospedale del Papa, ma vorrei che il Bambino Gesù fosse considerato un ospedale di altissimo livello scientifico, che mantiene profonde radici nel messaggio del Vangelo. Poi l’ospedale realizza anche opere straordinarie in ricerca e terapia: penso all’ultima scoperta con il Car-T, la nuova cura oncologica con una manipolazione cellulare. Il nostro è un ospedale che studia tanto, ricerca tanto, perché la prima nostra missione è quella di poter guarire i bambini, e su questo investiamo le risorse migliori. Ma quando questo non è possibile, c’è la cura, c’è l’assistenza, c’è la compassione nel senso migliore della parola.

Il caso di Alfie è molto particolare per voi?

Non si guarisce mai tutti, però si può curare tutti fin dove è possibile. A nessun bambino togliamo la possibilità di vivere. Si tratta solo di lasciarlo venire, sono i genitori che si assumono la responsabilità. Arrivasse stanotte o domani mattina, siamo pronti. Come arrivano tanti altri: i nostri medici vanno in ogni parte del mondo a prendere bambini bisognosi di trapianto o altre cure. Abbiamo casi tragici da Paesi in guerra: come Wafaa, la bambina siriana bruciata al 60 per cento, che avrà bisogno di un ricovero che va oltre un anno e di almeno due interventi al mese.

Charlie, Isaiah, Alfie: casi che si ripetono e sembrano adombrare dietro la decisione di abbandonare le cure anche la motivazione economica. Curare questi bambini è un costo sostenibile?

Quest’anno per poter curare i bambini che vengono da tante parti del mondo, e non pagano nulla, ho l’obbligo morale di trovare sei milioni di euro, calcolati nel bilancio di previsione. Devo garantire una buona gestione dell’ospedale: è una bella sfida. Questi fondi li devo trovare gestendo bene l’ospedale del Papa. E con l’aiuto di tante persone generose. Grazie a Dio.

Malattie rare, ricerca e solidarietà per aiutare i bambini

La piccola Sofia è stata vinta dalla leucodistrofia metacromatica. Medici e associazioni continuano a battersi per offrire un futuro migliore ai pazienti e alle loro famiglie. Il mio articolo oggi su Avvenire

microscopioLa leucodistrofia metacromatica non ha concesso speranze alla piccola Sofia, salutata ieri a Firenze da una folla commossa. Ma la lotta contro patologie rare che colpiscono i bambini, sconosciute ai più e prive di una vera cura, continua a tutti i livelli, dagli studi di ricercatori e medici alle attività di supporto e accompagnamento delle famiglie. Indubbiamente una diagnosi di malattia rara lascia disorientati. Soprattutto se, come spesso accade, riguarda bambini piccoli, i cui genitori vengono catapultati in un mondo dove si frantumano le aspettative riposte nei loro figli. Ma la ricerca scientifica, pur a piccoli passi, avanza, e la solidarietà delle associazioni di familiari sostiene in un percorso difficile. «La diagnosi precoce e lo sviluppo di terapie in una certa misura avanti insieme – osserva Giancarlo La Marca, responsabile del Laboratorio di screening neonatale dell’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze –. E grande stimolo viene anche dalle associazioni di genitori. Che devono essere aiutati a trovare i centri migliori cui affidare i loro figli».

Una legge recente ha ampliato il numero di screening neonatali sulle malattie rare: «La 167 del 2016 ha esteso a livello nazionale – racconta La Marca – il modello che abbiamo sviluppato qui al Meyer per i neonati di Toscana e Umbria. Si tratta di nuovi test che portano a 40 le malattie metaboliche rare trasmesse geneticamente di cui si può fare diagnosi precoce dopo la nascita, mentre la precedente legge del 1992 ne prevedeva solo tre (fibrosi cistica, fenilchetonuria e ipotiroidismo congenito). La copertura, prevista nei nuovi Lea, non è ancora al 100 per cento, ma ci stiamo sforzando di fare in modo che tutte le Regioni vadano alla stessa velocità». «Tra queste malattie peraltro – continua La Marca, che è presidente della Società italiana per lo studio delle malattie metaboliche ereditarie e lo screening neonatale (Simmesn) – non è ancora compresa la leucodistrofia metacromatica, anche se stiamo lavorando insieme a un gruppo di ricerca dell’Università di Seattle (Stati Uniti) per sviluppare un test che identifichi i bambini affetti da questa malattia dopo poche ore di vita. Ciò permetterebbe di accedere alle migliori terapie per la risoluzione di questi difetti, visto che in Italia siamo all’avanguardia grazie alla terapia genica, che dovrebbe essere risolutiva». Si tratta della terapia che sta sviluppando il gruppo di Luigi Naldini all’Istituto Tiget-San Raffaele di Milano, i cui risultati però – sottolinea Enrico Bertini, responsabile dell’Unità Malattie muscolari e neurodegenerative dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma – «sono efficaci quando i pazienti sono trattati prima che insorgano i sintomi. Quello del Tiget è l’unico approccio che ha mostrato efficacia, mentre altre sperimentazioni non hanno avuto risultati clinici validi, come è stato mostrato anche recentemente in un convegno dell’Associazione europea delle leucodistrofie (Ela)».

Peraltro va ricordato che «non esiste un sistema univoco, una panacea, per ogni malattia – sottolinea Bertini –. Ognuna ha i suoi meccanismi, che vanno studiati». Oltre a sviluppare cure d’avanguardia, per affrontare le malattie rare occorre anche tanta assistenza. «Le associazioni di genitori – osserva La Marca – stimolano la ricerca ad andare avanti nel trovare soluzioni. Del resto è umano che i genitori cerchino di fare tutto ciò che è in loro potere per trovare una soluzione a questi eventi terribili, ma è importante si affidino a centri di ricerca di eccellenza». «Occorre agire bene nel gestire le aspettative – osserva Bertini –, con un colloquio adeguato di consulenza genetica, specie adesso che per alcune malattie, come l’atrofia muscolare spinale (Sma), cominciano a essere disponibili trattamenti efficaci. Vanno date speranze verosimili ma non verso cure che non esistono ancora». «Del resto il problema delle malattie rare è insito nel loro nome – continua La Marca –, e ‘orfani’ sono spesso sia i pazienti sia i farmaci, laddove disponibili, che li trattano. E in un sistema di salute pubblica che funziona a 360 gradi, anche la comunicazione di una diagnosi deve essere fatta nei modi adeguati, con la presenza di psicologi che possano accompagnare i genitori nel percorso che li aspetta».

«Abbiamo in continuazione contatti con le associazioni di genitori con bambini affetti da malattie rare – aggiunge La Marca –. Sono una voce preziosissima nell’ambito scientifico e un fortissimo stimolo, una sollecitazione perché la ricerca possa fare di più». Certo, «a volte sembra si parli di malattie rare solo di fronte a casi eclatanti», come accadde con Stamina, ma «è anche vero che se ne parla sempre di più. Tutti noi – conclude La Marca – percepiamo come un fallimento il fatto di non riuscire a salvare vite, ma lavoriamo duramente tutti i giorni per fare sempre meglio». E le associazioni di familiari e pazienti, aggiunge Bertini, «sono importantissime per non farci sentire soli, e per dare le giuste indicazioni».

Terapie di frontiera contro il cancro

Le speranze nei farmaci innovativi, ma costosissimi, frutto della ricerca immunologica e della manipolazione genica, che sono stati approvati di recente negli Stati Uniti nel mio articolo pubblicato su Avvenire il 25 ottobre scorso

Food and Drug Administration
Food and Drug Administration

Una terapia oncologica sperimentale basata su una manipolazione genica ha ottenuto nei giorni scorsi il via libera dalla Food and Drug Administration (Fda, l’ente degli Stati Uniti che regola l’immissione in commercio dei farmaci): si tratta di una cura contro il linfoma non-Hodgkin “aggredito” con cellule del sistema immunitario del paziente ingegnerizzate in laboratorio. È il secondo caso: ad agosto era stato approvato dalla Fda un trattamento analogo contro la leucemia linfoblastica acuta, che era stato sviluppato dall’Università della Pennsylvania e poi rilevato da Novartis e denominato Kymriah. Questo secondo procedimento è stato studiato dal National Cancer Institute e commercializzato da Kite Pharma (ora acquisita da Gilead) con il nome di Yescarta. Quest’ultima terapia, sperimentata su 101 pazienti refrattari alla chemioterapia, ha ottenuto un 72% di diminuzione del tumore e un 51% di remissione di malattia. Se gli Stati Uniti sono molto più avanti dell’Europa in queste sperimentazioni, alcune ricerche vengono portate avanti anche nel nostro Paese, e almeno due studi clinici sono in attesa di avere l’approvazione dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa).

«Sono ricerche di immunoterapia, una delle frontiere più promettenti in ambito oncologico – spiega Franco Locatelli, responsabile del dipartimento di Oncoematologia pediatrica all’ospedale Bambino Gesù di Roma – . Attraverso una manipolazione genetica si inserisce su una cellula del sistema immunitario, il linfocita T, una sequenza che si chiama ‘recettore chimerico’. In questo modo il linfocita T diventa in grado di aggredire le cellule tumorali, che esprimono la proteina Cd19, e si può prescindere dalla specificità del sistema Hla. Questo permette una selettività di azione molto maggiore di chemio o radioterapia convenzionali. I risultati migliori si sono avuti nelle leucemie o nei linfomi che prendono origine dai precursori dei linfociti B».

«I linfociti T – aggiunge Ruggero De Maria, docente di Patologia generale all’Università Cattolica e presidente di Alleanza contro il cancro – sono ingegnerizzati con uno dei chymeric antigenic receptor (Car-T) contro il Cd19, proteina espressa dalle cellule tumorali e dai linfociti B. Senza questi anticorpi c’è una forte immunodeficienza, ma le immunoglobuline si possono somministrare. E non va dimenticato che parliamo di malati che non avevano alcuna possibilità di cura».

Quanto alla sicurezza di queste terapie occorre cautela: «Proprio perché straordinariamente efficaci – spiega Locatelli – queste terapie determinano una distruzione massiva delle cellule leucemiche che può dar luogo a una sindrome da rilascio citochinico, che può creare problemi non banali, controllati con cortisonici o con farmaci diretti contro l’interleuchina 6. Altrimenti si inserisce nel costrutto un gene suicida che permette di spegnere le cellule modificate ». «Inoltre se vengono eliminati tutti i linfociti B – continua De Maria – occorre somministrare anticorpi. E bisogna essere sicuri che il bersaglio verso cui si indirizzano le cellule ingegnerizzate non siano indispensabili alla sopravvivenza. Inoltre sappiamo da studi precedenti che a volte il tumore modifica la sequenza del Cd19: sono quindi allo studio nuovi costrutti chimerici che colpiscono due proteine alla volta, cioè bi-specifici». Anche in Italia si lavora a queste terapie: «Al Bambino Gesù – rivela Locatelli – abbiamo sviluppato due trial accademici che abbiamo sottoposto all’Aifa: uno per le leucemie linfoblastiche acute, l’altro per il neuroblastoma, il tumore solido più frequente dell’età pediatrica». La sfida di traslare queste terapie dalle neoplasie ematologiche ai tumori solidi è portata avanti anche dal gruppo di ricerca di De Maria, tra il Policlinico Gemelli e l’Istituto superiore di sanità: «Stiamo cercando di ingegnerizzare i linfociti con recettori artificiali che riconoscono dei bersagli sugli adenocarcinomi del polmone e del colon».

Infine il problema economico: sono terapie che costano tra i 400 e i 500mila dollari. «I costi sono dovuti al fatto – osserva De Maria – che per produrre queste cellule ci sono protocolli molto complessi, il farmaco viene realizzato su misura del singolo paziente, in ambienti di good manufacturing practice, per i quali l’attività regolatoria impone una serie di protocolli».

Una valutazione complessiva viene da Alberto Scanni, già capo dipartimento di Oncologia del Fatebenefratelli di Milano e direttore generale dell’Istituto dei Tumori: «È un meccanismo molto bello, affascinante, che funziona, ma che non è perfetto, con effetti collaterali importanti, che andranno considerati. Insieme con il problema niente affatto secondario dei costi». «Certamente – conclude Scanni – la strada del futuro, importantissima, è quella dello studio biologico della malattia, cioè dei meccanismi intrinseci della proliferazione cellulare per andare al nocciolo del problema. Contro la malattia tumorale serve l’attacco con tutte le armi disponibili: chirurgia, chemio e radioterapia. E anche immunoterapia».

Leucemie, al Bambino Gesù novità di successo per il trapianto di cellule staminali

Sugli importanti risultati ottenuti dall’équipe di Franco Locatelli, il mio articolo pubblicato oggi su Avvenire

Ospedale Bambino Gesù
Ospedale Bambino Gesù

Sono sempre più alte le speranze di cura dei bambini leucemici, grazie ai progressi della ricerca di base e della ricerca clinica nel trapianto delle cellule staminali da midollo osseo. L’ultimo successo viene dallo studio dell’équipe del dipartimento di Oncoematologia pediatrica dell’ospedale Bambino Gesù di Roma, diretto da Franco Locatelli: le tecniche innovative di manipolazione cellulare messe a punto negli ultimi anni – con la collaborazione di Lorenzo Moretta, responsabile dell’area di ricerca in immunologia dello stesso ospedale – hanno reso sempre più sicuri ed efficaci tali trapianti, anche in assenza di donatori perfettamente compatibili con i malati. I dati su 80 bambini leucemici – in corso di stampa sulla rivista Blood, ma già disponibili nella versione online – hanno mostrato tassi di cura definitiva superiori al 70 per cento. «E al congresso europeo di ematologia a Madrid nello scorso giugno – rivela Locatelli – abbiamo potuto portare risultati su 47 pazienti, trattati con un’ulteriore evoluzione dell’approccio, superiori all’80 per cento in termini di sopravvivenza».

Il trapianto di cellule staminali ematopoietiche (principalmente da midollo osseo) è la terapia che negli ultimi trent’anni ha cambiato le prospettive di cura delle leucemie e di alcune immunodeficienze. La principale difficoltà è la compatibilità immunologica tra donatore e ricevente (basata sul sistema Hla), per garantire che l’azione antitumorale delle cellule sane non sia inficiata dalla grave complicanza della malattia del trapianto contro l’ospite (Gvhd, la sigla inglese di Graft versus host disease), che mette a rischio il paziente. Se manca un donatore compatibile con il malato, si ricorre al trapianto da un genitore, che condivide la metà del patrimonio genetico con il figlio, ma la procedura non è esente da rischi.

Per questo, da almeno un decennio, sono iniziati studi per migliorare le tecniche: «Abbiamo cercato – spiega Locatelli – di essere più selettivi nella manipolazione delle cellule e prevenire l’aggressione che sarebbe inevitabile quando il donatore non è compatibile, ma al tempo stesso lasciare in quel che trapiantiamo una serie di cellule utili per proteggere il paziente». Quindi «abbiamo tolto selettivamente quel tipo di linfociti (T alfa/beta) che ci proteggono da infezioni virali o fungine ma che sono anche capaci di aggredire cellule umane nell’ambito dei trapianti se non c’è compatibilità tra donatore e ricevente. Però abbiamo lasciato una serie di cellule accessorie (cellule NK, natural killer, e linfociti T gamma/delta) che si sono dimostrate straordinariamente utili per proteggere dal rischio sia di infezioni sia di ricadute leucemiche».

Questo approccio ora offre importanti risultati: «Innanzi tutto possiamo dire – osserva Locatelli – che si possono trapiantare tutti i piccoli pazienti, escluso ovviamente la piccola quota di bimbi che siano privi di entrambi i genitori o di quelli che sono stati adottati».

In secondo luogo «pur prevenendo il rischio di Gvhd, i bambini non hanno un rischio aumentato di ricaduta nella malattia tumorale. Inoltre, paragonando gli esiti di questi 80 bambini con quelli di bambini trapiantati o da un fratello perfettamente compatibile o da un donatore non consanguineo, abbiamo osservato che la probabilità di guarigione è addirittura leggermente migliore (71 contro 70 per cento). Con vantaggi anche sulla qualità di vita di questi bambini».

«Partendo da questi studi – aggiunge Locatelli – abbiamo fatto un passo in avanti: i linfociti T alfa/beta che togliamo, li reinfondiamo poi in numero controllato dopo l’inserimento di un “gene suicida” che, in caso si manifesti il Gvhd, ci permette di eliminare le cellule del donatore. L’azione antitumorale è quindi triplice: subito cellule NK e linfociti T gamma/delta, poi linfociti T alfa/beta geneticamente modificati». «Questi studi – conclude Locatelli – hanno beneficiato del supporto dei fondi dell’Associazione italiana per la ricerca sul cancro (Airc), che abbiamo ottenuto per la qualità dei nostri progetti di ricerca».