L’impegnativo compito della commissione Covid. E perché è necessaria

Il mio articolo sul lavoro che attende la commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione della pandemia, pubblicato sabato 2 marzo su Avvenire nelle pagine delle Idee

Avrà un compito impegnativo la commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione del Covid nel nostro Paese. Innanzi tutto dovrà non solo essere ma anche sembrare imparziale e rigorosa, per fugare i sospetti che sia uno strumento per gettare discredito sull’avversario politico. Infatti non solo il tono accusatorio di alcuni suoi compiti (indicati all’articolo 3 della legge istitutiva) sembra orientato a una valutazione negativa, ma l’intero dibattito parlamentare fino al voto finale alla Camera avrebbe potuto essere condotto su toni più collaborativi. 


Perché di aspetti da indagare ce ne sono veramente molti. Operare una revisione di tante decisioni assunte e – soprattutto – di quali dati le hanno ispirate e motivate è indispensabile: per rispetto sia delle migliaia di concittadini morti, sia dei tanti operatori – sanitari in primis, ma anche di tutte le forze dell’ordine e del volontariato – che si sono impegnati strenuamente per assistere, guarire o lenire le ferite, sia di coloro che le ferite ancora sopportano, perché parenti di defunti o perché ancora toccati dalle conseguenze della malattia. Infine una tale revisione è doverosa e utile anche per la società intera: fare chiarezza e ammettere gli errori serve a non ripeterli e a riacquistare credibilità. 

Sembra che ci sia più di un nervo scoperto e che dell’emergenza pandemica non si voglia più sentir parlare. E non aiuta, anzi è controproducente, un certo tipo di narrazione monocorde e autoassolutoria che vuol fare credere che si è fatto tutto quanto si poteva, date le circostanze. Anche il rapporto Istat sulla mortalità in Italia nel 2020 – pubblicato a giugno 2023 – ha ottenuto poca attenzione sui quotidiani. 

Ma che il nostro Paese fosse impreparato ad affrontare quella che si è rivelata la più grande emergenza sanitaria mondiale da un secolo a questa parte è sotto gli occhi di tutti. Ci siamo incoraggiati dicendo “andrà tutto bene” ma, tirando le somme, ha funzionato solo l’organizzazione “militare” della campagna vaccinale da parte del commissario Figliuolo. Dall’inchiesta di Bergamo sono emerse numerose circostanze imbarazzanti, anche se non di valenza penale. 

Gran parte della nostra impreparazione era figlia di un sistema sanitario sottofinanziato almeno dal 2006, e del quale piani di rientro e spending review non hanno fatto altro che indebolire le capacità di risposta. A dispetto delle rassicurazioni iniziali, l’Italia era priva di un piano pandemico aggiornato (segno di una trascuratezza “storica” verso la sanità): tra le conseguenze figura l’assenza di scorte adeguate di dispositivi di protezione individuale, o la capacità di organizzare azioni coordinate. La Cross (Centrale operativa remota per le operazioni di soccorso sanitario) ha effettuato tra marzo e maggio 2020 solo 116 trasferimenti di pazienti (di cui 76 con Covid), mentre in alcuni ospedali i malati morivano per mancanza di posti in terapia intensiva. 

Alla sfortuna di essere stato tra i primi Paesi colpiti in Occidente, l’Italia ha aggiunto una sottovalutazione del rischio: lo dimostrano sia la prevalente preoccupazione di non fomentare razzismo quando nel gennaio 2020 fu ricoverata la coppia di turisti cinesi sia le frettolose richieste di “ripartenza” dopo la prima settimana di restrizioni in Lombardia, venute da tutti i colori politici. E anche se l’Organizzazione mondiale della sanità ci ha messo del suo, con i suoi avvisi tardivi e ondivaghi (mascherine sì o no?), il clima di paura ha spesso impedito una corretta valutazione dei pericoli e delle misure per affrontarli, insistendo – nonostante le incertezze – su provvedimenti inutili o vessatori e prendendo decisioni sull’onda delle emozioni. 

Si sono ignorati o sottovalutati, nel bilanciamento tra costi e benefici, i danni anche a lungo termine che avrebbero provocato i lockdown: per una malattia in cui l’età media dei morti è sempre risultata intorno agli 80 anni, si sono dimenticati i problemi dei giovani, a cui è stata negata ogni socialità per lunghi periodi (abbiamo il record dei giorni di chiusura delle scuole tra i Paesi Ocse). E stanno emergendo ulteriori conseguenze negative: nella preparazione scolastica e nella crescita di disturbi psichici (depressione, ansia, autolesionismo). Così come si sono trascurati i danni che le difficoltà di accesso alle cure avrebbero avuto su altre malattie: in primis tumori e patologie cardiovascolari, ma anche per tutti i disabili. 

Infine i vaccini. La commissione parlamentare non può mettere in discussione studi scientifici approvati dagli enti regolatori internazionali. Ma è necessario ammettere che resta un grave vulnus il fatto che siano tuttora secretati i contratti di acquisto decisi dalla Commissione Europea con le aziende farmaceutiche, le quali solo a distanza di tempo hanno ricordato che i loro prodotti erano stati approvati per proteggere dalle conseguenze gravi della malattia, non dal contagio. Nel frattempo al presidente del Consiglio è stato fatto dire che due persone vaccinate in una stanza erano sicure di non contagiarsi. Così come scarsa è stata l’attenzione agli effetti collaterali di un tipo di vaccino mai sperimentato prima. Senza dimenticare una comunicazione talvolta farraginosa e contraddittoria: le indicazioni sul vaccino AstraZeneca sono state capovolte in 24 ore. Il tutto ha prodotto una perdita di credibilità anche delle autorità sanitarie e degli scienziati: diversi rapporti mostrano un calo di fiducia dei cittadini verso le vaccinazioni in generale. Questo può diventare un problema grave di sanità pubblica: il calo delle coperture vaccinali non si recupererà solo puntando il dito su no-vax ignoranti e pericolosi ma ammettendo gli errori compiuti, e coinvolgendo e convincendo la popolazione.

Di questioni su cui far luce la commissione ne ha molte, e non per una foga giustizialista. Occorre che lo faccia con serietà e accuratezza, magari servendosi di esperti diversi da quelli che sono stati più esposti durante i quattro anni passati, per una questione di opportunità e per evitare possibili conflitti di interesse. Ai commissari quindi il compito di svolgere il loro lavoro nell’interesse dei cittadini e non per un ipotetico vantaggio politico di parte.

Malattie rare, è tempo di aggiornare i Lea

Il 29 febbraio, in occasione della Giornata mondiale delle malattie rare, il mio articolo pubblicato su Avvenire nelle pagine della sezione è vita, con le aspettative delle associazioni dei pazienti, esplicitati dalla presidente della Federazione Uniamo Annalisa Scopinaro, e l’invito al confronto e al dialogo tra i diversi “attori” nel convegno svoltosi oggi all’Irccs “Eugenio Medea” di Bosisio Parini (Lecco) coordinato dalla neurologa Maria Grazia D’Angelo.

Approvato lo scorso anno, il Piano nazionale delle malattie rare (Pnmr) ha cominciato il suo cammino, ma non mancano le criticità che preoccupano la Federazione Uniamo (che riunisce le associazioni dei pazienti), a partire dai passi da compiere per definire i nuovi Lea (Livelli essenziali di assistenza). L’odierna Giornata mondiale delle malattie rare – rare come il 29 febbraio – è l’occasione per ribadire la necessità di dialogo e collaborazione stretti tra malati e famiglie, medici e ricercatori, e istituzioni, sanitarie e non, come evidenzia la campagna lanciata dal ministero della Salute: #Uniamoleforze. Nella stessa ottica va il convegno “Parliamoci” in programma sabato 2 marzo all’Irccs “Eugenio Medea” di Bosisio Parini (Lecco). Ed esempi di alleanza virtuosa sono le recenti collaborazioni strette tra Uniamo e la Società italiana di neurologia (Sin) e tra l’Osservatorio malattie rare (Omar) e la Società italiana di genetica umana (Sigu).

Le malattie sono sì rare (colpiscono non più di 5 persone su 10mila), ma sono oltre 6mila e coinvolgono due milioni di pazienti in Italia. Hanno origine genetica nell’80% dei casi e 7 su 10 hanno esordio in età pediatrica. Il Pnmr prevede un finanziamento per 50 milioni di euro, il cui riparto è stato approvato nel novembre scorso dalla Conferenza Stato-Regioni. Per accedervi è necessario che le Regioni emanino gli atti di recepimento e individuino i centri della Rete nazionale delle malattie rare, comunicando i dati sull’assistenza erogata: numero di pazienti con diagnosi di malattia rara, numero di piani terapeutici assistenziali personalizzati e aggiornamento del Registro nazionale delle malattie rare (attivo presso il Centro nazionale malattie rare all’Istituto superiore di sanità, diretto da Marco Silano).

«I fondi stanno arrivando adesso – osserva Annalisa Scopinaro, presidente della Federazione Uniamo – perché le Regioni stanno ultimando la definizione degli atti richiesti dalla legge. E quindi potranno partire le azioni previste dal Pnmr, anche se alcune attività non si sono mai interrotte perché previste già dalla legge 279/2001». Difficile fare una scelta tra le azioni prioritarie: «Tutto è importante per migliorare la vita quotidiana delle persone con malattia rara – puntualizza Scopinaro –, a partire dall’aggiornamento dei Lea, che sono fermi nonostante la prima loro approvazione risalga al 2017. Nei due decreti che devono aggiornarli sono contenute 12 patologie rare che devono trovare il loro codice di esenzione, oltre alle patologie neonatali inserite negli screening neonatali estesi. Lavoriamo con le istituzioni perché il processo di aggiornamento in futuro possa essere più veloce e abbiamo già presentato 30 domande per l’implementazione dei Lea».

Per garantire maggiore equità, Scopinaro sottolinea la richiesta di «giungere a un accordo tra le Regioni su un “minimo comune multiplo“ dei trattamenti ora garantiti ai pazienti extra Lea, perché alcune Regioni si possono permettere di fornire maggiori prestazioni di altre, causando discriminazioni tra i malati a seconda della loro residenza. L’obiettivo è far inserire queste azioni e terapie nei Lea stessi». Nonostante le difficoltà, Scopinaro ritiene che il bicchiere sia «mezzo pieno perché nel Pnmr sono scritte azioni concrete. Dal punto di vista dei pazienti dobbiamo monitorare per cosa vengono utilizzati i fondi stanziati. E continuare a premere sul mondo politico-istituzionale perché questi i fondi possano diventare strutturali».

Alla collaborazione guarda il convegno “Parliamoci” a Bosisio Parini coordinato da Maria Grazia D’Angelo, responsabile dell’Unità di Riabilitazione specialistica Malattie rare del sistema nervoso centrale e periferico, all’Irccs “Eugenio Medea”, che interverrà sulla comunicazione tra le varie figure: «Noi specialisti siamo in dialogo con i pazienti e le loro famiglie per chiarire il percorso che porta alla diagnosi e le difficoltà che riscontriamo. D’altre parte famiglie e pazienti ci raccontano le loro difficoltà, a partire dal percorso diagnostico, che nasce con il primo sospetto, la segnalazione del pediatra o del medico di famiglia. Se tutto procede bene, si invia il paziente a un Presidio per le malattie rare: ce ne sono in molti ospedali di ogni Regione».

E se arrivare a una diagnosi è una delle difficoltà maggiori per i pazienti, che spesso attendono anni, comunicarla è delicato: «La maggior parte della malattie rare sono geneticamente determinate – osserva D’Angelo –, il che significa che se il paziente ha un gene che determina la malattia, potenzialmente tutta la famiglia diventa oggetto di attenzione. Dobbiamo comunicare a sorelle e fratelli la possibilità di essere portatori di una malattia: è un aspetto nevralgico per il medico genetista e il biologo molecolare. Occorre essere chiari con il paziente». Anche per evitare la ricerca di informazioni su Internet, «dove può capitare di orientarsi verso una direzione sbagliata, o di vedere l’evoluzione della malattia perdendo la capacità di gestire il momento attuale».

Il paziente affronta la malattia a casa: «Va capito come gestire la malattia – conclude D’Angelo – ed eventualmente una terapia, e chiedere sul territorio i trattamenti riabilitativi. Se è un bambino, occorre gestire il rapporto con scuola e insegnanti. Spesso non c’è una figura unica che tenga insieme tutti i percorsi, anche se qualche Presidio delle malattie rare – ma non tutti – offre l’aiuto di assistenti sociali».

“Strategia dell’eccezione”, via per favorire la morte

Sfruttando l’eco di casi umani drammatici si cerca di scardinare il diritto alla vita, che lo Stato deve garantire, e agevolare un percorso verso suicidio assistito ed eutanasia. Di seguito il mio articolo pubblicato lo scorso giovedì 9 novembre su Avvenire, nelle pagine della sezione è vita

Da bambini giocando ripetevamo “l’eccezione non fa la regola”; da tempo sembra diventata un’abitudine, talvolta nel legiferare, spesso nelle aule di giustizia, la volontà di “tutelare” l’eccezione. Salvo poi cercare, per successivi aggiustamenti, di allargare il varco creato con una eccezione a un numero di casi sempre maggiore. O addirittura, sulla base del principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione, buttare letteralmente all’aria ogni limite imposto dalle norme, anche costituzionali. E capovolgere i principi della legge originaria. Questa “strategia dell’eccezione” viene utilizzata soprattutto nei casi di fine vita: da un caso pietoso, estremo, si finisce con lo scardinare il diritto alla vita, che è preciso dovere dello Stato e principio di garanzia per tutti i cittadini. Dietro alla difesa del diritto all’autodeterminazione di ogni essere umano si cela un atteggiamento orientato a favorire la morte. Negli ultimi tempi, le “battaglie” in tema di diritti dei malati e di fine vita a suon di casi utilizzati mediaticamente si stanno moltiplicando, con un innalzamento del livello dello scontro giuridico e delle pretese dell’Associazione Luca Coscioni, che quasi sempre sostiene questi malati e cerca di affermare un inesistente diritto all’eutanasia. Eccone un breve catalogo.

A metà settembre la Procura di Milano ha chiesto al giudice per le indagini preliminari (gip) di archiviare la posizione di Marco Cappato, che portò a uccidersi in Svizzera due persone malate nel 2022. Nessuna delle due aveva le condizioni stabilite dalla Corte Costituzionale, nella sentenza 242/2019, per considerare non punibile l’aiuto al suicidio. Ricordiamole: la Consulta aveva deciso non di cancellare il reato dell’aiuto al suicidio (art. 580 del Codice penale), ma di considerare non punibile il comportamento di chi «agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

Quindi la Corte costituzionale aveva stabilito che si potesse fare eccezione alla regola di punire l’aiuto al suicidio in ben determinati e ristretti casi. Una sentenza “tagliata su misura” sul caso di Fabiano Antoniani (dj Fabo) anch’egli, nel 2017, portato in Svizzera da Marco Cappato per uccidersi: tuttavia, proprio perché riconosceva che la materia è delicatissima e che devono essere evitati abusi (irrimediabili) a danno delle persone più vulnerabili, la Corte circoscriveva a pochissime circostanze la possibilità di non punire chi favorisce un suicida. Invece i due casi di cui dovrà occuparsi il gip del Tribunale di Milano non corrispondono al limiti posti dalla Consulta per almeno un parametro: nessuno dei due malati dipendeva da mezzi di sostentamento vitale, quali respiratore meccanico o alimentazione artificiale. Senza trascurare il fatto che un malato che, nel 2022 (cioè tre anni dopo la sentenza della Consulta), cercasse un aiuto per uccidersi senza mettere nei guai chi questo aiuto gli avesse prestato, avrebbe dovuto ottemperare anche alle altre due indicazioni della stessa sentenza della Corte costituzionale: cioè che le «condizioni (del paziente) e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente». Attività che né i malati che si sono poi tolti la vita, né Cappato stesso si sono premurati di fare.

Tuttavia i pubblici ministeri sembrano non accontentarsi dello spiraglio aperto dalla Consulta nel 2019 e hanno argomentato che l’indagato andrebbe assolto per non violare l’uguaglianza tra le persone, cioè – traduciamo – per non discriminare i malati che non dipendono dai sostegni vitali. Addirittura hanno sostenuto che questi sostegni vitali sarebbero stati rifiutati dai malati in questione, sulla base del principio – tutelato dalla Costituzione all’art. 32 e ribadito dalla legge 217/2019 sul consenso informato – che nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario contro la sua volontà. E hanno già prefigurato di ricorrere di nuovo alla Corte costituzionale se il gip chiederà l’imputazione coatta dell’indagato.

Un secondo tentativo di “allargamento” delle regole è quanto deciso a fine settembre a Trieste per permettere alla signora “Anna”, affetta da sclerosi multipla, di togliersi la vita. In questo caso l’azienda sanitaria ha verificato preventivamente il sussistere delle condizioni per non punire l’aiuto al suicidio, e le ha riconosciute ancora una volta senza che risulti che la malata dipenda da trattamenti di sostegno vitale. Ma l’associazione Luca Coscioni non si accontenta e parla di requisiti per l’accesso al suicidio medicamento assistito che addirittura vorrebbe fosse realizzato dal Servizio sanitario nazionale, travalicando il perimetro della sentenza 242/2019, che aveva esplicitamente sottolineato che «la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici», e quindi tanto meno in capo alle strutture del Servizio sanitario, che tra i suoi compiti (legge 833/1978 art. 2) non ha quello di uccidere le persone.

Un terzo caso è l’archiviazione chiesta a metà ottobre dalla Procura di Firenze per un caso analogo, sempre a carico di Marco Cappato. Anche questo paziente, affetto da sclerosi multipla, non era sostenuto da “trattamenti di sostegno vitale”. È ancora una volta i pm hanno prefigurato un ricorso alla Consulta per far dichiarare incostituzionale questa condizione, sempre sulla base del principio di uguaglianza dell’art. 3 della Costituzione. Infine il caso di questi giorni: la Asl Roma 1 ha verificato che la signora Sibilla Barbieri non aveva trattamenti di sostegno vitale. E allora è stata accompagnata in Svizzera per togliersi la vita. Ora il mondo radicale protesta e accusa addirittura di “tortura” la Asl romana. Dando forse per scontato quello che scontato non è: il “diritto” al suicidio. Ma la Corte costituzionale – proprio nella sentenza 242/2019 – ricorda che dall’articolo 2 della Costituzione («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo») «discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire». E ribadisce che anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani (Cedu), già nel 2002 (“caso Pretty”) aveva stabilito che non esiste «un vero e proprio diritto a morire».

Vale la pena di ricordare che nei Paesi in cui è stata approvata una legge sull’eutanasia, questa pratica si è progressivamente allargata, da poche e limitate condizioni, a un numero sempre maggiore di fattispecie, fino alle sofferenze psichiche e persino – è stato proposto – per impossibilità a pagarsi le cure. Fino a chi sostiene il “diritto a chiedere la morte” da parte di ogni paziente, grave o no. Gli “alfieri della morte” sono sempre in azione, infaticabili, ma le civiltà si costruiscono sulla difesa del diritto alla vita. Per tutti.

Anelli (Fnomceo): basta tagli, la sanità è un investimento

Il mese scorso, al Meeting di Rimini, si è svolto un dibattito sul futuro della sanità, al quale è intervenuto con un messaggio il ministro della Salute, Orazio Schillaci. Aspettative e suggerimenti dei medici sono espressi dal presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), Filippo Anelli, in questa mia intervista comparsa su Avvenire lo scorso 26 agosto. In pagina, la precedeva una breve introduzione (qui in nero) che riassume i termini del dibattito in vista della Legge di bilancio. Di cui presto si tornerà a discutere.

«Ereditiamo un decennio di tagli lineari che è costato 37 miliardi alla sanità», ha sottolineato il ministro della Salute, Orazio Schillaci in un messaggio al dibattito sulla sanità svoltosi al Meeting di Rimini. «Con la prossima legge di bilancio puntiamo a risorse aggiuntive del Fondo che intendo destinare prioritariamente al personale sanitario». Risorse che, un mese fa, lo stesso ministro aveva quantificato in 3-4 miliardi di euro. Una cifra su cui si è acceso il dibattito dopo che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha richiamato tutti al realismo, dichiarando che la prossima Manovra sarà «complicata». Di qui lo scetticismo che serpeggia sulla possibilità di dare corso alla «forte cura ricostituente» per il Servizio sanitario nazionale (San), ritenuta necessaria da Schillaci. Che alla platea del Meeting ha annunciato l’intenzione di «rendere più attrattivo il nostro sistema sanitario» con «stipendi migliori soli operatori della sanità», e rivedendo il «modello organizzativo». Puntando a liberarsi di «paletti e tetti di spesa vari». Il ministro si è detto «impegnato in una strategia di medio-lungo termine: gli interventi tampone o il semplice aumento di fondi non hanno mai portato nei fatti a garantire la salute a tutti. Serve ripensare a una medicina pubblica più vicina alle persone, e più innovativa». Ma il San, dopo la crisi Covid, non può più attendere.

«È chiaro ormai che spendere in sanità rappresenta un investimento, e non solo per la salute. Questo deve essere il criterio che guida ogni futura riforma». Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), concorda con il ministro della Salute, Orazio Schillaci: «Per migliorare l’attrattività del Servizio sanitario nazionale (Ssn) servono incentivi economici per i professionisti, ma anche un’organizzazione che ne valorizzi le competenze». 

«Puntiamo a risorse aggiuntive» ma «il semplice aumento di fondi non basta a garantire la salute a tutti». Il ministro  Schillaci ha detto che il Ssn ha «bisogno di una forte cura ricostituente». Che cosa occorre, secondo la Fnomceo? 

Il tema è di carattere culturale: i problemi sono di lunga data, perché ereditiamo l’idea che la sanità sia un costo. L’inversione di tendenza si è avuta durante il Covid, quando il ministro Roberto Speranza ha più volte ribadito che non saremmo tornati alla stagione dei tagli. Ho fiducia che questa promessa sarà mantenuta dal ministro Orazio Schillaci. Significa un cambio di prospettiva: dall’idea di doversi mantenere entro la spesa stabilita al considerare la sanità come un investimento. Il Ssn genera benefici non solo per la salute (basta pensare che abbiamo l’indice di sopravvivenza tra i più alti al mondo) e per l’equità (un sistema universalistico che garantisce la salute a tutti a prescindere dalla capacità contributiva), ma è anche un motore di sviluppo economico, come alcuni Paesi europei – tra cui Francia e Germania – hanno già ben capito. Uno dei fattori che spinge la produttività è proprio il Ssn, a cui questi Paesi dedicano più del 10% del Pil, perché ogni euro investito torna indietro raddoppiato: le risorse diventando un volano di crescita economica e stabilità sociale. Per l’Italia stiamo raccogliendo nel dettaglio i dati con il Censis e li presenteremo in autunno. 

Schillaci ha parlato di sistema ingolfato, che non si è innovato, e vorrebbe agire su due leve, economica e organizzativa. Su questo fronte cosa servirebbe per migliorare le condizioni di lavoro dei medici? 

C’è un dato sociologico importante, che abbiamo rilevato come Fnomceo due anni fa quando abbiamo posto la questione medica. Abbiamo scoperto che il 30 per cento dei giovani medici era disposto a dimettersi nel momento in cui le condizioni di lavoro non garantivano una qualità di vita privata sufficientemente accettabile. È anche una conseguenza del fatto che la disponibilità di lavoro è piuttosto ampia: se uno lascia il Ssn trova impiego nel privato, o ancora meglio all’estero. 

Ma è anche vero che il mondo della sanità sta cambiando rapidamente: ci sono 31 professioni sanitarie riconosciute, con competenze specifiche. Questo impone che il medico non svolga il suo lavoro da solo, ma in équipe, dove l’interazione tra professionisti è la vera innovazione. Il lavoro svolto con le diverse professioni sanitarie (infermieri, ostetriche, psicologi, tecnici, ecc.) porterà a un passaggio culturale fondamentale che sarà recepito anche nel nuovo Codice deontologico dei medici. 

Schillaci ha focalizzato il problema, l’attrattività della professione non è solo una questione di carattere economico, anche se su questo punto la forbice si è troppo allargata tra Italia ed estero. 

Il dibattito sull’organizzazione chiama in causa il Decreto ministeriale 77 del 2022 sulle cure territoriali. È qui uno dei nodi principali? 

La discussione si è incentrata molto sulla opportunità di avere medici di medicina generale dipendenti o convenzionati, come è adesso. Dal punto di vista deontologico quest’ultima scelta garantisce meglio la libera scelta del cittadino, e il legame con il suo medico di famiglia. In origine, nella legge 833 del 1978, con la convenzione si voleva favorire una competizione basata sulla scelta di chi rispondesse meglio alle esigenze del cittadino. Però poi sono stati modificati alcuni parametri, e si è passati da un medico ogni mille abitanti, a uno ogni 1.300, poi 1.500, poi 1.800, addirittura 2mila in certi casi. Ma in questo modo si perde il rapporto adeguato con il cittadino. Per non parlare di quei territori dove, per mancanza di un numero sufficiente di medici, il cittadino non può scegliere il medico. Detto questo, con la dipendenza si rischia di perdere il rapporto personale (il direttore generale può mandarti dove vuole) e anche la capillarità del servizio, perché il sistema tende a risparmiare, mentre ora c’è praticamente uno studio in ogni paese. 

Una possibile soluzione, che noi suggeriamo, è far entrare i medici di medicina generale nelle Case di comunità attraverso le loro forme associative. Verrebbe garantita un’adeguata presenza dei medici nelle Case di comunità, salvaguardati la capillarità dell’assistenza e il diritto del cittadino alla libera scelta del suo medico di fiducia. Si può approfittare del rinnovo dei contratti per inserire norme che favoriscano questa applicazione del Dm 77. 

Tuttavia la carenza di medici nel Ssn chiama in causa anche le risorse, come ha ammesso il ministro. Come invertire la rotta? 

L’errore del passato è stato di non aver puntato sui professionisti, e soprattutto non aver definito gli standard. E anche il Pnrr, per sua natura, interviene su strutture e strumenti e non sui professionisti, che però sono quelli che “fanno” la sanità. Per il pareggio di bilancio la voce tagliata è sempre stata quella del personale, ma se non si definiscono bene quanti operatori servono per ogni tipo di reparto, le condizioni di lavoro peggiorano, generando il disagio profondo a cui assistiamo. Tra l’altro, noi medici abbiamo l’obbligo deontologico di ascolto e dialogo con il paziente, e la legge 219/2017 ha stabilito che il tempo della comunicazione è tempo di cura e non può essere contingentato, non può essere determinato dal numero carente degli operatori. L’auspicio nostro è che – dopo i decreti 502 e 517 degli anni Novanta, che erano improntati a un criterio economicistico – si torni all’ispirazione della legge 833/78, dando maggior peso a cittadini e professionisti, ma correggendo gli errori che avevano portato la spesa fuori controllo. 

Negli ultimi tempi si è parlato anche di formazione e possibile abolizione del numero chiuso. Serve per rimediare alla mancanza di medici? 

In realtà il numero di medici in Italia è di 4 ogni mille abitanti, la media negli Stati dell’Ocse è 3,8 e negli Stati Uniti è 2,6. Il problema è che non vanno a lavorare nel Ssn. Credo che dobbiamo respingere l’idea nostalgica di tornare al passato abolendo il numero chiuso, facendo una selezione naturale di chi riesce a superare il primo biennio. Quando ho iniziato io, la qualità della formazione non era eccellente: eravamo tantissimi, non tutti entravano nelle aule, e il rapporto con i docenti era di basso livello. Penso piuttosto che sarebbe da incentivare il modello di una selezione che viene anticipata alle scuole superiori, grazie al modello dello studio della biologia con curvatura biomedica negli ultimi due anni di liceo: tra i ragazzi che seguono i corsi, un 30% abbandona, ma gli altri capiscono quale può essere la loro strada e riescono a superare più facilmente anche il concorso di medicina. È un modello che si può migliorare ma che sembra funzionare.  

Il ministro ha parlato anche di dare risposte «appropriate». C’è un problema anche nella domanda di prestazioni, non sempre necessarie o adeguate scientificamente? 

L’appropriatezza delle prestazioni è un tema affrontato da 15-20 anni, ci hanno provato tutti. L’attività medica si basa su due pilastri: l’evidenza scientifica e il diritto del cittadino a scegliere quali cure ricevere. Due principi cardine spesso richiamati dai giudici. Noi medici siamo consapevoli che non possiamo imporre nemmeno le evidenze scientifiche, ma questo principio non può essere in competizione con l’appropriatezza: devono viaggiare insieme. E quello che i cittadini decidono di fare non è irrilevante per il Ssn, ma i principi dell’appropriatezza non possono essere garantiti dal paternalismo medico del passato, ma solo grazie alla capacità di confronto con il cittadino-paziente. Sarà un principio di cambiamento del Codice deontologico e speriamo anche della formazione del medico: la comunicazione diventa strumento essenziale della professione.

Malattie rare, non c’è tempo da perdere

Tra le priorità che attendono il ministero della Salute, ci sono “atti dovuti” per il completamento di norme già approvate. Tra queste, i decreti attuativi della legge sulle malattie rare: l’ultimo lascito del precedente governo è la nomina del Comitato nazionale, che ora dovrà cominciare i suoi lavori. Su questo tema, gli auspici delle associazioni nel mio articolo, pubblicato su Avvenire lo scorso 20 ottobre, nelle pagine della sezione è vita.

Sul rettilineo di arrivo della scorsa legislatura, il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, ha firmato il decreto che istituisce il Comitato nazionale per le malattie rare (CoNaMR), un provvedimento tra quelli previsti dalla legge 175/2021 e atteso dalle associazioni dei pazienti e da tutto il mondo scientifico e istituzionale che lavora per trovare soluzioni terapeutiche e dare sostegni adeguati ai malati rari. «Ci auguriamo – esordisce Annalisa Scopinaro, presidente di Uniamo, la Federazione italiana malattie rare – che, non appena formato il nuovo governo, il Comitato possa procedere speditamente, perché il lavoro che lo attende è tanto». «Finalmente – commenta Ilaria Ciancaleoni Bartoli, presidente dell’Osservatorio malattie rare (Omar) – si potranno portare avanti i tanti capitoli ancora aperti. Ci auguriamo che nel nuovo governo venga data presto a un sottosegretario del ministero della Salute la delega alle malattie rare, auspicabilmente una persona che abbia la volontà e la competenza di occuparsi di questo tema».

Secondo quanto previsto dalla legge 175, il Comitato avrà «funzioni di indirizzo e coordinamento, definendo le linee strategiche delle politiche nazionali e regionali in materia di malattie rare». Sarà composto da 27 persone: innanzi tutto il responsabile del Centro nazionale malattie rare dell’Istituto superiore di sanità (Iss), da nominare a breve dopo la lunga direzione di Domenica Taruscio, e il coordinatore interregionale per le malattie rare della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome (attualmente Paola Facchin). Poi sei esponenti delle direzioni del ministero della Salute, due del ministero del Lavoro e dell’Università, uno della Conferenza delle Regioni, uno dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), uno dell’Agenzia italiana per i servizi sanitari regionali (Agenas), uno dell’Inps, due della Consulta delle professioni sanitarie, quattro di società scientifiche (Sigu, Simg, Fiarped, Fism), uno della Rete di riferimento europea delle malattie rare (il network degli oltre 300 centri clinici italiani dedicati a una patologia rara, presenti in 63 ospedali), uno della conferenza dei rettori (Crui), uno di Fondazione Telethon, due delle associazioni dei pazienti (Uniamo per l’Italia, Eurordis per l’Europa), uno della testata giornalistica Omar. Poiché a coordinare i lavori – e a convocare le sedute del Comitato – sarà il capo della segreteria tecnica del ministro della Salute, è evidente che ormai si attende la formazione del nuovo governo per dare vita al Comitato stesso. E tutti gli enti coinvolti dovranno nominare i loro rappresentanti. «Ci auguriamo che lo facciano presto – puntualizza Ilaria Ciancaleoni Bartoli – perché è importante essere pronti subito. C’è tanto lavoro da fare». Un punto su cui concorda Annalisa Scopinaro: «Far parte del comitato non è un titolo onorifico. C’è molto da fare oltre alle riunioni, ci sono documenti da studiare e da produrre per rendere pienamente operativa la legge 175 sulle malattie rare». Anche se una parte importante è già delineata: «Il nuovo Piano nazionale delle malattie rare è ormai pronto – continua Scopinaro – e sostituisce l’ultimo che copriva gli anni 2013-2016. È stato preparato dal Tavolo tecnico – istituito dal ministro Roberto Speranza –, che ha concluso i suoi lavori nel maggio scorso, dopo tre anni di confronti e oltre 50 riunioni. Il Piano è già stato approvato dal Tavolo interregionale per le malattie rare della Conferenza delle Regioni».

«Tra i primi compiti del nuovo governo – ricorda Ilaria Ciancaleoni Bartoli – c’è quello di completare i decreti attuativi previsti dalla legge 175: in particolare quello che aggiorna l’elenco delle malattie rare, quello che istituisce il fondo per le famiglie, che andrà rifinanziato, e quello che stabilisce i crediti di imposta per la ricerca sulle malattie rare». Le questioni che più stanno a cuore alle associazioni dei pazienti sono molto pratiche: «Abbiamo bisogno – sottolinea Scopinaro – che venga garantito, come prevede la legge, che i farmaci approvati dall’Aifa a livello nazionale entrino nei prontuari farmaceutici regionali in tempi uniformi, evitando quindi differenze tra Regioni che si traducano in disuguaglianze per i pazienti a seconda della loro residenza». Quel che pare importante, sottolinea Scopinaro, è che «tutti coloro che faranno parte del Comitato abbiano la volontà di avviare un circolo virtuoso, creare un affiatamento. A questo scopo, visto che le riunioni sono previste in videoconferenza, mi auguro che almeno la prima, per conoscersi, si svolga in presenza». «Sarebbe anche auspicabile che venissero coinvolte al ministero anche persone che hanno mostrato grande sensibilità per le malattie rare – aggiunge Ilaria Ciancaleoni Bartoli –. Penso per esempio alla senatrice Paola Binetti, che nella scorsa legislatura si è spesa con competenza e passione su questo tema».

Un altro aspetto cruciale, che trascende (ma comprende) il mondo delle malattie rare, è quello dell’aggiornamento dei Livelli essenziali di assistenza (Lea). «Sono tuttora bloccati in Conferenza Stato-Regioni – lamenta Ilaria Ciancaleoni Bartoli – ma sono importantissimi per aggiornare e inserire trattamenti che non sono previsti nei Lea vigenti. Tra questi anche gli screening neonatali, che finora sono garantiti per poche malattie, ma che esistono per altre patologie come la Sma: e la diagnosi precoce può garantire un trattamento efficace che è ora disponibile». «L’aggiornamento dei Lea – conclude Scopinaro – diventa anche una questione di giustizia. Finora alcune novità terapeutiche o presidi importanti sono stati garantiti extra Lea solo da alcune Regioni, non coinvolte dai piani di rientro. E questo crea disuguaglianze».

«Vaccini anti Covid-19, servono programmi di sorveglianza attiva»

A febbraio l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha presentato il Rapporto annuale sulla sicurezza dei vaccini contro il Covid-19: 27/12/2020-26/12/2021. «Un’occasione persa», secondo Maurizio Bonati, direttore del dipartimento di Salute pubblica dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”, nonché componente del Comitato scientifico per la Sorveglianza Post-marketing dei vaccini Covid-19. E spiega che migliorare le indagini di vaccinovigilanza serve anche a creare «una partecipazione condivisa, razionale e responsabile alle attività di salute pubblica». Alla mia intervista, che è stata pubblicata giovedì 17 marzo su Avvenire, nella sezione è vita, premetto la spiegazione della gestione del Rapporto stesso, comparsa sulla stessa pagina.

Al Rapporto annuale sulla sicurezza dei vaccini Covid 19 non ha contribuito il Comitato scientifico per la sorveglianza dei vaccini (Csv) Covid-19, istituito il 14 dicembre 2020 dall’Aifa «in accordo con il ministero della Salute e il Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19». La motivazione, riferisce Aifa, è che «il Comitato Sorveglianza Vaccini non si è più riunito dopo l’estate perché ha progressivamente esaurito il suo ruolo. È stato molto attivo nel primo semestre nel supportare la Cts (Commissione tecnico-scientifica di Aifa) per alcune decisioni e nella farmacovigilanza ha visto coinvolti individualmente alcuni degli esperti. Inoltre era in corso di nomina il nuovo Nitag (National immunization technical advisory group, Gruppo tecnico consultivo nazionale sulle vaccinazioni, ndr), che ha avuto lunghi tempi per l’insediamento». Il Csv Covid-19 «rimarrà in carica per due anni – scriveva Aifa nel 2020 – e potrà essere rinnovato in base all’evoluzione della pandemia e all’andamento della campagna vaccinale Covid-19». È composto da 14 «esperti indipendenti » (tra cui presidente e direttore generale Aifa), con sette osservatori di istituzioni nazionali e regionali. L’obiettivo: «Coordinare le attività di farmacovigilanza e collaborare al piano vaccinale relativo all’epidemia Covid-19, svolgendo una funzione strategica di supporto scientifico all’Aifa, al ministero della Salute e al Ssn». All’insediamento del Csv il direttore generale dell’Aifa, Nicola Magrini, lo definiva «un punto di riferimento per il Ssn per garantire una sorveglianza attiva sulla sicurezza di tutti i vaccini Covid-19». Il Csv ha contribuito ai primi nove rapporti mensili presentati dal 26 gennaio 2021 al 26 settembre 2021.

«Dal Rapporto annuale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) sui vaccini contro il Covid- 19 si ricava poco, è un po’ un’occasione persa. Conferma i dati attesi secondo quanto emerge dai dossier sui trial effettuati dai produttori per ottenere l’autorizzazione dagli enti regolatori (Food and Drug Administration – Fda, European medicines Agency -Ema). Ma non aggiunge nessuna ricerca di farmacovigilanza attiva, nemmeno per seguire le coorti di pazienti che presentano qualche profilo di rischio».

Maurizio Bonati, direttore del Dipartimento di Salute pubblica dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, e componente del Comitato scientifico per la Sorveglianza Post-marketing dei vaccini Covid-19 (che però non ha lavorato a questo documento), osserva: «Posto che il rapporto rischio-beneficio dei vaccini contro il Covid-19 è ampiamente a favore del beneficio, questo documento, anche per le modalità di comunicazione adottate, contribuisce poco a informare i cittadini, in particolare gli “esitanti”. L’educazione sanitaria della popolazione è il fine principale mancato di questa pandemia».

Che cosa si ricava dal Rapporto annuale di vaccinovigilanza di Aifa?

Il Rapporto conferma quanto riportato in letteratura o da altre Agenzie regolatorie: è importante, ma non sufficiente. L’analisi fatta si basa sulle segnalazioni spontanee dei cittadini (farmacovigilanza passiva). Le segnalazioni sono state tante, più che per altre vaccinazioni, ma attese sia per il tipo di evento avverso segnalato che per le preoccupazioni e i timori che hanno accompagnato la scelta dei vaccini e la campagna vaccinale. Per creare consenso e partecipazione informati non è quindi sufficiente limitarsi a comunicare che non ci sono problemi particolari perché la proporzione di segnalazioni di sintomi è analoga a quella che, durante i trial, emergeva da coloro che avevano ricevuto un placebo e non il vaccino, il cosiddetto “effetto nocebo”. Tutt’altra efficacia e appropriatezza sarebbe accompagnare le valutazioni della sorveglianza passiva con quelle di sorveglianza attiva, una misura con la quale l’operatore di sanità pubblica provvede a contattare quotidianamente un campione di vaccinati per avere notizie sulle condizioni di salute.

Spicca il fatto che, mentre la mortalità per Covid-19 sin dall’inizio della pandemia resta fissa a 80 anni, le segnalazioni di effetti collaterali dei vaccini sono molto più numerose tra le età più giovanili. C’è una spiegazione?

Anche per la variabile età l’analisi delle reazioni avverse dopo la vaccinazione contro il Covid-19 necessita di confronti con le segnalazioni ricevute dopo altre vaccinazioni, sebbene la classe 17-55 anni di cittadini sani è scarsamente rappresentata perché non è target di altre vaccinazioni. Analoghe considerazioni andrebbero fatte per alcune reazioni avverse gravi, come per le pericarditi e le miocarditi segnalate in particolare nei giovani. Le validazioni delle segnalazioni vanno fatte rapidamente e rapportate alla frequenza della malattia insorta prima della campagna vaccinale, così come in cittadini vaccinati e non vaccinati. È un’attività che richiede un sistema preparato ed efficiente che non può essere adeguatamente organizzato in corso di epidemia ma prima. Anche questo serve per un’adesione partecipata, al successo di una campagna vaccinale e ai tempi per raggiungerlo.

È stata fatta una vaccinovigilanza passiva, aspettando le segnalazioni, e non attiva, cercandole. Che cosa comporta?

Quantificare i rischi implica definire quali costi la collettività e il singolo accetta di pagare. Quindi non basta la segnalazione spontanea, soggettiva del sintomo, ma il tipo, la gravità, il costo diretto e indiretto (sanitario ed economico) della reazione avversa che la somministrazione del vaccino ha indotto a breve e a distanza di tempo. Ecco, tutto questo è possibile solo con un monitoraggio sistematico e continuo nel tempo: con una vaccinovigilanza attiva.

Per il futuro, come si dovrebbe proseguire l’attività di vaccinovigilanza per il Covid-19?

In un Paese con un alto grado di analfabetismo sanitario occorre costruire un rapporto di fiducia con un’informazione chiara. Spiegare perché è necessaria una copertura del 95% della popolazione, specie in una condizione di limitate conoscenze, non è facile, ma è controproducente non farlo. Spiegare bene che il vaccino avrebbe protetto dalla malattia grave e forse non dal contagio, che nessun vaccino protegge tutti i vaccinati, che forse sarebbero stati necessari dei richiami: ecco sono tutte iniziative attive in un percorso collettivo di vigilanza, di contrasto alla pandemia. Uno dei problemi di questo virus – che si conosceva solo in parte – è il “long Covid”, problema che si potrà risolvere solo con il tempo e con un’attenta sorveglianza dei guariti, in particolare di quelli che hanno contratto l’infezione in modo grave. Dobbiamo cercare di costruire sempre un rapporto di fiducia nella popolazione, anche in vista di future infezioni e nuovi vaccini, che consenta una partecipazione condivisa, razionale e responsabile alle attività di salute pubblica.

Come mai il Comitato scientifico per la Sorveglianza Post-marketing dei vaccini Covid-19, istituito nel dicembre 2020 per una durata di due anni, non compare in questo Rapporto?

Il nostro Comitato ha chiuso i lavori, di fatto, con il Rapporto mensile di fine settembre, prima che venisse trasformato in trimestrale. Non siamo più consultati da tempo.

Ecco gli “angeli custodi” che proteggono il cuore dall’infarto

Intervista alla ricercatrice italiana Claudia Monaco, cardiologa a capo di un laboratorio all’Università di Oxford (Regno Unito), che ha scoperto nelle arterie la presenza di una cellula fattore protettivo contro l’aterosclerosi, e sta studiando la possibilità di sviluppare un farmaco. L’articolo è stato pubblicato su Avvenire lo scorso 17 febbraio, nelle pagine della sezione èvita.

Un fattore che protegge le arterie dall’aterosclerosi, e quindi che riduce il rischio di infarto, è stato individuato da un gruppo di ricerca guidato dall’italiana Claudia Monaco: lo studio è stato pubblicato il mese scorso su Nature Communications. Specializzatasi in Cardiologia presso l’Università Cattolica di Roma con il professor Attilio Maseri, Claudia Monaco è ora docente di Infiammazione cardiovascolare all’Istituto Kennedy dell’Università di Oxford (Regno Unito). «L’aterosclerosi – spiega – è una malattia subdola che restringe i vasi sanguigni, causando ostruzioni al flusso di sangue a organi vitali, come il cuore e il cervello, tramite un accumulo di grasso e trombi dentro il vaso stesso. Sappiamo che alcune forme di aterosclerosi (un processo comune a tutti con l’età) restano gestibili e croniche, mentre altre hanno un decorso problematico che causa infarti e ictus». La scoperta del gruppo di Claudia Monaco apre la strada a nuove strategie terapeutiche che migliorano la risposta immunitaria contro la placca aterosclerotica. Non si tratta di un gene o di una proteina ma di una nuova cellula di cui non si conosceva l’esistenza.

Il seguito dell’articolo si può leggere sul sito di Avvenire

Yamanaka: le “mie” staminali da Nobel

La mia intervista allo scienziato giapponese sulle applicazioni delle cellule staminali pluripotenti indotte (Ips), la scoperta che gli è valsa il premio Nobel per la medicina. L’articolo è stato pubblicato su Avvenire lo scorso 8 luglio.

«Credo che le promesse scientifiche e cliniche sulle cellule Ips siano state mantenute. Lo dimostrano molte scoperte e l’avvio di numerosi trial clinici». Lo scienziato giapponese Shinya Yamanaka ha vinto il premio Nobel per la medicina nel 2012 per la scoperta delle cellule staminali pluripotenti indotte (Ips), grazie a un metodo (applicato nel 2006 a cellule di topo e nel 2007 a cellule umane) che consente di far regredire le cellule fino a uno stadio simil-embrionale. Una svolta che ha permesso di affrontare le sfide della ricerca su molte malattie con un’arma innovativa e potente. Yamanaka, che è direttore del Centro di ricerca e applicazione delle cellule Ips (CiRA) dell’Università di Kyoto, in Giappone, vede il suo compito principale nel «portare la tecnologia delle cellule Ips ai pazienti». Il testo completo può essere letto sul sito di Avvenire

«Medici al centro delle riforme post pandemia»

Filippo Anelli, presidente nazionale degli Ordini dei medici, sottolinea la necessità di valorizzare le competenze dei professionisti per utilizzare bene le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). La mia intervista è comparsa su Avvenire domenica 6 giugno

«Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) non basta puntare sulle strutture, bisogna valorizzare le professionalità, senza stravolgere le competenze. E il Paese ha bisogno di più medici specializzati, si è visto bene con la pandemia». Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), concorda che la campagna vaccinale anti Covid-19, se diventerà annuale, dovrà andare sul territorio: «Come accade per la vaccinazione antinfluenzale. Ma i medici andranno supportati, per il carico di lavoro extra sanitario che richiede».

La vaccinazione anti Covid-19 sta funzionando, basterà a portarci fuori dall’emergenza?

La vaccinazione ha ridotto il contagio, abbattuto la mortalità e ci ha aiutato a uscire dalla fase critica. Lo avevamo visto già per i medici: dopo che sono stati vaccinati tra gennaio e febbraio, abbiamo assistito a un crollo della mortalità da marzo. Non sappiamo però ancora esattamente quanto duri l’immunità: la campagna è iniziata a fine dicembre. Però vediamo che il green pass è già stato prolungato da 6 a 9 mesi, e quello europeo varrà un anno: significa che i primi studi hanno dato risultati migliori di quanto si era pensato.

Se occorrerà una terza dose, la faranno i medici negli ambulatori?

Sulla terza dose, al momento, non ci sono certezze: la natura di un virus che muta suggerisce di essere prudenti e di adottare strategie di vaccinazione annuale. Per quanto il piano vaccinale basato sugli hub abbia funzionato (a parte la necessità di “inseguire” i soggetti fragili con l’aiuto dei medici di famiglia), è chiaro che, in caso di richiami annuali, la gestione non potrà più essere emergenziale, ma dovrà basarsi su servizi sanitari del territorio. Da un lato occorre che i medici “dirottati” sull’emergenza Covid tornino alle loro attività ordinarie per rispondere alla “pandemia silenziosa”: liste di attesa che si allungano, diagnosi tardive, difficoltà di accesso alle prestazioni. Dall’altro non bastano i dipartimenti di prevenzione delle Asl: è ragionevole prevedere il coinvolgimento dei medici di medicina generale (mmg). Tuttavia il carico di lavoro extra sanitario che i vaccini anti Covid comportano (organizzare e chiamare i pazienti) fa sì che si debbano prevedere adeguati “rinforzi”. Inoltre rispetto al vaccino antinfluenzale, monodose e conservato per sei mesi nei normali frigoriferi, quelli anti Covid a mRna sono in flaconi polidose, 6 per Pfizer e 10 per Moderna, da utilizzare interamente una volta aperti.

Ci sono stati medici che non hanno voluto vaccinarsi. È ragionevole che ci sia un obbligo per il personale sanitario?

Su circa 460mila medici, i “no vax” sono pochissimi. Sull’obbligo vaccinale del personale sanitario c’è una sentenza dalla Corte Costituzionale (137/2019) che ha riconosciuto valida una legge della Regione Puglia che lo prevedeva per chi lavora in alcuni reparti. La Consulta ha stabilito che per un operatore sanitario una protezione come il vaccino rappresenta non un “obbligo” ma un “requisito” per svolgere l’attività, anche in termini di sicurezza del lavoro per sé e per i pazienti (ci sono professioni per le quali la vaccinazione antitetanica è un requisito). Avevamo lamentato la mancanza dei dispositivi di protezione individuale all’inizio della pandemia: oggi la vaccinazione si dimostra il miglior presidio per la sicurezza.

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) prevede 20 miliardi per la sanità. Quali i suggerimenti della Fnomceo?

Il Pnrr è uno strumento teso a colmare le disuguaglianze e le carenze di carattere strutturale. Prevede, per esempio, 4 miliardi per rinnovare le apparecchiature obsolete. Poi risorse per l’ammodernamento tecnologico, il fascicolo sanitario elettronico, la messa in sicurezza degli ospedali secondo la normativa antisismica. Mi pare però che manchi altrettanto investimento sulle professioni. Si parla di case di comunità, ospedali di comunità, assistenza territoriale, ma i professionisti restano ai margini: non è possibile una riforma del Servizio sanitario nazionale (Ssn), soprattutto sul piano territoriale, se non si coinvolge chi deve metterla in atto. Per potenziare l’assistenza primaria, non basta fare le case della comunità, occorre che i medici possano lavorare in équipe con assistente di studio, infermiere, ostetrica, terapisti, psicologi, cioè integrando le professionalità. Siamo contrari allo slittamento delle competenze, cioè a dare i compiti del medico ad altri professionisti: significa abbassare la qualità dell’assistenza. Esiste anche un problema di governance. Bisogna evitare che il modello delle aziende sanitarie serva solo per contenere i budget: di recente il presidente della Consulta ha ribadito che i diritti di salute non possono essere sacrificati per esigenze di bilancio. Nella misura 6 del Pnrr questo tema è accennato, ma solo in termini di principio.

Che cosa proponete dunque?

Sulla scia del dibattito negli Stati generali della Fnomceo, accanto al Pnrr abbiamo lanciato la questione medica, cioè la necessità di definire con precisione i confini della professione. Il medico fa diagnosi e terapia. Se l’infermiere si specializza ben venga, così come altri terapisti, ma senza invasioni di campo. Occorre valorizzare le competenze di professionisti che devono lavorare insieme, e non in conflitto: se nelle case della salute ci saranno équipe multifunzionali, è opportuno che le competenze siano ben definite. E poi manca personale. L’abbiamo visto nella pandemia: non basta raddoppiare i respiratori per le terapie intensive, se per farli funzionare non abbiamo un numero sufficiente di anestesisti rianimatori. Ma per ovviare alla carenza di medici, occorre un’adeguata programmazione.

Si riferisce al cosiddetto “imbuto formativo”?

Sì, tutti i medici devono avere la possibilità di trovare un percorso formativo post laurea: una scuola di specialità o il percorso della medicina generale. È un atto di giustizia nei confronti dei giovani. Servirebbe che fosse stabilito per legge, perché nessuno sia penalizzato e magari scelga di espatriare, causando un danno non solo economico al Paese. Il Pnrr ha stanziato 4mila borse post-laurea per le specialità e 2mila per la medicina generale, ma deve diventare un provvedimento duraturo e non occasionale.

Nel Pnrr è anche accennata la possibilità che i mmg diventino dipendenti del Ssn. Una prospettiva praticabile?

Mi pare che sia una questione più ideologica che pratica. Da quando esisteva il medico condotto a oggi è sempre stato salvaguardato il diritto del cittadino di scegliere il proprio medico. Recentemente uno studio sul British medical journal ha mostrato che seguire per lungo tempo un paziente migliora gli indici di sopravvivenza. La scelta della persona a cui affidare la propria salute sviluppa un importante legame di fiducia che valorizza anche l’autodeterminazione del paziente e la tutela della sua dignità. All’interno del Ssn, la scelta del medico si è realizzata solo con l’intramoenia, che non mi pare una soluzione perfetta dal punto di vista della giustizia sociale.

Malattie rare, quanti danni dal lockdown

Il mio articolo per la Giornata mondiale per le malattie rare, uscito sabato 27 febbraio su Avvenire

Per i pazienti con malattie rare la pandemia da Covid-19 ha rappresentato «un’emergenza nell’emergenza, soprattutto nella prima fase. Ha determinato un significativo impatto sulle condizioni di benessere psico-fisico e relazionale nei malati rari e loro famiglie». Non usa giri di parole Domenica Taruscio, direttore del Centro nazionale malattie rare presso l’Istituto superiore di sanità (Iss), per indicare le problematiche che queste persone, più di un milione in Italia, ma divisi tra quasi 8mila patologie diverse, hanno dovuto affrontare negli ultimi 12 mesi. La Giornata mondiale delle malattie rare, che si celebra domani, è l’occasione per gettare un po’ di luce su questi pazienti, fragili ma abituati a sviluppare capacità di resilienza. «Scontiamo alcuni ritardi, che la pandemia ha messo ancor più in evidenza – commenta Annalisa Scopinaro, presidente di Uniamo, la Federazione italiana delle associazioni di persone con malattie rare – in particolare il Piano nazionale delle malattie rare, scaduto nel 2016, e l’iter di una nuova legge sulle malattie rare, fermo alla commissione Bilancio della Camera». Tra le norme della futura legge che Uniamo valuta positivamente c’è l’immissione automatica nei Prontuari regionali delle terapie avanzate subito dopo l’approvazione da parte dell’Agenzia italiana del farmaco, mentre attualmente è necessario un provvedimento specifico, che non viene mai adottato nello stesso momento dalle diverse Regioni, provocando disuguaglianze tra i malati sulla base della loro residenza.

La solida collaborazione esistente tra Istituto superiore di sanità e Uniamo ha prodotto, tra le altre cose, un’indagine conoscitiva per rilevare le necessità dei pazienti e le principali difficoltà incontrate durante la pandemia. «I malati rari non sono stati considerati prioritari rispetto alla emergenza Covid-19 – osserva Domenica Taruscio –. Il 50% di loro non si è recato nelle strutture ospedaliere per controlli clinici e terapie, anche laddove erano attive e non erano state trasformate in reparti Covid, perché c’è stata la percezione di aumentato rischio di contagio, considerando anche la difficoltà iniziale a procurarsi i dispositivi di protezione individuale». Un’altra criticità rilevata dall’indagine Iss-Uniamo è stata la difficoltà per i malati a reperire alcuni farmaci che sono distribuiti dagli ospedali. Nell’assistenza si è accumulato un ritardo «non ancora del tutto recuperato – ammette Taruscio –, anche se la situazione varia a seconda delle regioni». «Possiamo dire – aggiunge Scopinaro – che è mancata la continuità tra il paziente e i centri specialistici. Non va dimenticato che al milione di malati vanno aggiunte le loro famiglie: le malattie rare sono per l’80% di origine genetica, spesso riguardano bambini e presentano un’estrema varietà di condizioni. In generale, a parte l’abitudine dei pazienti a “proteggersi”, che ha reso loro meno insolita e pesante la segregazione del lockdown, il contatto con i medici è stato spesso affidato solo alla buona volontà di coloro che si sono resi reperibili personalmente tramite telefonate o messaggi». Di positivo, precisa Scopinaro, c’è che «la situazione ha indotto a prendere maggiormente in considerazione la telemedicina (in realtà più una teleassistenza), che è stata inserita nel documento prodotto dal gruppo di lavoro creato all’Iss e che è stato approvato dalla Conferenza Stato-Regioni». «I bisogni dei pazienti rari – continua Scopinaro – sono molto variegati. Saperli affrontare e risolvere sarebbe utile anche in altre situazioni sanitarie. Durante la pandemia i malati rari hanno faticato a farsi riconoscere lo status (articolo 26 del “Cura Italia”) che permette di assentarsi dal lavoro o avere accesso allo smart working. E peccato che si sia pensato al bonus monopattini ma non a sostenere i caregiver dei disabili gravi».

Sul piano delle cure, la novità maggiore degli ultimi anni è la terapia genica per l’atrofia muscolare spinale (Sma) di tipo 1: «Per motivi di sicurezza finora è autorizzata solo fino ai sei mesi di vita del bambino», osserva Scopinaro. Ma questa circostanza ha reso ancora più evidente l’opportunità di incrementare gli screening neonatali, già previsti per 40 malattie metaboliche dal 2017: «Un progetto pilota di screening regionale sulla Sma avviato in Toscana e Lazio sembra incoraggiante – riferisce Taruscio –. È in fase di valutazione presso le istituzioni competenti se e quando estenderlo su scala nazionale: poter somministrare la terapia disponibile il più precocemente possibile cambia per sempre il destino di questi bambini».

Cruciale, anche in pandemia, avere informazioni: «Molto utili risultano i numeri verdi dell’Iss (800.896949) e di Uniamo (800.662541), dove rispondono esperti in grado di fornire adeguato counseling. Le domande sono venute soprattutto dai malati sulle relazioni tra la loro patologia e il virus, ma anche dagli operatori sanitari, per esempio sui vaccini. Importante è anche la condivisione, sul portale interistituzionale del ministero della Salute, malattierare.gov.it, di tutte le informazioni utili per il pubblico (diffuse anche con la newsletter MonitoRare, a cui chiunque può iscriversi): dalle patologie ai centri di riferimento, alle associazioni di pazienti». L’esperienza italiana, che risale al 2001, ha dato al nostro Paese un ruolo di primo piano nelle Reti di riferimento europee (Ern), nate nel 2017. Le patologie sono state suddivise in 24 Reti e sono stati selezionati oltre 350 ospedali di riferimento, e più di 60 sono italiani. «L’Italia – conclude Domenica Taruscio – coordina tre di queste Reti di malattie rare: quelle metaboliche, quelle del connettivo e quelle dell’osso. In più ci sono progetti di ricerca co-finanziati dalla Commissione europea, come l’importante European Join Programming on Rare Diseases, che promuove innovazione e collaborazione internazionale per incrementare la ricerca scientifica, la diagnosi e una migliore gestione delle patologie; finanzia anche i corsi che organizziamo all’Iss sui registri per le patologie rare e sulle malattie senza diagnosi». Uno degli aspetti più positivi è «aver imparato a lavorare insieme e non in ordine sparso». Per il bene dei pazienti.