Diagnosi di Sla e angina refrattaria: ricerche d’eccellenza negli Irccs milanesi

Scoperte e studi sulle malattie neurodegenerative all’Irccs Santa Maria Nascente della Fondazione Don Gnocchi e sulle patologie cardiache all’Irccs Centro cardiologico Monzino, entrambi impegnati anche contro il Covid-19. Ripubblico, in forma estesa, due articoli usciti su Avvenire la scorsa settimana

fioriUn metodo innovativo e semplice per porre diagnosi di sclerosi laterale amiotrofica (Sla) da un campione di saliva, che potrebbe rivelarsi utile anche per altre malattie neurodegenerative come Alzheimer e Parkinson. E che viene testato per individuare pazienti affetti da Covid-19. Tutto questo è nel progetto attuato da due Irccs milanesi della Rete delle neuroscienze e neuroriabilitazione, il “Santa Maria Nascente” della Fondazione Don Gnocchi e l’Istituto Auxologico Italiano, e pubblicato sulla rivista open access Scientific Reports, del gruppo Nature. Coordinatrice del progetto è Marzia Bedoni, responsabile di Labion, Laboratorio di Nanomedicina e Biofotonica Clinica, della Fondazione Don Gnocchi: «Ora stiamo lavorando con l’Università di Milano-Bicocca per automatizzare l’analisi, grazie a tecniche di machine learning, e renderla quindi facilmente fruibile nell’uso clinico». 

Per la Sla non solo non esistono cure risolutive, ma anche la diagnosi viene fatta con fatica: «La malattia ha spesso un decorso rapido – ricorda Marzia Bedoni – e avere una diagnosi al primo mese può aiutare a iniziare presto i pochi trattamenti farmacologici e riabilitativi che oggi esistono, per ritardare la comparsa di alcuni sintomi». Lo studio è stato finanziato dal ministero della Salute (primo autore Cristiano Carlomagno) ed è stato svolto in collaborazione con l’Unità di riabilitazione intensiva polmonare dell’Irccs “Santa Maria Nascente”, diretta da Paolo Banfi, e con l’Unità operativa di neurologia e laboratorio di neuroscienze dell’Irccs Auxologico, diretta da Vincenzo Silani. 

«Già da alcuni anni abbiamo introdotto nel nostro laboratorio – racconta Marzia Bedoni – la spettroscopia Raman, un metodo inventato dal fisico indiano Venkata Raman (insignito del premio Nobel nel 1930) che utilizza luce laser e restituisce uno spettro che identifica i legami molecolari che ci sono all’interno di una sostanza e quindi i suoi componenti. Solitamente viene usato nell’ambito della fisica e della scienza dei materiali, noi l’abbiamo testato su campioni biologici: cellule, tessuti, organi. Un uso piuttosto raro negli ospedali. Al Labion lo affianchiamo a una piattaforma di altri strumenti sulla base di biofotonica, piattaforma avanzata che utilizza metodo insoliti e nuovi in ambito biologico». 

Analizzare piccoli campioni di saliva con la spettroscopia Raman si è rivelata un’idea vincente da molti punti di vista: «Innanzi tutto – prosegue Bedoni – non è un metodo invasivo, il campione è semplice da ottenere. Inoltre la saliva è una sostanza cristallina, non viscosa, e condivide con il sangue circa 2.500 proteine. In più è rapido: dal prelievo del campione alla centrifuga del tampone e analisi della saliva con lo spettroscopio Raman passano poco più di dieci minuti». Dal confronto dei campioni di pazienti con Sla e persone sane «è emersa una differenza netta e abbiamo utilizzato tutto lo spettro come biomarcatore. Il metodo è altamente sensibile, quasi confrontabile con i metodi sino a oggi utilizzati della biologia molecolare, come la Pcr. Ora lo stiamo testando per altre patologie invalidanti, come Alzheimer e Parkinson: nella saliva di questi pazienti abbiamo rilevato indicazioni molecolari ben precise, simili tra loro per alcuni biomarcatori, e molto diverse entrambe da quelli della Sla». 

Il passo successivo passa per l’intelligenza artificiale: «Stiamo lavorando per automatizzare l’analisi, cioè per semplificarla attraverso tecniche di machine learning e di deep learning. Con il gruppo di informatici di Vincenzina Messina dell’Università di Milano-Bicocca sottoponiamo i nostri risultati con la spettroscopia Raman all’analisi con modelli matematici su grandi numeri di campioni (big data), in modo tale da semplificare il processo e poter realizzare strumenti che siano in grado di fornire al medico clinico un risultato chiaro». 

Lo sguardo si è allargato al Covid-19: «Abbiamo analizzato campioni di saliva di pazienti positivi al Sars-Cov-2 e stiamo costruendo un modello. I primi dati sono confortanti: in maniera statisticamente significativa riusciamo a distinguere i pazienti dai sani. Potrebbe diventare – conclude Bedoni – uno strumento miniaturizzato per eseguire analisi veloci in Pronto soccorso o in altri ambienti (aeroporti, stazioni) perché il risultato arriva in pochi minuti».

 

Questa l’intervista a Giulio Pompilio, neo direttore scientifico dell’Irccs Monzino

«Si cura meglio dove si fa ricerca non è per noi uno slogan, ma il modello a cui ci ispiriamo per realizzare il nostro compito di Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico. E lo stiamo dimostrando anche con il Covid-19». Dal 1° luglio il cardiochirurgo Giulio Pompilio è il nuovo direttore scientifico dell’Irccs Centro cardiologico Monzino di Milano, dove si è formato e ha svolto la sua carriera: docente di Chirurgia cardiaca all’Università di Milano, Pompilio era già vice direttore scientifico e responsabile dell’Unità di ricerca di Biologia vascolare e Medicina rigenerativa al Monzino. 

Come avete affrontato l’emergenza Covid-19? 

È una sfida sia clinica, sia di ricerca. Il Monzino è stato un hub per cardiologia e cardiochirurgia, come richiesto da Regione Lombardia: ci siamo fatti carico delle urgenze di ospedali dove questi reparti erano chiusi. Abbiamo rilevato che il Covid-19 è stato un deterrente per le urgenze: abbiamo curato pazienti più gravi per il ritardo con cui si presentavano, anche in casi di infarti e dissezioni aortiche. 

Sul piano della ricerca, abbiamo scoperto dati interessanti sulle alterazioni che il virus provoca sulle piastrine e quindi a livello di coagulazione e di trombosi. Infine stanno emergendo dati (da uno studio condotto con i colleghi dell’ospedale San Paolo di Milano) sulla permanenza del virus nel muscolo cardiaco, anche in pazienti che non sviluppano segni clinici di infiammazione. 

Medicina rigenerativa in cardiologia: a che punto siamo? 

Abbiamo al Monzino l’unica sperimentazione clinica in Italia di terapia cellulare su una patologia senza cura: l’angina refrattaria, una forma di cardiopatia ischemica che dopo l’iter terapeutico (stent, bypass) non ha più alcuna cura e lascia il paziente in preda a pesanti dolori, anche dopo piccoli sforzi, non controllabili per via medica. Oltre ad accorciare la vita, la rende veramente poco vivibile. Usiamo cellule progenitrici del midollo osseo del paziente, purificate al Laboratorio Verri dell’ospedale San Gerardo di Monza, e le iniettiamo nelle zone sofferenti del cuore, dove creano un microcircolo che supplisce alla carenza di ossigeno dovuta all’occlusione delle arterie coronarie. Il nostro studio di fase 1 (pubblicato l’anno scorso) ha mostrato non solo che la terapia è sicura, ma anche che 7 pazienti su 10 migliorano in maniera importante. Ora siamo in attesa dell’autorizzazione allo studio di fase 2 per misurarne l’efficacia. Stiamo anche sviluppando prodotti cellulari più efficaci, che abbiamo scoperto e brevettato, che vengono non più dal midollo osseo ma dalle cellule mesenchimali stromali, presenti nel cuore, selezionando le cellule con maggiori capacità angiogeniche (cioè di formare piccoli vasi). 

Lei è stato direttore scientifico di Arisla: c’è interazione tra la ricerca sul cuore e quella sul cervello? 

L’asse cuore-cervello è uno degli campi di ricerca più interessanti in cardiologia. Abbiamo scoperto che la depressione, associata anche a geni predisponenti, è fattore di rischio importante per la mortalità cardiaca. E poi che sembrano esservi cause neuro-ormonali per la malattia di tako-tsubo, il cosiddetto “crepacuore“: uno stress emotivo molto forte (soprattutto nelle donne) è in grado di fermare il cuore come in un infarto. Sono patologie che stiamo studiando sia in clinica sia in laboratorio. Infatti il modello Monzino è caratterizzato dalla stretta interazione – anche fisica – tra i due ambiti: i laboratori sono nel piano sotto i reparti di degenza, permettendo un rapido e proficuo scambio tra medici e ricercatori. L’interazione intorno al paziente risulta così molto forte. 

«Robotica e terapie hi-tech per malati e disabili»

Intervista a Maria Chiara Carrozza, nuovo direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi, che illustra lo spirito che anima chi applica la scienza e la tecnologia più avanzata nell’assistenza riabilitativa, sulla scia del desiderio del sacerdote ora beato che voleva offrire il meglio ai suoi mutilatini. L’articolo è stato pubblicato su Avvenire del 1° febbraio, nelle pagine della sezione è vita

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Maria Chiara Carrozza (Fondazione Don Gnocchi)

«La Fondazione Don Gnocchi mette a disposizione dei pazienti più fragili o che rischiano di essere trascurati le tecnologie più avanzate. In più la sua distribuzione sul territorio nazionale consente di reclutare un gran numero di soggetti per sperimentare e validare scientificamente i protocolli di cura per offrirli poi alla sanità nazionale, che è il compito proprio di ogni Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs)». Maria Chiara Carrozza, 52 anni, di Pisa, è da poche settimane direttore scientifico della Fondazione Don Carlo Gnocchi onlus: laureata in fisica e docente di Bioingegneria industriale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, di cui è stata anche rettore, è stata ministro per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca (Miur) del governo Letta, ha fatto ricerca ponte tra neuroscienze e robotica, fondato una start-up e si è occupata di protezione della proprietà intellettuale; dal novembre 2016 è anche presidente del Gruppo nazionale bioingegneria.

Dal curriculum sembrerebbe la persona giusta al posto giusto, è così? 

Sono venuta qui spinta da una forte motivazione, perché conosco la Fondazione da quando ho favorito la convenzione tra la Scuola superiore Sant’Anna con il Centro Don Gnocchi di Firenze. Abbiamo creato un laboratorio congiunto (MARe Lab), dove ho lavorato come ricercatrice. Mi sento di continuare la lunga tradizione di collaborazione tra la bioingegneria italiana e la Fondazione Don Gnocchi. L’esperienza che ora affronto rappresenta un po’ il completamento del mio percorso nella bioingegneria: la ricerca traslazionale punta infatti a portare i suoi risultati direttamente a beneficio del paziente, nel suo percorso di riabilitazione, per accompagnarlo al recupero della sua vita sociale, affettiva, lavorativa, limitando anche i costi per la famiglia e per la società.

La tecnologia robotica in ambito sanitario è un aiuto o rischia di snaturare la relazione di cura? 

La Fondazione Don Gnocchi ha una grandissima forza che è l’etica della centralità della persona, concentrandosi sui suoi bisogni piuttosto che sull’aspetto scientifico puro. L’obiettivo della tecnologia è trasformarsi in un protocollo di riabilitazione: se per un ictus un paziente subisce un’emiparesi, il terapista lo aiuta con una ginnastica specifica, per esempio a recuperare il movimento del braccio. Questo esercizio può essere fatto anche con il supporto di una macchina: il paziente indossa un manipolatore e, sotto la supervisione del terapista, viene stimolato a compiere movimenti attraverso un’interfaccia specifico o un videogame. Il braccio robotico misura esattamente la forza esercitata, il movimento residuo e fornisce al terapista – che resta al centro del programma di riabilitazione – una serie di parametri utili. Fino a quando il soggetto riapprenderà il movimento corretto e riuscirà a compierlo in modo autonomo. Centrale resta comunque l’intenzionalità da parte del paziente, non è mai un movimento passivo: è anche una sfida cognitiva.

Quali risultati sono stati già ottenuti? 

Di recente sono stati presentati a Roma i dati preliminari di una ricerca dei centri Don Gnocchi che confermano l’efficacia della riabilitazione robotica o tecnologicamente assistita. Però il percorso è ancora lungo: vogliamo dimostrare l’efficacia di questi strumenti molto potenti nelle mani del terapista. Il valore di questo studio sta nel fatto che ha riguardato 8-9 centri in Italia, coinvolgendo un numero significativo di pazienti. Lo studio multicentrico è fondamentale per il processo di validazione delle terapie, da poter poi offrire alla sanità nazionale e regionale. E un altro punto di forza della Fondazione è proprio la sua presenza diffusa sul territorio nazionale (in nove regioni dal Piemonte alla Basilicata, ndr): questo permette anche di ridurre la disuguaglianza sociale nell’accesso alle cure, portando la riabilitazione il più possibile vicino a dove il paziente vive. La ricerca della Fondazione non riguarda solo la robotica, ma anche le nanotecnologie per la diagnostica, i marcatori per la sclerosi multipla, altre tecniche o terapie puramente mediche, o di imaging biomedicale, il neuroimaging.

Come vede quindi il suo compito di direttore della ricerca della Fondazione Don Gnocchi? 

Sono affascinata dall’idea di trasformare categorie deboli in categorie che sperimentano gli strumenti più all’avanguardia e che hanno la possibilità, con un piccolo sforzo, di vivere meglio una malattia o una disabilità, evitando che diventi causa di grande solitudine. Persone che per le loro disabilità sono considerate deboli e bisognose diventano protagoniste di un rilancio tecnologico e delle sperimentazioni più all’avanguardia: le protesi per gli amputati sono sempre state molto semplici e uno stigma di disgrazia; oggi un ginocchio elettronico è un grande risultato della bioingegneria, con materiali sofisticati e strumenti avveniristici come il neurocontrollo. Mio obiettivo è quindi lavorare nella tradizione della Fondazione in questo ambito di malattie rare e neurodegenerative, i cui pazienti sono spesso considerati solo un costo sociale e hanno a disposizione pochi farmaci e risorse. La potenza del messaggio di don Gnocchi (che voleva poter offrire il meglio ai suoi pazienti) è proprio rovesciare la medaglia: trasformare un destino che sembra negativo e di marginalità in qualcosa che serve alla sperimentazione di nuova scienza e quindi farne un punto di forza.