La ricerca condotta da un team italiano svela il ruolo nello sviluppo dei neuroni svolto da una proteina finora ignota, una scoperta che potrebbe avere importanza anche per gli studi sulla più comune forma di demenza. La mia intervista al professor Fabio Benfenati, pubblicata oggi su Avvenire
La ricerca scientifica in ambito neurologico è tra le più complesse e delicate: studia malattie neurodegenerative che compromettono le funzioni cerebrali, con effetti a volte devastanti, ma trova enormi difficoltà a individuare molecole veramente efficaci. Per questo è da salutare con interesse la scoperta di un team multidisciplinare italiano che ha individuato un gene e una proteina (il lavoro è pubblicato su Cell Reports) che sono implicati nello sviluppo neuronale e che potrebbero avere un ruolo nella patogenesi della malattia di Alzheimer. Proprio per la forma di demenza più comune si è registrata nei giorni scorsi la rinuncia del colosso farmaceutico Pfizer a proseguire le ricerche (anche il ministro della Salute Beatrice Lorenzin si è detta preoccupata). Il neurologo Fabio Benfenati, responsabile del Centro di neuroscienze e tecnologie sinaptiche dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Genova, spiega il significato di questo studio – in collaborazione tra Iit di Genova, Università di Genova (Silvia Giovedì) e Università Vita-Salute San Raffaele di Milano (Flavia Valtorta) – e gli ostacoli che motivano le mosse delle aziende farmaceutiche. «Obiettivamente è molto difficile trovare farmaci efficaci per la cura delle patologie neurologiche – osserva Benfenati, che insegna Neurofisiologia all’Università di Genova –, di molecole ce ne sono veramente poche, e gli enormi costi della ricerca non vengono ripagati».
La vostra ricerca porta qualche speranza negli studi sulle malattie neurologiche. Come è nata?
È partita da una collaborazione con un gruppo americano di bioinformatica che metteva in relazione prodotti genici sconosciuti con funzioni possibili, che devono però essere valutate sperimentalmente. Di questo gene APache non si sapeva nulla e quindi non entrava neanche negli screening genici: abbiamo visto che è espresso solo dai neuroni, e con una serie di studi di localizzazione e funzionali abbiamo visto che è una proteina molto importante per il traffico di membrana, cioè l’attività che le cellule svolgono incessantemente durante la crescita e nella trasmissione sinaptica. Il traffico di membrana è un’attività continua nei neuroni, sia durante lo sviluppo per crescere le complesse arborizzazioni che formano i circuiti nervosi, sia nel trasferimento delle informazioni in cui vescicole di neurotrasmettitore vengono rilasciate a frequenze talora altissime.
Dove intervengono il gene e la proteina che avete studiato?
Quando un neurone nasce è una cellula sferica, poi comincia a emettere prolungamenti come fossero rami di un albero: questi processi, guidati dalla crescita del citoscheletro (lo scheletro cellulare), implicano aggiunta di membrana. I neuroni, sia in vitro sia nei vari strati della corteccia, se sono privati di questa proteina vanno incontro a processi abortivi, e hanno difficoltà a elaborare i prolungamenti. Nei neuroni maturi i neurotrasmettitori sono contenuti in vescicole sinaptiche che devono fondersi con la membrana cellulare per liberare il proprio contenuto, e la cui membrana deve poi essere rimossa dalla membrana cellulare per formare nuove vescicole. In questo traffico di membrana A-Pache interviene nei processi che servono a rigenerare le vescicole, interagendo con la proteina adattatrice AP2 alfa, che serve al recupero delle vescicole.
Cosa succede se manca?
Stiamo studiando se mutazioni a carico del gene APache possano causare patologie dello sviluppo cerebrale, come encefalopatie epilettiche. E poiché APache è molto importante per la sopravvivenza dei neuroni, stiamo studiando se nelle patologie neurodegenerative ci sono alterazioni primarie di questa proteina. Dati preliminari su tessuti umani di malattia di Alzheimer mostrano effettivamente diminuzioni neilivelli di questa proteina.
Pfizer ha deciso di rinunciare alle ricerche sull’Alzheimer. Cosa ne pensa?
Stupisce perché era una delle aziende con la ricerca più avanzata. Altre industrie, come Roche o Gsk, avevano già limitato notevolmente gli investimenti nel campo delle neuroscienze. Tra il tempo e i finanziamenti necessari per la ricerca di molecole efficaci per il sistema nervoso e quello necessario per le sperimentazioni di fase I, II e III passano almeno dieci anni, mentre la durata del brevetto non supera i venti anni. Evidentemente per un ente profit il tempo per lo sfruttamento economico non è sufficiente per ripagare gli enormi costi della ricerca, anche se la diffusione di queste patologie è in grande aumento.
Studi come il vostro possono far invertire la rotta?
In effetti la ricerca sul sistema nervoso rischia di essere sviluppata per lo più in ambito accademico (università ed enti di ricerca) da realtà che tuttavia non possono sostituire la ricerca industriale. Possono stimolarla e fornire spunti, ma lo sviluppo industriale delle nuove terapie, che include i lunghi processi di sperimentazione nell’animale e nell’uomo, può essere sostenuto solo dalle aziende farmaceutiche. Peccato che in Italia i finanziamenti per la ricerca di base e preclinica siano molto scarsi e che vi sia poca sinergia tra industria e accademia.