Il mio articolo sul lavoro che attende la commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione della pandemia, pubblicato sabato 2 marzo su Avvenire nelle pagine delle Idee
Avrà un compito impegnativo la commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione del Covid nel nostro Paese. Innanzi tutto dovrà non solo essere ma anche sembrare imparziale e rigorosa, per fugare i sospetti che sia uno strumento per gettare discredito sull’avversario politico. Infatti non solo il tono accusatorio di alcuni suoi compiti (indicati all’articolo 3 della legge istitutiva) sembra orientato a una valutazione negativa, ma l’intero dibattito parlamentare fino al voto finale alla Camera avrebbe potuto essere condotto su toni più collaborativi.
Perché di aspetti da indagare ce ne sono veramente molti. Operare una revisione di tante decisioni assunte e – soprattutto – di quali dati le hanno ispirate e motivate è indispensabile: per rispetto sia delle migliaia di concittadini morti, sia dei tanti operatori – sanitari in primis, ma anche di tutte le forze dell’ordine e del volontariato – che si sono impegnati strenuamente per assistere, guarire o lenire le ferite, sia di coloro che le ferite ancora sopportano, perché parenti di defunti o perché ancora toccati dalle conseguenze della malattia. Infine una tale revisione è doverosa e utile anche per la società intera: fare chiarezza e ammettere gli errori serve a non ripeterli e a riacquistare credibilità.
Sembra che ci sia più di un nervo scoperto e che dell’emergenza pandemica non si voglia più sentir parlare. E non aiuta, anzi è controproducente, un certo tipo di narrazione monocorde e autoassolutoria che vuol fare credere che si è fatto tutto quanto si poteva, date le circostanze. Anche il rapporto Istat sulla mortalità in Italia nel 2020 – pubblicato a giugno 2023 – ha ottenuto poca attenzione sui quotidiani.
Ma che il nostro Paese fosse impreparato ad affrontare quella che si è rivelata la più grande emergenza sanitaria mondiale da un secolo a questa parte è sotto gli occhi di tutti. Ci siamo incoraggiati dicendo “andrà tutto bene” ma, tirando le somme, ha funzionato solo l’organizzazione “militare” della campagna vaccinale da parte del commissario Figliuolo. Dall’inchiesta di Bergamo sono emerse numerose circostanze imbarazzanti, anche se non di valenza penale.
Gran parte della nostra impreparazione era figlia di un sistema sanitario sottofinanziato almeno dal 2006, e del quale piani di rientro e spending review non hanno fatto altro che indebolire le capacità di risposta. A dispetto delle rassicurazioni iniziali, l’Italia era priva di un piano pandemico aggiornato (segno di una trascuratezza “storica” verso la sanità): tra le conseguenze figura l’assenza di scorte adeguate di dispositivi di protezione individuale, o la capacità di organizzare azioni coordinate. La Cross (Centrale operativa remota per le operazioni di soccorso sanitario) ha effettuato tra marzo e maggio 2020 solo 116 trasferimenti di pazienti (di cui 76 con Covid), mentre in alcuni ospedali i malati morivano per mancanza di posti in terapia intensiva.
Alla sfortuna di essere stato tra i primi Paesi colpiti in Occidente, l’Italia ha aggiunto una sottovalutazione del rischio: lo dimostrano sia la prevalente preoccupazione di non fomentare razzismo quando nel gennaio 2020 fu ricoverata la coppia di turisti cinesi sia le frettolose richieste di “ripartenza” dopo la prima settimana di restrizioni in Lombardia, venute da tutti i colori politici. E anche se l’Organizzazione mondiale della sanità ci ha messo del suo, con i suoi avvisi tardivi e ondivaghi (mascherine sì o no?), il clima di paura ha spesso impedito una corretta valutazione dei pericoli e delle misure per affrontarli, insistendo – nonostante le incertezze – su provvedimenti inutili o vessatori e prendendo decisioni sull’onda delle emozioni.
Si sono ignorati o sottovalutati, nel bilanciamento tra costi e benefici, i danni anche a lungo termine che avrebbero provocato i lockdown: per una malattia in cui l’età media dei morti è sempre risultata intorno agli 80 anni, si sono dimenticati i problemi dei giovani, a cui è stata negata ogni socialità per lunghi periodi (abbiamo il record dei giorni di chiusura delle scuole tra i Paesi Ocse). E stanno emergendo ulteriori conseguenze negative: nella preparazione scolastica e nella crescita di disturbi psichici (depressione, ansia, autolesionismo). Così come si sono trascurati i danni che le difficoltà di accesso alle cure avrebbero avuto su altre malattie: in primis tumori e patologie cardiovascolari, ma anche per tutti i disabili.
Infine i vaccini. La commissione parlamentare non può mettere in discussione studi scientifici approvati dagli enti regolatori internazionali. Ma è necessario ammettere che resta un grave vulnus il fatto che siano tuttora secretati i contratti di acquisto decisi dalla Commissione Europea con le aziende farmaceutiche, le quali solo a distanza di tempo hanno ricordato che i loro prodotti erano stati approvati per proteggere dalle conseguenze gravi della malattia, non dal contagio. Nel frattempo al presidente del Consiglio è stato fatto dire che due persone vaccinate in una stanza erano sicure di non contagiarsi. Così come scarsa è stata l’attenzione agli effetti collaterali di un tipo di vaccino mai sperimentato prima. Senza dimenticare una comunicazione talvolta farraginosa e contraddittoria: le indicazioni sul vaccino AstraZeneca sono state capovolte in 24 ore. Il tutto ha prodotto una perdita di credibilità anche delle autorità sanitarie e degli scienziati: diversi rapporti mostrano un calo di fiducia dei cittadini verso le vaccinazioni in generale. Questo può diventare un problema grave di sanità pubblica: il calo delle coperture vaccinali non si recupererà solo puntando il dito su no-vax ignoranti e pericolosi ma ammettendo gli errori compiuti, e coinvolgendo e convincendo la popolazione.
Di questioni su cui far luce la commissione ne ha molte, e non per una foga giustizialista. Occorre che lo faccia con serietà e accuratezza, magari servendosi di esperti diversi da quelli che sono stati più esposti durante i quattro anni passati, per una questione di opportunità e per evitare possibili conflitti di interesse. Ai commissari quindi il compito di svolgere il loro lavoro nell’interesse dei cittadini e non per un ipotetico vantaggio politico di parte.